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Imprese femminili più inclusive e “virtuose”. Gli stimoli della Merkel, l’affidabilità nel credito

“I Paesi con maggiore leadership e partecipazione delle donne alla vita economica, politica e civile tendono a essere più inclusivi e democratici e ad avere un maggior grado di sviluppo economico”. Sono parole di Angela Merkel, Cancelliere tedesca. Che alcune settimane fa, a metà settembre, nell’ambito del G7, ha riunito a Berlino cinquanta donne leader internazionali, per ragionare insieme su qualità dello sviluppo, partecipazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ma anche più solide prospettive di sostenibilità ambientale e sociale della crescita. Di cui appunto “l’economia in rosa” è cardine essenziale.

Il giudizio della Merkel è confermato da Emma Marcegaglia, presidente dell’Eni ma anche dell’Associazione delle Confindustrie europee, presente pure lei al vertice di Berlino: “La parità d’accesso è certamente un diritto, ma è anche uno dei modi più efficaci per tornare a crescere. E quindi bisogna lavorare, insieme ai governi, alle aziende, alle associazioni, per spingere su una maggiore presenza femminile nel mondo del lvoro”.

Tema chiave, questo (parecchie volte sottolineato, nelle pagine di questo blog). E per fortuna sempre più in evidenza nelle agende della politica e delle imprese, anche se non con il rilievo che sarebbe necessario.

Nonostante le donne siano la metà della popolazione mondiale, solo il 55% partecipa al mercato del lavoro, e molto spesso in posizione subordinata, nonostante le elevate qualificazioni o comunque la stessa capacità di lavoro rispetto agli uomini. Salari più bassi. Discriminazioni evidenti. Carriere bloccate man mano che si va verso i vertici di imprese e organizzazioni. Con un grandissimo spreco di capitale umano e di opportunità generali di sviluppo, naturalmente. “Discriminare non solo non è giusto. Ma non conviene”, ha insegnato il premio Nobel per l’economia Gary Becker, dimostrando che le politiche di esclusione (per genere, ma anche per religione, razza, orientamenti culturali e sociali) impediscono la “scelta dei migliori”, con conseguenti pesanti danni a economia e società (oltre che alle persone discriminate).

A conforto, si possono citare dei dati di prospettiva. Se ci fosse una maggiore occupazione femminile, analoga alle prentuali maschili, s’è detto al G7 di Berlino, il Pil Usa potrebbe crescere del 5%, ma quello dell’Egitto del 35%, analogamente a quel che acadrebbe in paesi in cui la discriminazione delle donne è particolarmente evidente.

E in Italia? C’è il tasso di partecipazione femminile al lavoro più basso tra i paesi sviluppati (il 52,2%, anche dopo Spagna, 69,8% e Grecia, 59%). E se quel tasso salisse al livello maschile, il 74,7%, il nostro Pil potrebbe migliorare di un buon 1% all’anno, almeno 15 miliardi, cioè. C’è un gran lavoro da fare, insomma. Migliorando le condizioni di accesso allo studio e all’occupazione e insistendo su riforme (come quella sulle “quote rosa”) che stanno dando buoni risultati.

Una conferma sulla positività dell’impegno femminile viene anche da una ricerca condotta da una grande banca, la Bpm (la Popolare di Milano) su credito e imprese femminili e presentata  alla fine di settembre: “Le imprese rosa sono più virtuose”. La percentuale dei “crediti deteriorati” – documenta l’indagine condotta tra i clienti dell’istituto – è minore nelle imprese a guida femminili che in quelle “maschili”. L’affidabilità come debitrici è maggiore. La gestione del rischio più attenta e responsabile. E la qualità della crescita aziendale più solida e migliore. Grazie anche a una cultura dell’apertura verso nuove partecipazioni e nuovi stili di governance e di gestione: preferenza per le società di capitale invece che per le società individuali, maggiore predisposizione ad accogliere nuovi soci e ad organizzare l’impresa secondo prospettive di crescita. Impresa femminile, insomma, come più dinamica, inclusiva, innovativa. Dimensioni e sfide di cui c’è un gran bisogno.

“I Paesi con maggiore leadership e partecipazione delle donne alla vita economica, politica e civile tendono a essere più inclusivi e democratici e ad avere un maggior grado di sviluppo economico”. Sono parole di Angela Merkel, Cancelliere tedesca. Che alcune settimane fa, a metà settembre, nell’ambito del G7, ha riunito a Berlino cinquanta donne leader internazionali, per ragionare insieme su qualità dello sviluppo, partecipazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ma anche più solide prospettive di sostenibilità ambientale e sociale della crescita. Di cui appunto “l’economia in rosa” è cardine essenziale.

Il giudizio della Merkel è confermato da Emma Marcegaglia, presidente dell’Eni ma anche dell’Associazione delle Confindustrie europee, presente pure lei al vertice di Berlino: “La parità d’accesso è certamente un diritto, ma è anche uno dei modi più efficaci per tornare a crescere. E quindi bisogna lavorare, insieme ai governi, alle aziende, alle associazioni, per spingere su una maggiore presenza femminile nel mondo del lvoro”.

Tema chiave, questo (parecchie volte sottolineato, nelle pagine di questo blog). E per fortuna sempre più in evidenza nelle agende della politica e delle imprese, anche se non con il rilievo che sarebbe necessario.

Nonostante le donne siano la metà della popolazione mondiale, solo il 55% partecipa al mercato del lavoro, e molto spesso in posizione subordinata, nonostante le elevate qualificazioni o comunque la stessa capacità di lavoro rispetto agli uomini. Salari più bassi. Discriminazioni evidenti. Carriere bloccate man mano che si va verso i vertici di imprese e organizzazioni. Con un grandissimo spreco di capitale umano e di opportunità generali di sviluppo, naturalmente. “Discriminare non solo non è giusto. Ma non conviene”, ha insegnato il premio Nobel per l’economia Gary Becker, dimostrando che le politiche di esclusione (per genere, ma anche per religione, razza, orientamenti culturali e sociali) impediscono la “scelta dei migliori”, con conseguenti pesanti danni a economia e società (oltre che alle persone discriminate).

A conforto, si possono citare dei dati di prospettiva. Se ci fosse una maggiore occupazione femminile, analoga alle prentuali maschili, s’è detto al G7 di Berlino, il Pil Usa potrebbe crescere del 5%, ma quello dell’Egitto del 35%, analogamente a quel che acadrebbe in paesi in cui la discriminazione delle donne è particolarmente evidente.

E in Italia? C’è il tasso di partecipazione femminile al lavoro più basso tra i paesi sviluppati (il 52,2%, anche dopo Spagna, 69,8% e Grecia, 59%). E se quel tasso salisse al livello maschile, il 74,7%, il nostro Pil potrebbe migliorare di un buon 1% all’anno, almeno 15 miliardi, cioè. C’è un gran lavoro da fare, insomma. Migliorando le condizioni di accesso allo studio e all’occupazione e insistendo su riforme (come quella sulle “quote rosa”) che stanno dando buoni risultati.

Una conferma sulla positività dell’impegno femminile viene anche da una ricerca condotta da una grande banca, la Bpm (la Popolare di Milano) su credito e imprese femminili e presentata  alla fine di settembre: “Le imprese rosa sono più virtuose”. La percentuale dei “crediti deteriorati” – documenta l’indagine condotta tra i clienti dell’istituto – è minore nelle imprese a guida femminili che in quelle “maschili”. L’affidabilità come debitrici è maggiore. La gestione del rischio più attenta e responsabile. E la qualità della crescita aziendale più solida e migliore. Grazie anche a una cultura dell’apertura verso nuove partecipazioni e nuovi stili di governance e di gestione: preferenza per le società di capitale invece che per le società individuali, maggiore predisposizione ad accogliere nuovi soci e ad organizzare l’impresa secondo prospettive di crescita. Impresa femminile, insomma, come più dinamica, inclusiva, innovativa. Dimensioni e sfide di cui c’è un gran bisogno.

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