Innovazione e sviluppo del capitale umano: ecco cosa Silicon Valley può insegnare all’Italia
Importanza dell’innovazione. Originalità dell’export. Forza straordinaria del capitale umano, proprio nell’era dell’ “economia della conoscenza“. Ecco cosa l’esperienza della Silicon Valley può insegnare al premier Matteo Renzi, in cerca di idee per rilanciare la crescita economica italiana. Lo spiega Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, in un lungo articolo pubblicato venerdì scorso da “La Stampa”, all’indomani degli incontri avuti da Renzi con la comunità scientifica italiana a San Francisco e con i top manager di tre delle maggiori imprese dell’economia digitale, Google, Yahoo e Twitter. E’ un brillante economista, Moretti. Apprezzato dal presidente Usa Barack Obama. E noto per le idee del suo recente libro, “La nuova geografia del lavoro” (pubblicato in italia da Mondadori e già raccontato in questo blog) sull’importanza dell’hi tech per generare occupazione anche nei settori dei servizi più tradizionali. Buon conoscitore delle strutture dell’economia italiana e delle ragioni del suo deficit di produttività e di competitività. E pronto a fare confronti appunto tra la Silicon Valley e l’Italia. In nome dell’innovazione. Da economista competente, sa che lo sviluppo non nasce dall’applicazione pedissequa e banale d’un modello vincente a realtà ben diverse. Ma sa anche che le idee innovative sperimentate con successo in un’area del mondo possono dare utilissime indicazioni, se adattate con intelligente flessibilità a contesti differenti. Cosa suggerisce, dunque, la California hi tech all’Italia umiliata da un ventennio di crescita piatta e da una lunga stagione di recessione?
Il primo elemento di riflessione di Moretti riguarda “il ruolo dell’industria dell’innovazione” (forza del dinamismo non solo della Silicon Valley, ma anche di altre aree urbane, da Boston a Seattle, da Austin a Washington) e “la composizione industriale del settore dell’export”. Anche se dà lavoro a meno di un terzo degli occupati Usa, è proprio l’export, dominato da settori con altissimi livelli d’innovazione, a fare da traino per tutta l’economia: “Le imprese investono molto in ricerca e sviluppo e di conseguenza producono beni e servizi unici, che nessun altro paese al mondo sa fare. La globalizzazione favorisce le imprese di questo settore, perché i paesi emergenti rappresentano non competizione, ma mercati dove vendere prodotti. Quando la Cina, il Brasile o la Polonia crescono, la domanda per i prodotti di Silicon Valley cresce, e questo vuol dire più posti di lavoro e salari più alti”. In Italia, invece, sostiene Moretti, l’export è dominato da settori tradizionali, sotto attacco da parte della concorrenza internazionale, “dal tessile ai mobili, dalle scarpe agli occhiali”. E le imprese italiane continuano purtroppo a investire pochissimo in ricerca e sviluppo, non solo rispetto alla Silicon Valley, ma anche a quasi tutti gli altri paesi europei. La stagnazione e il declino, in queste condizioni, sono inevitabili.
C’è dell’altro. Nella Silicon Valley “le imprese sono piccole, ma poi crescono. Anche se molte falliscono, una su cento esplode e diventa un gigante globale con decine di migliaia di impiegati. Le imprese italiane, invece, sono piccole e rimangono tali. Un po’ per profonde ragioni culturali, “ma anche perché la nostra legislazione del lavoro e l’alta pressione fiscale non incoraggiano la crescita”.
E ancora: “Le imprese di Silicon Valley investono molto in capitale umano, dal training in impresa ai corsi di specializzazione esterna, dal 20% di tempo dedicato a sviluppare progetti personali ai periodi sabbatici. Le imprese italiane, invece, vi investono pochissimo, con conseguenze sempre più nocive sulla produttività dei lavoratori e sulla loro capacità di creare innovazione”. Un circuito virtuoso, negli Usa: l’innovazione produce crescita, che genera risorse per finanziare altri investimenti in ricerca e innovazione e creare ricchezza e lavoro (“La creazione di valore economico dipende dal talento e dal capitale umano, come mai in passato”). Un circuito perverso, invece, da noi: bassi investimenti, scarsa ricchezza, declino, carenza di risorse e così via peggiorando.
Insiste Moretti: “La somma di tutti questi fattori spiega perché nel settore dell’export la produttività del lavoratore medio a Silicon Valley è più del doppio di quella del lavoratore medio dell’export in Italia”. Con conseguenze negative per tutto il sistema Paese: meno produttività, meno lavoro anche nel resto della manifattura e nei servizi, minori redditi, minore ricchezza.
Come ridurre dunque il divario? “Riorientando il mix settoriale italiano da paese che investe poco in innovazione e capitale umano a paese che investe molto, producendo beni e servizi innovativi”. Non si tratta, naturalmente, di copiare il mix di Silicon Valley, incentrato su Internet, software, robotica, biotech, nuovi materiali e tecnologie verdi, ma di puntare sull’innovazione proprio “nei punti d’eccellenza dell’industria italiana”. Un mix intelligente di forza della tradizione e di spinta dell’innovazione.
Responsabilità delle imprese, dunque. E dell’indispensabile salto culturale che devono saper fare (meglio: che devono continuare a fare, visto che le imprese migliori sono già orientate in questa direzione, anche se sono troppo poche per trainare tutto il resto dell’economia). Ma soprattutto responsabilità politica. Di governo. E di attori sociali organizzati (Confindustria, sindacati, etc.). Insiste Moretti. “Lo Stato deve ridurre i vincoli che impediscono al panorama italiano di crescere e modernizzarsi”. Non è che i lavoratori italiani siano meno produttivi di quelli di Silicon Valley, “perché si impegnano meno o sono meno creativi o meno intelligenti (infatti, quando si trasferiscono a Silicon Valley vanno benissimo, in molti casi meglio degli americani)”. Il problema è “l’ecosistema produttivo e gli incentivi e i disincentivi creati dal quadro normativo e fiscale”. Ecco perché servono riforme mirate a liberare energie: “E’ chiaro che senza un sistema fiscale meno punitivo per il capitale umano, senza regole del lavoro più moderne, senza un sistema giudiziario più veloce e una pubblica amministrazione meno medioevale è difficile cominciare ad attrarre investimenti esteri e stimolare investimenti interni nei settori avanzati, innovativi”.
Importanza dell’innovazione. Originalità dell’export. Forza straordinaria del capitale umano, proprio nell’era dell’ “economia della conoscenza“. Ecco cosa l’esperienza della Silicon Valley può insegnare al premier Matteo Renzi, in cerca di idee per rilanciare la crescita economica italiana. Lo spiega Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, in un lungo articolo pubblicato venerdì scorso da “La Stampa”, all’indomani degli incontri avuti da Renzi con la comunità scientifica italiana a San Francisco e con i top manager di tre delle maggiori imprese dell’economia digitale, Google, Yahoo e Twitter. E’ un brillante economista, Moretti. Apprezzato dal presidente Usa Barack Obama. E noto per le idee del suo recente libro, “La nuova geografia del lavoro” (pubblicato in italia da Mondadori e già raccontato in questo blog) sull’importanza dell’hi tech per generare occupazione anche nei settori dei servizi più tradizionali. Buon conoscitore delle strutture dell’economia italiana e delle ragioni del suo deficit di produttività e di competitività. E pronto a fare confronti appunto tra la Silicon Valley e l’Italia. In nome dell’innovazione. Da economista competente, sa che lo sviluppo non nasce dall’applicazione pedissequa e banale d’un modello vincente a realtà ben diverse. Ma sa anche che le idee innovative sperimentate con successo in un’area del mondo possono dare utilissime indicazioni, se adattate con intelligente flessibilità a contesti differenti. Cosa suggerisce, dunque, la California hi tech all’Italia umiliata da un ventennio di crescita piatta e da una lunga stagione di recessione?
Il primo elemento di riflessione di Moretti riguarda “il ruolo dell’industria dell’innovazione” (forza del dinamismo non solo della Silicon Valley, ma anche di altre aree urbane, da Boston a Seattle, da Austin a Washington) e “la composizione industriale del settore dell’export”. Anche se dà lavoro a meno di un terzo degli occupati Usa, è proprio l’export, dominato da settori con altissimi livelli d’innovazione, a fare da traino per tutta l’economia: “Le imprese investono molto in ricerca e sviluppo e di conseguenza producono beni e servizi unici, che nessun altro paese al mondo sa fare. La globalizzazione favorisce le imprese di questo settore, perché i paesi emergenti rappresentano non competizione, ma mercati dove vendere prodotti. Quando la Cina, il Brasile o la Polonia crescono, la domanda per i prodotti di Silicon Valley cresce, e questo vuol dire più posti di lavoro e salari più alti”. In Italia, invece, sostiene Moretti, l’export è dominato da settori tradizionali, sotto attacco da parte della concorrenza internazionale, “dal tessile ai mobili, dalle scarpe agli occhiali”. E le imprese italiane continuano purtroppo a investire pochissimo in ricerca e sviluppo, non solo rispetto alla Silicon Valley, ma anche a quasi tutti gli altri paesi europei. La stagnazione e il declino, in queste condizioni, sono inevitabili.
C’è dell’altro. Nella Silicon Valley “le imprese sono piccole, ma poi crescono. Anche se molte falliscono, una su cento esplode e diventa un gigante globale con decine di migliaia di impiegati. Le imprese italiane, invece, sono piccole e rimangono tali. Un po’ per profonde ragioni culturali, “ma anche perché la nostra legislazione del lavoro e l’alta pressione fiscale non incoraggiano la crescita”.
E ancora: “Le imprese di Silicon Valley investono molto in capitale umano, dal training in impresa ai corsi di specializzazione esterna, dal 20% di tempo dedicato a sviluppare progetti personali ai periodi sabbatici. Le imprese italiane, invece, vi investono pochissimo, con conseguenze sempre più nocive sulla produttività dei lavoratori e sulla loro capacità di creare innovazione”. Un circuito virtuoso, negli Usa: l’innovazione produce crescita, che genera risorse per finanziare altri investimenti in ricerca e innovazione e creare ricchezza e lavoro (“La creazione di valore economico dipende dal talento e dal capitale umano, come mai in passato”). Un circuito perverso, invece, da noi: bassi investimenti, scarsa ricchezza, declino, carenza di risorse e così via peggiorando.
Insiste Moretti: “La somma di tutti questi fattori spiega perché nel settore dell’export la produttività del lavoratore medio a Silicon Valley è più del doppio di quella del lavoratore medio dell’export in Italia”. Con conseguenze negative per tutto il sistema Paese: meno produttività, meno lavoro anche nel resto della manifattura e nei servizi, minori redditi, minore ricchezza.
Come ridurre dunque il divario? “Riorientando il mix settoriale italiano da paese che investe poco in innovazione e capitale umano a paese che investe molto, producendo beni e servizi innovativi”. Non si tratta, naturalmente, di copiare il mix di Silicon Valley, incentrato su Internet, software, robotica, biotech, nuovi materiali e tecnologie verdi, ma di puntare sull’innovazione proprio “nei punti d’eccellenza dell’industria italiana”. Un mix intelligente di forza della tradizione e di spinta dell’innovazione.
Responsabilità delle imprese, dunque. E dell’indispensabile salto culturale che devono saper fare (meglio: che devono continuare a fare, visto che le imprese migliori sono già orientate in questa direzione, anche se sono troppo poche per trainare tutto il resto dell’economia). Ma soprattutto responsabilità politica. Di governo. E di attori sociali organizzati (Confindustria, sindacati, etc.). Insiste Moretti. “Lo Stato deve ridurre i vincoli che impediscono al panorama italiano di crescere e modernizzarsi”. Non è che i lavoratori italiani siano meno produttivi di quelli di Silicon Valley, “perché si impegnano meno o sono meno creativi o meno intelligenti (infatti, quando si trasferiscono a Silicon Valley vanno benissimo, in molti casi meglio degli americani)”. Il problema è “l’ecosistema produttivo e gli incentivi e i disincentivi creati dal quadro normativo e fiscale”. Ecco perché servono riforme mirate a liberare energie: “E’ chiaro che senza un sistema fiscale meno punitivo per il capitale umano, senza regole del lavoro più moderne, senza un sistema giudiziario più veloce e una pubblica amministrazione meno medioevale è difficile cominciare ad attrarre investimenti esteri e stimolare investimenti interni nei settori avanzati, innovativi”.