Industria in ripresa, è tempo di reshoring. Si torna a produrre a casa, in Europa
“Industria, la locomotiva italiana traina la ripresa europea”, sostiene il Centro Studi Confindustria, nel recente rapporto sugli Scenari Industriali (“Il Sole24Ore”, 21 novembre). La nostra manifattura, infatti, ha recuperato i livelli di attività precedenti alla pandemia (il suo valore aggiunto in dollari correnti è di nuovo al 2,2% del totale mondiale) e va meglio della Germania (una produzione del 10% inferiore al pre-Covid) e della Francia (giù del 5%).
L’industria italiana, insomma, rafforza l’export, conquista nuovi spazi sul mercato interno (grazie anche ai sostegni del governo Draghi per edilizia e consumi), investe sull’innovazione digitale ma anche sulla sostenibilità ambientale e sociale (le industrie coesive, attente ai valori della comunità, all’inclusione e alla solidarietà sono più competitive, confermano i più recenti sudi di Symbola sulla Green Italy). E se non subisse la grave e diffusa carenza di mano d’opera specializzata e gli aumenti clamorosi dei prezzi dell’energia e della componentistica, a cominciare dai microchip, potrebbe crescere ancora di più.
Di certo, continua il Centro Studi Confindustria, la crescita del Pil italiano nel ‘21 di oltre il 6% dipende in gran parte dall’impegno produttivo della manifattura del Paese. E, mentre ci si aspetta un altro aumento del 4,4% nel ‘22, molti dati confermano che questa ripresa economica non è solo un rimbalzo dopo il crollo del 2020, ma mostra alcuni elementi forti di crescita strutturale, in parecchi settori (meccanica strumentale, apparecchiature elettriche, elettronica, gomma plastica, legno, etc.).
Un momento positivo, dunque. Da non sprecare. Per ricostruire benessere e lavoro stabile. Ma anche per cumulare risorse che ci permettano di pagare gli interessi del debito pubblico cresciuto per fare fronte alla crisi pandemica e alla recessione e continuare a investire. Il buon uso dei fondi della Ue secondo le indicazioni del Pnrr (transizione digitale e ambientale, ricerca e formazione, riforme della pubblica amministrazione e della giustizia, grandi infrastrutture strategiche) è fondamentale per rafforzare il percorso di crescita. Una sfida politica ed economica rilevante. Che coinvolge istituzioni, forze politiche e sociali, imprese.
Il Centro Studi Confindustria sostiene inoltre che aumenta il numero di aziende che stanno radicalmente modificando le loro catene di produzione del valore, le supply chain, le reti delle forniture. Cambiando strada rispetto a scelte diffuse degli anni scorsi (si andava a produrre là dove c’erano costi minori e condizioni di produzione migliori, dal Far East a certe aree dell’Europa orientale) per tornare a produrre vicino casa.
Va avanti il backshoring o reshoring che dir si voglia, il ritorno delle fabbriche dall’estero. Le catene di fornitura, insomma, si accorciano. Le filiere lunghe ed estese, come volevano le strategie internazionali negli anni d’oro della globalizzazione e della Cina e dell’India “fabbriche del mondo”, hanno mostrato, infatti, una estrema fragilità. Subiscono fratture per fattori sociali ed economici locali. Possono essere bloccate da carenze di materie prime, da strozzature nel sistema dei trasporti e da tensioni di ogni tipo. Oppure interrotte da crisi legate al cybercrime. Meglio provare a produrre in sicurezza. E dunque riportare le filiere produttive, le forniture in ambienti più rassicuranti e opportunamente gestiti, sotto controllo.
Un backshoring che, naturalmente, non può essere pensato principalmente nei singoli paesi europei. Ma che deve saper considerare tutta Europa come mercato interno, come comune piattaforma produttiva, da rendere più competitiva a livello internazionale.
Rimarranno, certo, le tendenze globali. E si continuerà a produrre nel Far East. Ma guardando più a logiche local for local, alla produzione al servizio dei mercati interni che non alle strategie d’un tempo basate sui grandi volumi di esportazioni e scambi. Non è certo una svolta protezionista. Ma una modifica delle ragioni di competitività, proprio perché le imprese possano fare valere la loro capacità produttiva e la loro qualità sui mercati del mondo, in condizioni di maggiore autonomia e sicurezza.
Sostiene Maurizio Marchesini, vicepresidente di Confindustria per le filiere e le medie imprese: “Ci troviamo in una fase di transizione molto complessa. Digitalizzazione, sostenibilità, nuovi assetti delle catene globali del valore pongono sfide impegnative, che non coinvolgono solo i sistemi produttivi ma la società in generale”. E “istituzioni e industria devono collaborare per definire una road map” della transizione.
Il cambio di paradigma, il profondo rinnovamento della cultura d’impresa, sono importanti. Il ritorno della manifattura in Europa e nei suoi paesi a maggiore vocazione industriale (Germania e Italia, appunto, ma anche Francia e Spagna) ha bisogno di essere stimolato e rafforzato proprio da una vera e propria nuova politica industriale della Ue (se ne trovano per fortuna tracce in alcune indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue). E le caratteristiche di qualità e sostenibilità, che connotano l’industria europea con maggior forza che non quella degli Usa, della Cina e dell’India, vanno valorizzate, appunto, come asset fondamentali di competitività. Il settore automotive, nella difficile e socialmente costosa transizione verso l’auto elettrica, è uno dei settori principali su cui sia la Commissione di Bruxelles che i grandi paesi dell’industria automobilistica (Germania, Italia e Francia, appunto) devono saper investire e innovare.
“Industria, la locomotiva italiana traina la ripresa europea”, sostiene il Centro Studi Confindustria, nel recente rapporto sugli Scenari Industriali (“Il Sole24Ore”, 21 novembre). La nostra manifattura, infatti, ha recuperato i livelli di attività precedenti alla pandemia (il suo valore aggiunto in dollari correnti è di nuovo al 2,2% del totale mondiale) e va meglio della Germania (una produzione del 10% inferiore al pre-Covid) e della Francia (giù del 5%).
L’industria italiana, insomma, rafforza l’export, conquista nuovi spazi sul mercato interno (grazie anche ai sostegni del governo Draghi per edilizia e consumi), investe sull’innovazione digitale ma anche sulla sostenibilità ambientale e sociale (le industrie coesive, attente ai valori della comunità, all’inclusione e alla solidarietà sono più competitive, confermano i più recenti sudi di Symbola sulla Green Italy). E se non subisse la grave e diffusa carenza di mano d’opera specializzata e gli aumenti clamorosi dei prezzi dell’energia e della componentistica, a cominciare dai microchip, potrebbe crescere ancora di più.
Di certo, continua il Centro Studi Confindustria, la crescita del Pil italiano nel ‘21 di oltre il 6% dipende in gran parte dall’impegno produttivo della manifattura del Paese. E, mentre ci si aspetta un altro aumento del 4,4% nel ‘22, molti dati confermano che questa ripresa economica non è solo un rimbalzo dopo il crollo del 2020, ma mostra alcuni elementi forti di crescita strutturale, in parecchi settori (meccanica strumentale, apparecchiature elettriche, elettronica, gomma plastica, legno, etc.).
Un momento positivo, dunque. Da non sprecare. Per ricostruire benessere e lavoro stabile. Ma anche per cumulare risorse che ci permettano di pagare gli interessi del debito pubblico cresciuto per fare fronte alla crisi pandemica e alla recessione e continuare a investire. Il buon uso dei fondi della Ue secondo le indicazioni del Pnrr (transizione digitale e ambientale, ricerca e formazione, riforme della pubblica amministrazione e della giustizia, grandi infrastrutture strategiche) è fondamentale per rafforzare il percorso di crescita. Una sfida politica ed economica rilevante. Che coinvolge istituzioni, forze politiche e sociali, imprese.
Il Centro Studi Confindustria sostiene inoltre che aumenta il numero di aziende che stanno radicalmente modificando le loro catene di produzione del valore, le supply chain, le reti delle forniture. Cambiando strada rispetto a scelte diffuse degli anni scorsi (si andava a produrre là dove c’erano costi minori e condizioni di produzione migliori, dal Far East a certe aree dell’Europa orientale) per tornare a produrre vicino casa.
Va avanti il backshoring o reshoring che dir si voglia, il ritorno delle fabbriche dall’estero. Le catene di fornitura, insomma, si accorciano. Le filiere lunghe ed estese, come volevano le strategie internazionali negli anni d’oro della globalizzazione e della Cina e dell’India “fabbriche del mondo”, hanno mostrato, infatti, una estrema fragilità. Subiscono fratture per fattori sociali ed economici locali. Possono essere bloccate da carenze di materie prime, da strozzature nel sistema dei trasporti e da tensioni di ogni tipo. Oppure interrotte da crisi legate al cybercrime. Meglio provare a produrre in sicurezza. E dunque riportare le filiere produttive, le forniture in ambienti più rassicuranti e opportunamente gestiti, sotto controllo.
Un backshoring che, naturalmente, non può essere pensato principalmente nei singoli paesi europei. Ma che deve saper considerare tutta Europa come mercato interno, come comune piattaforma produttiva, da rendere più competitiva a livello internazionale.
Rimarranno, certo, le tendenze globali. E si continuerà a produrre nel Far East. Ma guardando più a logiche local for local, alla produzione al servizio dei mercati interni che non alle strategie d’un tempo basate sui grandi volumi di esportazioni e scambi. Non è certo una svolta protezionista. Ma una modifica delle ragioni di competitività, proprio perché le imprese possano fare valere la loro capacità produttiva e la loro qualità sui mercati del mondo, in condizioni di maggiore autonomia e sicurezza.
Sostiene Maurizio Marchesini, vicepresidente di Confindustria per le filiere e le medie imprese: “Ci troviamo in una fase di transizione molto complessa. Digitalizzazione, sostenibilità, nuovi assetti delle catene globali del valore pongono sfide impegnative, che non coinvolgono solo i sistemi produttivi ma la società in generale”. E “istituzioni e industria devono collaborare per definire una road map” della transizione.
Il cambio di paradigma, il profondo rinnovamento della cultura d’impresa, sono importanti. Il ritorno della manifattura in Europa e nei suoi paesi a maggiore vocazione industriale (Germania e Italia, appunto, ma anche Francia e Spagna) ha bisogno di essere stimolato e rafforzato proprio da una vera e propria nuova politica industriale della Ue (se ne trovano per fortuna tracce in alcune indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue). E le caratteristiche di qualità e sostenibilità, che connotano l’industria europea con maggior forza che non quella degli Usa, della Cina e dell’India, vanno valorizzate, appunto, come asset fondamentali di competitività. Il settore automotive, nella difficile e socialmente costosa transizione verso l’auto elettrica, è uno dei settori principali su cui sia la Commissione di Bruxelles che i grandi paesi dell’industria automobilistica (Germania, Italia e Francia, appunto) devono saper investire e innovare.