Il “triangolo di Eco” e l’economia di scienza e cultura
Un omaggio all’eccellenza italiana di prestigio internazionale, per la cultura e per quella sua dimensione particolare che è la scienza. E, implicitamente, un’indicazione strategica: il futuro per l’Italia sta nel suo patrimonio culturale, da valorizzare e arricchire, nella creatività, nella capacità di costruire e diffondere ricerca e innovazione. Il messaggio dato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel nominare senatori a vita Claudio Abbado, Elena Cattaneo, Renzo Piano e Carlo Rubbia è molto chiaro, anche nel richiamo esplicito alla lezione di Luigi Einaudi (che aveva premiamo dei grandi intellettuali come Arturo Toscanini, Umberto Zanotti Bianco, Trilussa). Radici istituzionali, in un Quirinale capace di sguardo lungo. Memoria. E richiamo politico di alto profilo, per insistere autorevolmente sulla necessità di porre fine a una troppo lunga stagione in cui i governi hanno tagliato le spese pubbliche appunto per la cultura, la formazione e la ricerca, compromettendo il futuro delle nuove generazioni e un migliore sviluppo del Paese.
La scelta di Napolitano incontra la migliore elaborazione della cultura d’impresa italiana. Le nuove ragioni della competitività stanno infatti nella qualità del capitale umano, nel capitale sociale (le relazioni delle competenze e delle capacità di collaborazione, che continua a caratterizzare il miglior capitalismo diffuso, di territorio, di distretto e di rete), nel “capitale di innovazione”. E l’industria italiana è riuscita a reggere, nonostante tutto, in questi anni di crisi durissima, solo quando ha saputo innovare processi e prodotti, sfidare la concorrenza sui mercati internazionali, farsi forte di quella particolare condizione italiana che è un mix sempre rinnovato di design, qualità, sofisticatezza produttiva, flessibilità (la “resilienza”, l’adattabilità alle variazioni). Risultati di cultura e intelligenza che tengono il passo con i tempi e prefigurano il futuro.
Ci sono, in questo senso, dei dati molto interessanti su cui riflettere, raccolti da Bruno Arpaia e Pietro Greco in “La cultura si mangia!”, edito da Guanda. Gli autori citano il cosiddetto “triangolo della cultura” (la definizione è di Umberto Eco) e ne rendono evidenti i forti riflessi economici. I vertici sono: a) l’industria culturale del design, dell’artigianato, delle arti visive, degli audiovisivi, dell’editoria, dello spettacolo e dei nuovi media; b) la formazione nel suo ciclo completo, scuola primaria, secondaria, università e “long life learning”; c) la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico e la produzione di beni e servizi hi tech.
Sono gli assi di sviluppo di molti paesi del mondo, dagli Usa alla Cina, dalla Corea alla Germania e al Brasile. E rappresentano già adesso gran parte dell’economia mondiale. I beni e i servizi del sistema produttivo fondato sulla ricerca scientifica (tutto l’insieme dell’hi tech) equivalgono infatti al 30% del Pil mondiale. L’industria creativa vale un altro 15% del Pil. La formazione, il 6% circa. Più di metà del Pil del mondo, insomma, si fonda sul “triangolo di Eco”. E’ l’economia della conoscenza. Una sfida per l’Europa e l’Italia, uno strumento indispensabile per le nuove frontiere del “primato manifatturiero” di cui difendere la competitività. Il sistema Italia finora ha risposto male, investendo in ricerca appena l’1% del Pil e tagliando, anno dopo anno, gli investimenti per la formazione, in gran parte, peraltro, destinati agli stipendi per personale delle scuole e dell’università. I più grandi paesi europei, invece, dalla Germania alla Francia, quegli investimenti li hanno potenziati. Con quello che Massimo Sideri (Corriere della Sera, 1 settembre) chiama “cocktail dell’innovazione” o “network trilaterale”: industrie che investono; università che fanno buona ricerca e formazione per studenti altamente qualificati; una serie di condizioni favorevoli create da governi e pubbliche amministrazioni per imprese start up, a cominciare dalle infrastrutture, fisiche e immateriali (come negli Usa della Silicon Valley, nella Tech City di Londra, nella Silicon Wadi di Israele, nei centri hi tech di Bangalore in India, di Cina e Russia). Sono gli esempi che finalmente dovremmo imparare a seguire. Come ci ricordano, adesso, anche i senatori di Napolitano.
Un omaggio all’eccellenza italiana di prestigio internazionale, per la cultura e per quella sua dimensione particolare che è la scienza. E, implicitamente, un’indicazione strategica: il futuro per l’Italia sta nel suo patrimonio culturale, da valorizzare e arricchire, nella creatività, nella capacità di costruire e diffondere ricerca e innovazione. Il messaggio dato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel nominare senatori a vita Claudio Abbado, Elena Cattaneo, Renzo Piano e Carlo Rubbia è molto chiaro, anche nel richiamo esplicito alla lezione di Luigi Einaudi (che aveva premiamo dei grandi intellettuali come Arturo Toscanini, Umberto Zanotti Bianco, Trilussa). Radici istituzionali, in un Quirinale capace di sguardo lungo. Memoria. E richiamo politico di alto profilo, per insistere autorevolmente sulla necessità di porre fine a una troppo lunga stagione in cui i governi hanno tagliato le spese pubbliche appunto per la cultura, la formazione e la ricerca, compromettendo il futuro delle nuove generazioni e un migliore sviluppo del Paese.
La scelta di Napolitano incontra la migliore elaborazione della cultura d’impresa italiana. Le nuove ragioni della competitività stanno infatti nella qualità del capitale umano, nel capitale sociale (le relazioni delle competenze e delle capacità di collaborazione, che continua a caratterizzare il miglior capitalismo diffuso, di territorio, di distretto e di rete), nel “capitale di innovazione”. E l’industria italiana è riuscita a reggere, nonostante tutto, in questi anni di crisi durissima, solo quando ha saputo innovare processi e prodotti, sfidare la concorrenza sui mercati internazionali, farsi forte di quella particolare condizione italiana che è un mix sempre rinnovato di design, qualità, sofisticatezza produttiva, flessibilità (la “resilienza”, l’adattabilità alle variazioni). Risultati di cultura e intelligenza che tengono il passo con i tempi e prefigurano il futuro.
Ci sono, in questo senso, dei dati molto interessanti su cui riflettere, raccolti da Bruno Arpaia e Pietro Greco in “La cultura si mangia!”, edito da Guanda. Gli autori citano il cosiddetto “triangolo della cultura” (la definizione è di Umberto Eco) e ne rendono evidenti i forti riflessi economici. I vertici sono: a) l’industria culturale del design, dell’artigianato, delle arti visive, degli audiovisivi, dell’editoria, dello spettacolo e dei nuovi media; b) la formazione nel suo ciclo completo, scuola primaria, secondaria, università e “long life learning”; c) la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico e la produzione di beni e servizi hi tech.
Sono gli assi di sviluppo di molti paesi del mondo, dagli Usa alla Cina, dalla Corea alla Germania e al Brasile. E rappresentano già adesso gran parte dell’economia mondiale. I beni e i servizi del sistema produttivo fondato sulla ricerca scientifica (tutto l’insieme dell’hi tech) equivalgono infatti al 30% del Pil mondiale. L’industria creativa vale un altro 15% del Pil. La formazione, il 6% circa. Più di metà del Pil del mondo, insomma, si fonda sul “triangolo di Eco”. E’ l’economia della conoscenza. Una sfida per l’Europa e l’Italia, uno strumento indispensabile per le nuove frontiere del “primato manifatturiero” di cui difendere la competitività. Il sistema Italia finora ha risposto male, investendo in ricerca appena l’1% del Pil e tagliando, anno dopo anno, gli investimenti per la formazione, in gran parte, peraltro, destinati agli stipendi per personale delle scuole e dell’università. I più grandi paesi europei, invece, dalla Germania alla Francia, quegli investimenti li hanno potenziati. Con quello che Massimo Sideri (Corriere della Sera, 1 settembre) chiama “cocktail dell’innovazione” o “network trilaterale”: industrie che investono; università che fanno buona ricerca e formazione per studenti altamente qualificati; una serie di condizioni favorevoli create da governi e pubbliche amministrazioni per imprese start up, a cominciare dalle infrastrutture, fisiche e immateriali (come negli Usa della Silicon Valley, nella Tech City di Londra, nella Silicon Wadi di Israele, nei centri hi tech di Bangalore in India, di Cina e Russia). Sono gli esempi che finalmente dovremmo imparare a seguire. Come ci ricordano, adesso, anche i senatori di Napolitano.