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Il patto per la ripresa fondato sul lavoro e le responsabilità di imprese e sindacati 

La strada per uno sviluppo equilibrato e sostenibile, nelle condizioni e nel tempo, passa da originali sintesi tra costruzione di ricchezza e coesione sociale, tra produttività e solidarietà. Sta qui il valore politico e programmatico di quel “patto per la ripresa” annunciato dal premier Mario Draghi all’Assemblea di Confindustria, prendendo spunto dal discorso pronunciato dal presidente dell’associazione degli imprenditori Carlo Bonomi. Servono relazioni industriali positive, costruite sul dialogo e non sulle contrapposizioni ideologiche e pregiudiziali. Intese sui temi del lavoro e dei redditi. Accordi che favoriscano gli investimenti, l’innovazione, la competitività, l’inclusione di giovani e donne nei processi produttivi ma anche la valorizzazione di conoscenze e competenze dei lavoratori più anziani, che non sono certo da “rottamare”.

L’invito di Draghi, rivolto non solo a industriali e sindacati ma anche ai responsabili dei partiti, è molto chiaro: la ripresa economica in corso, pur se impetuosa (il 6% di crescita del Pil quest’anno, il 4% nel 2022), è molto fragile. In gran parte  è un “rimbalzo”, un recupero delle perdite drammatiche nella lunga stagione del contagio da Covid19. E dunque va consolidata, con investimenti, innovazioni, creazione di lavoro stabile.

Le imprese italiane più dinamiche, le manifatture presenti sui mercati internazionali, allenate nella gara competitiva, già da tempo investono, puntano sulla qualità, crescono. Ma deve crescere tutto il Paese, dai servizi alla pubblica amministrazione, recuperando produttività, altrimenti, dopo il “rimbalzo”, torneremmo alla palude dell’economia stagnante. E non potremmo ripagare il grande debito pubblico accumulato anche per fare fronte all’emergenza sanitaria ed economica.

I fondi del Pnrr (in gran parte prestiti, da restituire) sono una straordinaria dotazione, a disposizione per modernizzare e sviluppare finalmente il Paese, permettere gli investimenti su ambiente e trasformazione digitale, creare lavoro di qualità. Ma vanno spesi presto e bene, accompagnati da riforme essenziali (la pubblica amministrazione, la giustizia, il mercato del lavoro, la formazione, etc.).

Ecco perché servono relazioni industriali positive, con la partecipazione responsabile degli attori sociali, le associazione delle imprese e i sindacati: per un confronto, aperto e dialettico, che abbia ben chiaro il valore dello sviluppo e non si estenui in contrapposizioni di parte. Troppo importante la sfida dello sviluppo sostenibile, troppo delicata la sorte dei nostri figli e nipoti, in termini di sicurezza ambientale e di opportunità di vita migliore, per sprecare questa occasione.

Il pensiero va ai momenti cruciali della nostra storia repubblicana, quando le forze sociali, appunto, ben stimolate dalle istituzioni e della politica, hanno saputo individuare e seguire l’orizzonte del bene comune.     

In tempi incerti, infatti, vale la pena tornare ai valori fondamentali della politica e dell’economia. E rileggere innanzitutto l’articolo 1 della nostra Costituzione, “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, con quel “lavoro” individuato non tanto come merce da scambiare con salario ma come valore di fondo, di identità personale, di cittadinanza, di libertà e realizzazione personale e sociale. Il lavoro in un contesto di diritti e doveri, per fare da leva di sviluppo.

Nel difficile dopoguerra, con l’Italia distrutta, il patto tra la Confindustria di Angelo Costa e la Cgil di Giuseppe Di Vittorio, per ricostruire “prima le fabbriche, poi le case”, aveva individuato, con tempestività e chiarezza, le priorità dell’impegno comune. E nel corso del tempo, di fronte a momenti cruciali di crisi, le forze sociali hanno sempre saputo trovare un’intesa generosa e responsabile, facendosi carico dell’interesse generale. La battaglia contro il terrorismo e la risposta alla crisi economica degli anni Settanta, con l’accordo tra la Confindustria guidata da Gianni Agnelli e i sindacati legati dalla leadership di Luciano Lama, segretario della Cgil. E la “concertazione” impostata da Carlo Azeglio Ciampi, ministro dell’Economia e poi presidente del Consiglio, per uscire dalla drammatica crisi economica, politica e istituzionale dei primi anni Novanta e incamminarsi sulla strada dell’euro e dell’integrazione europea. 

Sono stati passaggi fondamentali della nostra storia. In cui l’Italia ha saputo “fare bene l’Italia”, rivelandosi nazione lungimirante e generosa, intraprendente e inclusiva, capace di definire e perseguire un buon destino comune.

Oggi siamo di fronte a un nuovo capitolo da scrivere, per superare la lunga stagione della stagnazione, andare oltre la crisi pandemica, vivere da protagonisti l’epoca dell’economia della conoscenza e della sostenibilità.

Il lavoro torna ad avere centralità. Non i lavoretti precari, né i sussidi infiniti. Ma una prospettiva di qualità, che faccia i conti con le evoluzioni delle tecnologie digitali e dei mercati globali. E dunque un incrocio tra formazione, qualificazione, innovazione produttiva, flessibilità, creatività (“quota 100” per le pensioni o il fallimentare reddito di cittadinanza non fanno parte di questo orizzonte). E, naturalmente, sicurezza sul posto di lavoro, un punto fondamentale, proprio mentre aumentano gli incidenti e le morti sul lavoro, inaccettabili.

La sfida riguarda imprese e scuola, mercato per lavoro (per superare il paradosso per cui abbiamo milioni di disoccupati e sotto-occupati, ma le imprese lamentano a ragione di non trovare persone da assumere). E ammortizzatori sociali, per accompagnare il passaggio da un lavoro all’altro.

Il governo Draghi, nell’indicare il “patto per la ripresa”, ha ben chiaro questo orizzonte, prepara gli strumenti per affrontarlo. Le imprese (l’assemblea di Confindustria ne è conferma) sono pronte a fare la loro parte. I sindacati mostrano una responsabile inclinazione a discutere. La crescita può fare un passo avanti.  

La strada per uno sviluppo equilibrato e sostenibile, nelle condizioni e nel tempo, passa da originali sintesi tra costruzione di ricchezza e coesione sociale, tra produttività e solidarietà. Sta qui il valore politico e programmatico di quel “patto per la ripresa” annunciato dal premier Mario Draghi all’Assemblea di Confindustria, prendendo spunto dal discorso pronunciato dal presidente dell’associazione degli imprenditori Carlo Bonomi. Servono relazioni industriali positive, costruite sul dialogo e non sulle contrapposizioni ideologiche e pregiudiziali. Intese sui temi del lavoro e dei redditi. Accordi che favoriscano gli investimenti, l’innovazione, la competitività, l’inclusione di giovani e donne nei processi produttivi ma anche la valorizzazione di conoscenze e competenze dei lavoratori più anziani, che non sono certo da “rottamare”.

L’invito di Draghi, rivolto non solo a industriali e sindacati ma anche ai responsabili dei partiti, è molto chiaro: la ripresa economica in corso, pur se impetuosa (il 6% di crescita del Pil quest’anno, il 4% nel 2022), è molto fragile. In gran parte  è un “rimbalzo”, un recupero delle perdite drammatiche nella lunga stagione del contagio da Covid19. E dunque va consolidata, con investimenti, innovazioni, creazione di lavoro stabile.

Le imprese italiane più dinamiche, le manifatture presenti sui mercati internazionali, allenate nella gara competitiva, già da tempo investono, puntano sulla qualità, crescono. Ma deve crescere tutto il Paese, dai servizi alla pubblica amministrazione, recuperando produttività, altrimenti, dopo il “rimbalzo”, torneremmo alla palude dell’economia stagnante. E non potremmo ripagare il grande debito pubblico accumulato anche per fare fronte all’emergenza sanitaria ed economica.

I fondi del Pnrr (in gran parte prestiti, da restituire) sono una straordinaria dotazione, a disposizione per modernizzare e sviluppare finalmente il Paese, permettere gli investimenti su ambiente e trasformazione digitale, creare lavoro di qualità. Ma vanno spesi presto e bene, accompagnati da riforme essenziali (la pubblica amministrazione, la giustizia, il mercato del lavoro, la formazione, etc.).

Ecco perché servono relazioni industriali positive, con la partecipazione responsabile degli attori sociali, le associazione delle imprese e i sindacati: per un confronto, aperto e dialettico, che abbia ben chiaro il valore dello sviluppo e non si estenui in contrapposizioni di parte. Troppo importante la sfida dello sviluppo sostenibile, troppo delicata la sorte dei nostri figli e nipoti, in termini di sicurezza ambientale e di opportunità di vita migliore, per sprecare questa occasione.

Il pensiero va ai momenti cruciali della nostra storia repubblicana, quando le forze sociali, appunto, ben stimolate dalle istituzioni e della politica, hanno saputo individuare e seguire l’orizzonte del bene comune.     

In tempi incerti, infatti, vale la pena tornare ai valori fondamentali della politica e dell’economia. E rileggere innanzitutto l’articolo 1 della nostra Costituzione, “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, con quel “lavoro” individuato non tanto come merce da scambiare con salario ma come valore di fondo, di identità personale, di cittadinanza, di libertà e realizzazione personale e sociale. Il lavoro in un contesto di diritti e doveri, per fare da leva di sviluppo.

Nel difficile dopoguerra, con l’Italia distrutta, il patto tra la Confindustria di Angelo Costa e la Cgil di Giuseppe Di Vittorio, per ricostruire “prima le fabbriche, poi le case”, aveva individuato, con tempestività e chiarezza, le priorità dell’impegno comune. E nel corso del tempo, di fronte a momenti cruciali di crisi, le forze sociali hanno sempre saputo trovare un’intesa generosa e responsabile, facendosi carico dell’interesse generale. La battaglia contro il terrorismo e la risposta alla crisi economica degli anni Settanta, con l’accordo tra la Confindustria guidata da Gianni Agnelli e i sindacati legati dalla leadership di Luciano Lama, segretario della Cgil. E la “concertazione” impostata da Carlo Azeglio Ciampi, ministro dell’Economia e poi presidente del Consiglio, per uscire dalla drammatica crisi economica, politica e istituzionale dei primi anni Novanta e incamminarsi sulla strada dell’euro e dell’integrazione europea. 

Sono stati passaggi fondamentali della nostra storia. In cui l’Italia ha saputo “fare bene l’Italia”, rivelandosi nazione lungimirante e generosa, intraprendente e inclusiva, capace di definire e perseguire un buon destino comune.

Oggi siamo di fronte a un nuovo capitolo da scrivere, per superare la lunga stagione della stagnazione, andare oltre la crisi pandemica, vivere da protagonisti l’epoca dell’economia della conoscenza e della sostenibilità.

Il lavoro torna ad avere centralità. Non i lavoretti precari, né i sussidi infiniti. Ma una prospettiva di qualità, che faccia i conti con le evoluzioni delle tecnologie digitali e dei mercati globali. E dunque un incrocio tra formazione, qualificazione, innovazione produttiva, flessibilità, creatività (“quota 100” per le pensioni o il fallimentare reddito di cittadinanza non fanno parte di questo orizzonte). E, naturalmente, sicurezza sul posto di lavoro, un punto fondamentale, proprio mentre aumentano gli incidenti e le morti sul lavoro, inaccettabili.

La sfida riguarda imprese e scuola, mercato per lavoro (per superare il paradosso per cui abbiamo milioni di disoccupati e sotto-occupati, ma le imprese lamentano a ragione di non trovare persone da assumere). E ammortizzatori sociali, per accompagnare il passaggio da un lavoro all’altro.

Il governo Draghi, nell’indicare il “patto per la ripresa”, ha ben chiaro questo orizzonte, prepara gli strumenti per affrontarlo. Le imprese (l’assemblea di Confindustria ne è conferma) sono pronte a fare la loro parte. I sindacati mostrano una responsabile inclinazione a discutere. La crescita può fare un passo avanti.  

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