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Il Pil cresce e la “nave Italia” va. Ora servono politiche per la produttività e le infrastrutture

E la nave va. Dando corpo all’efficace metafora racchiusa nel titolo d’un esemplare film di Federico Fellini, l’Italia continua a navigare. Nonostante tutto. Nonostante le zavorre d’una burocrazia poco efficiente e di una giustizia lenta e sbilenca. Nonostante la ruggine che rallenta gli ingranaggi della nostra produttività, sempre agli ultimi posti in Europa. Nonostante la precarietà che avvilisce il mondo del lavoro, soprattutto delle giovani generazioni e delle donne (come ha giustamente ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso per il Primo Maggio). Nonostante un debito pubblico sempre più alto, anche in rapporto al Prodotto Interno Lordo, che continua a essere un inquietante elemento di fragilità per tutto il sistema Italia e per i nostri equilibri sociali e dunque politici.

Che la nave vada lo dicono gli ultimi dati sul Pil, che segnalano una crescita dello 0,5% nel primo trimestre ‘23, superiore alle attese, migliore di quella di Francia e Germania e comunque tale da fare salire allo 0,8% la crescita già acquisita per l’anno in corso, con la possibilità di arrivare a un buon 1% alla fine del ‘23 (meglio delle previsioni preoccupate del FMI e della Banca d’Italia).
Soffiano “venti favorevoli sulla rotta dell’economia italiana”, commenta il Centro Studi di Confindustria, soddisfatto, tra l’altro, che il calo del prezzo del gas “alimenti la fiducia” di cittadini e imprese, dato che incide positivamente sulla riduzione dell’inflazione (che resta comunque ancora alta, con effetti negativi sul potere d’acquisto e dunque sulla qualità della vita di milioni di famiglie).
Quest’aumento del Pil – documenta l’Istat – dipende un po’ da tutti i fatturi, dalla domanda interna e dall’export, dalla manifattura e dai servizi (a cominciare dal turismo).
La domanda chiave, adesso, è “come non perdere il treno della crescita?” Su “Il Foglio” (30 aprile) Dario Di Vico ammonisce giustamente sulla necessità di non sprecare l’occasione degli investimenti stimolati dal Pnrr e di non disperdere risorse in tagli delle tasse e vantaggi redistribuivi a ceti sociali particolari, ma di puntare con incisività politica sulle infrastrutture (materiali e digitali), in cui l’Italia mostra ancora allarmanti carenze (scuola e formazione, salute e ospedali, ferrovie e porti, reti di telecomunicazione, a cominciare dagli investimenti sul 5G su cui il governo continua a mostrare lentezze e indecisioni).
Ecco il punto chiave che sia il governo che le forze politiche e sociali si devono dimostrare in grado di affrontare positivamente, anche per rinsaldare il ruolo fondamentale dell’Italia nel contesto della Ue (anche chiudendo finalmente il capitolo della ratifica del Mes, la cui mancanza ci indebolisce e ci fa perdere credibilità).

La crescita del Pil in questo inizio di ‘23 riporta alla ribalta le considerazioni già ampiamente fatte a proposito della straordinaria dinamica dell’economia italiana nel ‘21 e nel ‘22, con un Pil in aumento, nei due anni, di quasi l’11%, come nei tempi d’oro del “boom” degli anni Cinquanta e Sessanta. Una prestazione dovuta in gran parte alle imprese che hanno investito, innovato, conquistato spazio sui mercati internazionali e colto in pieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali, grazie anche agli intelligenti ed efficaci stimoli fiscali di “Industria4.0”.
La lezione vale ancora oggi. C’è bisogno di agevolare la twin transition ambientale e digitale, in cui molte imprese e intere filiere produttive sono già impegnate. E dare risposte di buon governo agli attori economici più intraprendenti.
Su come fare, c’è un’ampia letteratura economica, che il ministro Giorgetti, peraltro, conosce bene. E ci sono le indicazioni concrete, fattive, che vengono da Confindustria e dalle associazioni territoriali più coinvolte nei processi di sviluppo, dall’Assolombarda all’Unione Industriali di Torino, dalle organizzazioni di Emilia e Veneto alle rappresentanze di categoria (meccatronica, avionica, chimica, farmaceutica, agro-alimentare, etc.).
Di cos’hanno bisogno, dunque, le imprese, per continuare a fare da motore di sviluppo sostenibile, lavoro, benessere, cambiamento? L’elenco è ben noto.
Hanno bisogno di Europa, con politiche europee industriali e fiscali e con scelte comuni per le materie prime, la sicurezza e la difesa. Un europeismo che non si esaurisce nel pur essenziale “atlantismo” e che, ferme restando le relazioni speciali di alleanza e di convergenza di valori e interessi con gli Usa, deve essere motore di confronto positivo con la Cina, con l’India e gli altri protagonisti dello scenario internazionale, dal Sud America all’Africa.
Le imprese hanno bisogno di persone e dunque di processi di formazione di lungo periodo, di attrazione di risorse umane qualificate o comunque ben qualificabili e di una intelligente gestione dell’immigrazione.
Hanno bisogno di scelte politiche e culturali che rafforzino e rilancino il “made in Italy” nel mondo (ben al di là delle banalità e degli stereotipi provinciali del “tipico” italiano). E dunque di indicazioni di politica estera e di politica culturale, con la valorizzazione di una caratteristica distintiva di straordinaria qualità: la nostra “cultura politecnica” che sa unire saperi umanisti e conoscenze scientifiche, gusto della “bellezza” e attitudine all’innovazione high tech.

Le imprese, insomma, hanno bisogno di sicurezze di lungo periodo, per poter investire e consolidare la propria competitività. Con stimoli fiscali per la produttività (cui legare retribuzioni e premi di rendimento, migliorando nettamente il potere d’acquisto dei lavoratori). E con un robusto supporto per fare andare avanti le condizioni di crescita dei mercati aperti e di una condizione di efficace concorrenza (evitando, finalmente, cedimenti a corporazioni e categorie protette, come rivela la partita ancora aperta delle concessioni balneari).
Ha ragione Confindustria quando, consapevole di limiti da superare (con una spesa pubblica finalmente produttiva) e opportunità da cogliere, insiste sulla necessità di affrontare il tema del debito pubblico, riducendolo progressivamente (come peraltro indica la riforma del nuovo Patto di Stabilità Ue) e di portare dunque il sistema Paese fuori dai rischi che un giudizio negativo delle agenzie internazionali di rating e di grandi operatori finanziari mondiali renda particolarmente oneroso il finanziamento del debito stesso, sottraendo risorse sia ai servizi per i cittadini sia agli investimenti pubblici per lo sviluppo (le recenti valutazioni perplesse di Goldman Sachs sui titoli italiani suonano da campanello d’allarme).
In sintesi: la nave Italia va, con soddisfazione generale. Ma si naviga tra secche e scogli, in mari infidi. Non sono ammessi errori.

(foto Getty Images)

E la nave va. Dando corpo all’efficace metafora racchiusa nel titolo d’un esemplare film di Federico Fellini, l’Italia continua a navigare. Nonostante tutto. Nonostante le zavorre d’una burocrazia poco efficiente e di una giustizia lenta e sbilenca. Nonostante la ruggine che rallenta gli ingranaggi della nostra produttività, sempre agli ultimi posti in Europa. Nonostante la precarietà che avvilisce il mondo del lavoro, soprattutto delle giovani generazioni e delle donne (come ha giustamente ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso per il Primo Maggio). Nonostante un debito pubblico sempre più alto, anche in rapporto al Prodotto Interno Lordo, che continua a essere un inquietante elemento di fragilità per tutto il sistema Italia e per i nostri equilibri sociali e dunque politici.

Che la nave vada lo dicono gli ultimi dati sul Pil, che segnalano una crescita dello 0,5% nel primo trimestre ‘23, superiore alle attese, migliore di quella di Francia e Germania e comunque tale da fare salire allo 0,8% la crescita già acquisita per l’anno in corso, con la possibilità di arrivare a un buon 1% alla fine del ‘23 (meglio delle previsioni preoccupate del FMI e della Banca d’Italia).
Soffiano “venti favorevoli sulla rotta dell’economia italiana”, commenta il Centro Studi di Confindustria, soddisfatto, tra l’altro, che il calo del prezzo del gas “alimenti la fiducia” di cittadini e imprese, dato che incide positivamente sulla riduzione dell’inflazione (che resta comunque ancora alta, con effetti negativi sul potere d’acquisto e dunque sulla qualità della vita di milioni di famiglie).
Quest’aumento del Pil – documenta l’Istat – dipende un po’ da tutti i fatturi, dalla domanda interna e dall’export, dalla manifattura e dai servizi (a cominciare dal turismo).
La domanda chiave, adesso, è “come non perdere il treno della crescita?” Su “Il Foglio” (30 aprile) Dario Di Vico ammonisce giustamente sulla necessità di non sprecare l’occasione degli investimenti stimolati dal Pnrr e di non disperdere risorse in tagli delle tasse e vantaggi redistribuivi a ceti sociali particolari, ma di puntare con incisività politica sulle infrastrutture (materiali e digitali), in cui l’Italia mostra ancora allarmanti carenze (scuola e formazione, salute e ospedali, ferrovie e porti, reti di telecomunicazione, a cominciare dagli investimenti sul 5G su cui il governo continua a mostrare lentezze e indecisioni).
Ecco il punto chiave che sia il governo che le forze politiche e sociali si devono dimostrare in grado di affrontare positivamente, anche per rinsaldare il ruolo fondamentale dell’Italia nel contesto della Ue (anche chiudendo finalmente il capitolo della ratifica del Mes, la cui mancanza ci indebolisce e ci fa perdere credibilità).

La crescita del Pil in questo inizio di ‘23 riporta alla ribalta le considerazioni già ampiamente fatte a proposito della straordinaria dinamica dell’economia italiana nel ‘21 e nel ‘22, con un Pil in aumento, nei due anni, di quasi l’11%, come nei tempi d’oro del “boom” degli anni Cinquanta e Sessanta. Una prestazione dovuta in gran parte alle imprese che hanno investito, innovato, conquistato spazio sui mercati internazionali e colto in pieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali, grazie anche agli intelligenti ed efficaci stimoli fiscali di “Industria4.0”.
La lezione vale ancora oggi. C’è bisogno di agevolare la twin transition ambientale e digitale, in cui molte imprese e intere filiere produttive sono già impegnate. E dare risposte di buon governo agli attori economici più intraprendenti.
Su come fare, c’è un’ampia letteratura economica, che il ministro Giorgetti, peraltro, conosce bene. E ci sono le indicazioni concrete, fattive, che vengono da Confindustria e dalle associazioni territoriali più coinvolte nei processi di sviluppo, dall’Assolombarda all’Unione Industriali di Torino, dalle organizzazioni di Emilia e Veneto alle rappresentanze di categoria (meccatronica, avionica, chimica, farmaceutica, agro-alimentare, etc.).
Di cos’hanno bisogno, dunque, le imprese, per continuare a fare da motore di sviluppo sostenibile, lavoro, benessere, cambiamento? L’elenco è ben noto.
Hanno bisogno di Europa, con politiche europee industriali e fiscali e con scelte comuni per le materie prime, la sicurezza e la difesa. Un europeismo che non si esaurisce nel pur essenziale “atlantismo” e che, ferme restando le relazioni speciali di alleanza e di convergenza di valori e interessi con gli Usa, deve essere motore di confronto positivo con la Cina, con l’India e gli altri protagonisti dello scenario internazionale, dal Sud America all’Africa.
Le imprese hanno bisogno di persone e dunque di processi di formazione di lungo periodo, di attrazione di risorse umane qualificate o comunque ben qualificabili e di una intelligente gestione dell’immigrazione.
Hanno bisogno di scelte politiche e culturali che rafforzino e rilancino il “made in Italy” nel mondo (ben al di là delle banalità e degli stereotipi provinciali del “tipico” italiano). E dunque di indicazioni di politica estera e di politica culturale, con la valorizzazione di una caratteristica distintiva di straordinaria qualità: la nostra “cultura politecnica” che sa unire saperi umanisti e conoscenze scientifiche, gusto della “bellezza” e attitudine all’innovazione high tech.

Le imprese, insomma, hanno bisogno di sicurezze di lungo periodo, per poter investire e consolidare la propria competitività. Con stimoli fiscali per la produttività (cui legare retribuzioni e premi di rendimento, migliorando nettamente il potere d’acquisto dei lavoratori). E con un robusto supporto per fare andare avanti le condizioni di crescita dei mercati aperti e di una condizione di efficace concorrenza (evitando, finalmente, cedimenti a corporazioni e categorie protette, come rivela la partita ancora aperta delle concessioni balneari).
Ha ragione Confindustria quando, consapevole di limiti da superare (con una spesa pubblica finalmente produttiva) e opportunità da cogliere, insiste sulla necessità di affrontare il tema del debito pubblico, riducendolo progressivamente (come peraltro indica la riforma del nuovo Patto di Stabilità Ue) e di portare dunque il sistema Paese fuori dai rischi che un giudizio negativo delle agenzie internazionali di rating e di grandi operatori finanziari mondiali renda particolarmente oneroso il finanziamento del debito stesso, sottraendo risorse sia ai servizi per i cittadini sia agli investimenti pubblici per lo sviluppo (le recenti valutazioni perplesse di Goldman Sachs sui titoli italiani suonano da campanello d’allarme).
In sintesi: la nave Italia va, con soddisfazione generale. Ma si naviga tra secche e scogli, in mari infidi. Non sono ammessi errori.

(foto Getty Images)

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