Il peso delle parole cariche di senso e valori, anche per “salvare il capitalismo da se stesso”
Ci sono parole essenziali, per fare funzionare i mercati e dunque fare crescere un’economia sostenibile. Parole come “fiducia”: la base dei legami che consentono scambi, vendite, acquisti, investimenti. Parole come “regole”: le norme e i comportamenti che traducono valori in grado di evitare che l’interesse di pochi e più forti vada a svantaggio degli altri attori più deboli nel mondo del lavoro e dei commerci. Parole come “conoscenza”: sapere cosa e come fare, ma anche perché farlo, usare strumenti per capire, esprimere il proprio punto di vista, giudicare. Per poter stare sui mercati finanziari senza essere vittime di speculazioni e raggiri è necessario abbattere al massimo “l’asimmetria informativa”, il divario tra chi mette in piedi un’operazione finanziaria e chi la subisce. L’economia è un processo di conoscenze, che si manifestano in competenze ma anche in posizioni critiche. Ecco un’altra parola: “critica”. Senza, non ci sono né progresso né libertà. Senza libertà, non c’è mercato. Il circuito virtuoso delle parole continua.
Le parole, studiate e ben dette, rispettando senso, grammatica e sintassi, dicono e definiscono il mondo. Evitano d’essere naviganti solitari in un oceano di chiacchiere”, per riprendere un’efficace sintesi di Massimo Cacciari, acuto filosofo della politica. E saldano antiche e nuove alleanze tra popolo, cui appartiene la sovranità, ed élites della rappresentanza, delle imprese, del governo della cosa pubblica e dell’economia. Parole pesanti come pietre, ricordando la lezione democratica di Carlo Levi. Tutt’altro che vane parole al vento.
Insistere sulle parole, sulla necessità di essere parte attiva di una “opinione pubblica discorsiva”, capace cioè di fare e criticare “un discorso pubblico” (per usare le sempre valide categorie di Jurgen Habermas è essenziale proprio in tempi in cui cresce lo spazio di quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia”, il potere crescente concentrato, in politica e in economia, nelle mani di persone povere di conoscenze e competenze e forti invece nell’attitudine alla propaganda, ai proclami, alla proposta di ricette facili e semplicistiche per problemi complessi, all’utilizzo di paure e risentimenti, alla confusione tra comando (gli ordini, le imposizioni) e potere (che in democrazia è sempre abbinato all’equilibrio tra poteri diversi, alla critica e all’informazione come “cane da guardia” contro gli abusi del potere stesso).
In stagioni di crisi, provare ad andare alla radice delle parole e ricordarne senso e valore, è dunque un. esercizio quanto mai utile, anzi indispensabile.
Un esempio? Proviamo a ragionare sul lavoro, i diritti, la crisi, l’industria, le responsabilità dello sviluppo. E, contro il rischio di subire idee vaghe e confuse, cerchiamo di insistere su conoscenze e competenze e affidarci a buoni libri, per capire un po’ meglio e imparare a distinguere e decidere sui temi chiave dell’economia e dunque delle nostre vite. Libri come “Salviamo il capitalismo da se stesso” di Colin Crouch, Il Mulino. Crouch, sociologo contemporaneo tra i più autorevoli, ha insegnato alla London School of Economics e ha scritto saggi importanti, per il dibattito pubblico, da “Postdemocrazia” a “Quanto capitalismo può sopportare la società?”. Tutt’altro che apocalittico, analizza da tempo le ragioni della crisi di valori e competitività dei Paesi più industrializzati e benestanti, ha chiaro il percorso delle riforme per un’economia più sostenibile e giusta (dunque accettabile dall’opinione pubblica) e adesso documenta, con fatti e dati, come ogni uomo di cultura deve saper fare, “come contrastare il potere delle grandi corporations e dei super ricchi”. Dopo “il duro capitalismo industriale” tra Ottocento e inizio del Novecento e “il capitalismo riformato del secondo dopoguerra”, caratterizzato da sistemi di welfare e redistribuzione della ricchezza, adesso siamo in tempi di “capitalismo neo-liberista” che ha esasperato le conseguenze della globalizzazione e dell’innovazione hi tech: rapacità finanziaria, carenza di regole, ricchezza più concentrata in poche mani, diseguaglianze crescenti. E crisi: “Un neoliberismo incapace di far fronte alle esternalità che oggi minacciano la stessa vita umana e in particolare a quelle legate ai cambiamenti climatici”, un sistema che “ignorando le questioni sociali e ambientali, distruggerà le proprie risorse”. A questi poteri egoisti e irresponsabili, argomenta Crouch, si contrappongono “movimenti populisti che, ripiegati ostinatamente e illusoriamente entro confini nazionali, non riusciranno mai a imporre una qualche regolazione a livello sovranazionale”. Dunque, cosa fare? “Solo organismi con competenze internazionali come la Ue o l’Ocse, purché investiti d’un forte mandato democratico, potranno portare tutti i protagonisti ad abbandonare le proprie spinte autolesioniste”. Una sfida culturale e politica, di cittadinanza ben informata e responsabile.
Un ragionamento analogo vale anche quando di parla di diseguaglianze, redistribuzione, lavoro. Di migliori equilibri economici e sociali parla un libro essenziale, “Contro la povertà” di Emanuele Ranci Ortigosa, Francesco Brioschi Editore, con una prefazione di Tito Boeri (di cui vale la pena ricordare il recente, lucido pamphlet “Populismo e Stato sociale”, Laterza). Ranci Ortigosa, economista di grande prestigio e lunga esperienza, analizza le condizioni dei 17,5 milioni di persone che in Italia, secondo stime europee, sono a rischio povertà (nessun paese della Ue ne ha così tante) e prende atto dell’inadeguatezza delle attuali politiche di assistenza. Sa che il sostegno ai redditi più bassi è nei programmi di molte forze politiche ma anche che servono politiche non assistenzialiste ma tali da legare redditi bassi a nuovo lavoro e sviluppo economico generale, gestione dell’immigrazione e formazione per affrontare i radicali cambiamenti dei mercati e delle imprese.
Sono temi d’attualità, non solo nell’Italia alla prese con progetti e programmi d’un nuovo governo, ma anche in un’Europa che deve ricostruire legami e rapporti fondati su grandi valori, per non subire troppo difficoltà da egoismi e sovranismi. Un’Europa in cui condividere parole democratiche e liberali, cariche di valori e di senso.
Ci sono parole essenziali, per fare funzionare i mercati e dunque fare crescere un’economia sostenibile. Parole come “fiducia”: la base dei legami che consentono scambi, vendite, acquisti, investimenti. Parole come “regole”: le norme e i comportamenti che traducono valori in grado di evitare che l’interesse di pochi e più forti vada a svantaggio degli altri attori più deboli nel mondo del lavoro e dei commerci. Parole come “conoscenza”: sapere cosa e come fare, ma anche perché farlo, usare strumenti per capire, esprimere il proprio punto di vista, giudicare. Per poter stare sui mercati finanziari senza essere vittime di speculazioni e raggiri è necessario abbattere al massimo “l’asimmetria informativa”, il divario tra chi mette in piedi un’operazione finanziaria e chi la subisce. L’economia è un processo di conoscenze, che si manifestano in competenze ma anche in posizioni critiche. Ecco un’altra parola: “critica”. Senza, non ci sono né progresso né libertà. Senza libertà, non c’è mercato. Il circuito virtuoso delle parole continua.
Le parole, studiate e ben dette, rispettando senso, grammatica e sintassi, dicono e definiscono il mondo. Evitano d’essere naviganti solitari in un oceano di chiacchiere”, per riprendere un’efficace sintesi di Massimo Cacciari, acuto filosofo della politica. E saldano antiche e nuove alleanze tra popolo, cui appartiene la sovranità, ed élites della rappresentanza, delle imprese, del governo della cosa pubblica e dell’economia. Parole pesanti come pietre, ricordando la lezione democratica di Carlo Levi. Tutt’altro che vane parole al vento.
Insistere sulle parole, sulla necessità di essere parte attiva di una “opinione pubblica discorsiva”, capace cioè di fare e criticare “un discorso pubblico” (per usare le sempre valide categorie di Jurgen Habermas è essenziale proprio in tempi in cui cresce lo spazio di quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia”, il potere crescente concentrato, in politica e in economia, nelle mani di persone povere di conoscenze e competenze e forti invece nell’attitudine alla propaganda, ai proclami, alla proposta di ricette facili e semplicistiche per problemi complessi, all’utilizzo di paure e risentimenti, alla confusione tra comando (gli ordini, le imposizioni) e potere (che in democrazia è sempre abbinato all’equilibrio tra poteri diversi, alla critica e all’informazione come “cane da guardia” contro gli abusi del potere stesso).
In stagioni di crisi, provare ad andare alla radice delle parole e ricordarne senso e valore, è dunque un. esercizio quanto mai utile, anzi indispensabile.
Un esempio? Proviamo a ragionare sul lavoro, i diritti, la crisi, l’industria, le responsabilità dello sviluppo. E, contro il rischio di subire idee vaghe e confuse, cerchiamo di insistere su conoscenze e competenze e affidarci a buoni libri, per capire un po’ meglio e imparare a distinguere e decidere sui temi chiave dell’economia e dunque delle nostre vite. Libri come “Salviamo il capitalismo da se stesso” di Colin Crouch, Il Mulino. Crouch, sociologo contemporaneo tra i più autorevoli, ha insegnato alla London School of Economics e ha scritto saggi importanti, per il dibattito pubblico, da “Postdemocrazia” a “Quanto capitalismo può sopportare la società?”. Tutt’altro che apocalittico, analizza da tempo le ragioni della crisi di valori e competitività dei Paesi più industrializzati e benestanti, ha chiaro il percorso delle riforme per un’economia più sostenibile e giusta (dunque accettabile dall’opinione pubblica) e adesso documenta, con fatti e dati, come ogni uomo di cultura deve saper fare, “come contrastare il potere delle grandi corporations e dei super ricchi”. Dopo “il duro capitalismo industriale” tra Ottocento e inizio del Novecento e “il capitalismo riformato del secondo dopoguerra”, caratterizzato da sistemi di welfare e redistribuzione della ricchezza, adesso siamo in tempi di “capitalismo neo-liberista” che ha esasperato le conseguenze della globalizzazione e dell’innovazione hi tech: rapacità finanziaria, carenza di regole, ricchezza più concentrata in poche mani, diseguaglianze crescenti. E crisi: “Un neoliberismo incapace di far fronte alle esternalità che oggi minacciano la stessa vita umana e in particolare a quelle legate ai cambiamenti climatici”, un sistema che “ignorando le questioni sociali e ambientali, distruggerà le proprie risorse”. A questi poteri egoisti e irresponsabili, argomenta Crouch, si contrappongono “movimenti populisti che, ripiegati ostinatamente e illusoriamente entro confini nazionali, non riusciranno mai a imporre una qualche regolazione a livello sovranazionale”. Dunque, cosa fare? “Solo organismi con competenze internazionali come la Ue o l’Ocse, purché investiti d’un forte mandato democratico, potranno portare tutti i protagonisti ad abbandonare le proprie spinte autolesioniste”. Una sfida culturale e politica, di cittadinanza ben informata e responsabile.
Un ragionamento analogo vale anche quando di parla di diseguaglianze, redistribuzione, lavoro. Di migliori equilibri economici e sociali parla un libro essenziale, “Contro la povertà” di Emanuele Ranci Ortigosa, Francesco Brioschi Editore, con una prefazione di Tito Boeri (di cui vale la pena ricordare il recente, lucido pamphlet “Populismo e Stato sociale”, Laterza). Ranci Ortigosa, economista di grande prestigio e lunga esperienza, analizza le condizioni dei 17,5 milioni di persone che in Italia, secondo stime europee, sono a rischio povertà (nessun paese della Ue ne ha così tante) e prende atto dell’inadeguatezza delle attuali politiche di assistenza. Sa che il sostegno ai redditi più bassi è nei programmi di molte forze politiche ma anche che servono politiche non assistenzialiste ma tali da legare redditi bassi a nuovo lavoro e sviluppo economico generale, gestione dell’immigrazione e formazione per affrontare i radicali cambiamenti dei mercati e delle imprese.
Sono temi d’attualità, non solo nell’Italia alla prese con progetti e programmi d’un nuovo governo, ma anche in un’Europa che deve ricostruire legami e rapporti fondati su grandi valori, per non subire troppo difficoltà da egoismi e sovranismi. Un’Europa in cui condividere parole democratiche e liberali, cariche di valori e di senso.