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Insistere sull’Europa, nonostante tutto. E sugli eurobond per difesa, ambiente, sviluppo 

Passare il tempo che ci separa dai primi di giugno per parlare di Europa. E impegnarsi a capire bene per cosa voteremo, quando andremo alle urne, dal 6 al 9, in tutti e 27 i paesi della Ue, per rinnovare il Parlamento Europeo. Quali politiche vorremmo, per lo sviluppo, la sicurezza, l’ambiente, un migliore futuro anche per i nostri figli e nipoti. E a quali partiti e a quali donne e uomini ne delegheremo la responsabilità.

Eccolo, il dovere di questo nostro tempo così incerto e inquieto, dolente e comunque decisivo. Eccola, la speranza da nutrire. “Ora serve parlare di Europa”, titola il Corriere della Sera sull’articolo di fondo di Goffredo Buccini (27 aprile). “Invertire il declino dell’Europa”, prescrive Giorgio Barba Navaretti su la Repubblica (19 aprile). “Come possiamo salvare l’Europa?”, si chiede Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore (21 aprile). E così via continuando. Con un motivo comune, in tanti autorevoli pareri: si dovrebbe andare a votare pensando agli elementi che segneranno il futuro di questa parte del mondo che ha così robusti elementi culturali comuni (ne scrive “La Lettura” del Corriere della Sera, parlando di musica, letteratura, teatro e arti figurative; 28 aprile) e soprattutto, unica, ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, l’economia di mercato e il miglior sistema di welfare. Ma che oggi soffre la concorrenza economica dei giganti come gli Usa, la Cina e, tra non molto, l’India, è messa sotto pressione dalle autocrazie e non sa bene come affrontare lo strapotere delle Big Tech, le multinazionali tecnologiche che stravolgono, nel bene e nel male, il nostro modo di vivere.

Si dovrebbe andare a votare, insomma, pensando ai valori e agli interessi comuni. E invece, finora, il dibattito politico, sia in Italia che negli altri paesi Ue, si concentra prevalentemente sugli interessi locali, sugli intrighi di potere nazionali e regionali, sulle trame di piccole e grandi corporazioni e clientele. Mentre cresce il peso di sovranismi e nazionalismi che, anche dai vertici di alcuni paesi europei, chiedono esplicitamente “meno Europa” e più spazio per i poteri e le scelte nazionali. E si aggravano le minacce dell’espansione del peso delle “democrazie illiberali”.

Europa, nonostante tutto”, si augurava già nel 2019, un libro di saggi essenziali, editi da “La nave di Teseo” e scritti da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa e da chi redige questo blog, per tracciare un bilancio critico dei successi e delle sfide della Ue , alla vigilia delle scorse elezioni europee. Da allora molti drammatici eventi politici, sociali ed economici hanno radicalmente cambiato il contesto geopolitico e le ragioni di fondo della competitività internazionale: la pandemia da Covid 19, l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, il conflitto in Medio Oriente, l’aggravarsi delle tensioni tra Usa e Cina, la scomposizione e ricomposizione delle tradizionali catene del valore e degli scambi. Ma quell’indicazione conserva un’ancora più drammatica attualità: “nonostante tutto”, o l’Europa rinsalda e rilancia le ragioni dell’unione e delle politiche comuni, a cominciare dai temi della sicurezza e dello sviluppo sostenibile o le sue fragilità si aggraveranno.

La nostra Europa oggi è mortale. Può morire. E questo dipende unicamente dalle nostre scelte”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron, in un lungo e accorato discorso alla Sorbona, il 25 aprile, proponendo una profonda svolta politica e trovando il consenso del Cancelliere tedesco Scholz: “Buone idee per mantenere l’Europa forte”.

Europa né totem né tabù, dunque. Né mito né mostro sacro. Il nostro destino migliore, piuttosto. Da criticare. Ma da non demolire né da immiserire tra egoismi nazionali, rigidità burocratiche o vaghe dichiarazioni di buone intenzioni. Viene in mente l’antica saggezza meridionale: “Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. L’Europa che serve, in una stagione d’emergenza, è tutt’altro che un club delle chiacchiere e delle demagogie.

Sfida politica, dunque. E programmatica. Come ricorda bene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando (Corriere della Sera, 22 aprile) calcola che nel prossimo giugno 400 milioni di europei andranno a votare, si augura “una grande partecipazione perché così si diventa protagonisti del proprio futuro” e sollecita “le istituzioni” che saranno elette a “far sì che l’Europa diventi protagonista e non solo spettatore di questa stagione” con “riforme coraggiose”.

Nel corso degli ultimi giorni il documento presentato da Enrico Letta, presidente della Fondazione Delors sul mercato unico e le anticipazioni che Mario Draghi ha fatto sullo studio sulla competitività (entrambi incaricati dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) hanno indicato gli schemi delle scelte da fare per tenere insieme la “transizione verde” con lo sviluppo economico in chiave di sostenibilità e per poter reggere, appunto come Ue, le pressioni che vengono da Usa e Cina, sulle grandi questioni della sicurezza, dell’energia e dell’economia digitale, insistendo soprattutto sull’AI (Artificial Intelligence).

Un mercato unico dei capitali, delle telecomunicazioni, della difesa, insomma (“Ora serve una difesa europea, tra Nato e Ue”, spiega Marta Dassù, la Repubblica, 27 aprile). E investimenti europei, sia aumentano il peso del bilancio Ue sia andando sui mercati finanziari, come Ue, per trovare risorse da investire. Con gli Eurobond, già cari negli anni Ottanta proprio a Delors. E con altri strumenti finanziari comuni.

Le dimensioni sono imponenti: oltre 800 miliardi all’anno almeno per i prossimi dieci anni, sia per il green deal (e per le misure di welfare indispensabili per fare fronte ai costi sociali della transizione, a cominciare dalle conseguenze sui posti di lavoro e la tenuta delle imprese) sia per la sicurezza.

Le resistenze, naturalmente, non mancano. I piccoli paesi temono per la perdita di sovranità (e dei privilegi) in caso di mercato unico dei capitali. I “nordici” sono diffidenti sugli investimenti e sui nuovi debiti in comune con i paesi del Sud. In parecchi, soprattutto a destra, guardano con sospetto a un rafforzamento dell’Unione. E tanti temono che un’applicazione “ideologica” del green deal metta fuori dal gioco competitivo parte ampia dell’industria europea. Timori fondati e buone ragioni si intrecciano a difese nazionaliste e a preoccupazioni per la fine di una espansione della spesa pubblica usata per “comprare consenso” (molti guardano con sospetto proprio all’Italia, in serie difficoltà con i conti anche per gli effetti devastanti del “superbonus” edilizio).

Il voto di giugno potrebbe fare chiarezza, con l’elezione di un Parlamento europeo e poi di una Commissione Ue capaci di quelle “riforme coraggiose” cui ha fatto cenno il presidente Mattarella e delle scelte politiche indispensabili a far sì che l’Europa non sia “schiacciata” dalla forza economica e politica di Usa e Cina.

Per orientarsi, anche in vista del voto, possono essere utili alcune riflessioni recenti. Quella del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta (il Sole24Ore, 24 aprile). O le proposte avanzate da  Marco Buti e Marcello Messori sulla transizione verde e digitale e sulla necessità che l’Europa superi l’attuale condizione di “scarsa produttività” (Il Sole24Ore, 21 aprile). O ancora l’appello  di Emma Marcegaglia, presidentessa del B7 (l’insieme delle imprese dei paesi del G7) per “un accordo globale per accelerare la transizione verde” (Il Sole24Ore, 28 aprile), usando anche gli Eurobond. Vediamo meglio.

Panetta (“Una nuova star dell’antipopulismo”, secondo Il Foglio, 24 aprile) sostiene che, senza cedere ai protezionismi, occorre “rafforzare l’economia europea lungo tre direzioni principali: riequilibrando il suo modello di sviluppo; garantendo la sua autonomia strategica; adeguando la sua capacità di provvedere alla propria sicurezza esterna e potenziando il suo ruolo nel dibattito internazionale”. Come? Anche per Panetta, usando pure la leva degli Eurobond.

E la Bce? Dovrà andare oltre i confini della responsabilità sulla moneta e sull’inflazione e “saper guardare al futuro”. In altre parole, è una strategia analoga, in tempi difficili, a quel “whatever it takes” con cui Mario Draghi, da presidente della Bce, salvò l’euro e l’economia europea al tempo della crisi post Covid.

Buti e Messori insistono sulla necessità di “differenziare la strategia europea dalle scelte monopolistiche della Cina e dal protezionismo statunitense”. E propongono la produzione e il finanziamento di “Beni pubblici europei” (Bpe, in sigla) sia in campo economico che geopolitico: per le politiche industriali e sociali comuni, per l’innovazione e, naturalmente, per la sicurezza. Una strategia. Che si articola in progetti. E trova finanziamenti sul mercato. Riecco gli Eurobond.

Sono, appunto, i temi che si ritrovano nel rapporto Letta e che riascolteremo con il rapporto Draghi. Che risuonano nel discorso di Panetta. E che cominciano a trovare riscontri sia nelle posizioni della Francia di Macron che nella Germania purtroppo ancora in cerca su come fare uscire la propria economia dalla crisi in corso.

Sono temi su cui proprio l’Italia può giocare un ruolo fondamentale. E’ uno del grandi paesi fondatori dell’Europa ma non può suscitare preoccupazioni egemoniche come quelle provocate da Francia e Germania. Ha sempre mostrato un’attitudine dialogante con gli altri paesi europei, ma anche con nazioni estranee alla Ue, a cominciare dall’area del Mediterraneo. Ed è forte di un sistema di imprese flessibili, aperte, competitive, ben inserite in parecchie catene del valore globali. Può fare molto, insomma. Con idee innovative. E ruoli di responsabilità. A patto di non cadere in tentazioni sovraniste e in chiusure propagandiste, da spesa pubblica irresponsabile e chiusure nazionaliste. Un’Italia che sa far bene l’Italia e si fa carico del bene dell’Europa e, dunque, di se stessa.

(foto Getty Images)

Passare il tempo che ci separa dai primi di giugno per parlare di Europa. E impegnarsi a capire bene per cosa voteremo, quando andremo alle urne, dal 6 al 9, in tutti e 27 i paesi della Ue, per rinnovare il Parlamento Europeo. Quali politiche vorremmo, per lo sviluppo, la sicurezza, l’ambiente, un migliore futuro anche per i nostri figli e nipoti. E a quali partiti e a quali donne e uomini ne delegheremo la responsabilità.

Eccolo, il dovere di questo nostro tempo così incerto e inquieto, dolente e comunque decisivo. Eccola, la speranza da nutrire. “Ora serve parlare di Europa”, titola il Corriere della Sera sull’articolo di fondo di Goffredo Buccini (27 aprile). “Invertire il declino dell’Europa”, prescrive Giorgio Barba Navaretti su la Repubblica (19 aprile). “Come possiamo salvare l’Europa?”, si chiede Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore (21 aprile). E così via continuando. Con un motivo comune, in tanti autorevoli pareri: si dovrebbe andare a votare pensando agli elementi che segneranno il futuro di questa parte del mondo che ha così robusti elementi culturali comuni (ne scrive “La Lettura” del Corriere della Sera, parlando di musica, letteratura, teatro e arti figurative; 28 aprile) e soprattutto, unica, ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, l’economia di mercato e il miglior sistema di welfare. Ma che oggi soffre la concorrenza economica dei giganti come gli Usa, la Cina e, tra non molto, l’India, è messa sotto pressione dalle autocrazie e non sa bene come affrontare lo strapotere delle Big Tech, le multinazionali tecnologiche che stravolgono, nel bene e nel male, il nostro modo di vivere.

Si dovrebbe andare a votare, insomma, pensando ai valori e agli interessi comuni. E invece, finora, il dibattito politico, sia in Italia che negli altri paesi Ue, si concentra prevalentemente sugli interessi locali, sugli intrighi di potere nazionali e regionali, sulle trame di piccole e grandi corporazioni e clientele. Mentre cresce il peso di sovranismi e nazionalismi che, anche dai vertici di alcuni paesi europei, chiedono esplicitamente “meno Europa” e più spazio per i poteri e le scelte nazionali. E si aggravano le minacce dell’espansione del peso delle “democrazie illiberali”.

Europa, nonostante tutto”, si augurava già nel 2019, un libro di saggi essenziali, editi da “La nave di Teseo” e scritti da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa e da chi redige questo blog, per tracciare un bilancio critico dei successi e delle sfide della Ue , alla vigilia delle scorse elezioni europee. Da allora molti drammatici eventi politici, sociali ed economici hanno radicalmente cambiato il contesto geopolitico e le ragioni di fondo della competitività internazionale: la pandemia da Covid 19, l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, il conflitto in Medio Oriente, l’aggravarsi delle tensioni tra Usa e Cina, la scomposizione e ricomposizione delle tradizionali catene del valore e degli scambi. Ma quell’indicazione conserva un’ancora più drammatica attualità: “nonostante tutto”, o l’Europa rinsalda e rilancia le ragioni dell’unione e delle politiche comuni, a cominciare dai temi della sicurezza e dello sviluppo sostenibile o le sue fragilità si aggraveranno.

La nostra Europa oggi è mortale. Può morire. E questo dipende unicamente dalle nostre scelte”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron, in un lungo e accorato discorso alla Sorbona, il 25 aprile, proponendo una profonda svolta politica e trovando il consenso del Cancelliere tedesco Scholz: “Buone idee per mantenere l’Europa forte”.

Europa né totem né tabù, dunque. Né mito né mostro sacro. Il nostro destino migliore, piuttosto. Da criticare. Ma da non demolire né da immiserire tra egoismi nazionali, rigidità burocratiche o vaghe dichiarazioni di buone intenzioni. Viene in mente l’antica saggezza meridionale: “Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. L’Europa che serve, in una stagione d’emergenza, è tutt’altro che un club delle chiacchiere e delle demagogie.

Sfida politica, dunque. E programmatica. Come ricorda bene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando (Corriere della Sera, 22 aprile) calcola che nel prossimo giugno 400 milioni di europei andranno a votare, si augura “una grande partecipazione perché così si diventa protagonisti del proprio futuro” e sollecita “le istituzioni” che saranno elette a “far sì che l’Europa diventi protagonista e non solo spettatore di questa stagione” con “riforme coraggiose”.

Nel corso degli ultimi giorni il documento presentato da Enrico Letta, presidente della Fondazione Delors sul mercato unico e le anticipazioni che Mario Draghi ha fatto sullo studio sulla competitività (entrambi incaricati dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) hanno indicato gli schemi delle scelte da fare per tenere insieme la “transizione verde” con lo sviluppo economico in chiave di sostenibilità e per poter reggere, appunto come Ue, le pressioni che vengono da Usa e Cina, sulle grandi questioni della sicurezza, dell’energia e dell’economia digitale, insistendo soprattutto sull’AI (Artificial Intelligence).

Un mercato unico dei capitali, delle telecomunicazioni, della difesa, insomma (“Ora serve una difesa europea, tra Nato e Ue”, spiega Marta Dassù, la Repubblica, 27 aprile). E investimenti europei, sia aumentano il peso del bilancio Ue sia andando sui mercati finanziari, come Ue, per trovare risorse da investire. Con gli Eurobond, già cari negli anni Ottanta proprio a Delors. E con altri strumenti finanziari comuni.

Le dimensioni sono imponenti: oltre 800 miliardi all’anno almeno per i prossimi dieci anni, sia per il green deal (e per le misure di welfare indispensabili per fare fronte ai costi sociali della transizione, a cominciare dalle conseguenze sui posti di lavoro e la tenuta delle imprese) sia per la sicurezza.

Le resistenze, naturalmente, non mancano. I piccoli paesi temono per la perdita di sovranità (e dei privilegi) in caso di mercato unico dei capitali. I “nordici” sono diffidenti sugli investimenti e sui nuovi debiti in comune con i paesi del Sud. In parecchi, soprattutto a destra, guardano con sospetto a un rafforzamento dell’Unione. E tanti temono che un’applicazione “ideologica” del green deal metta fuori dal gioco competitivo parte ampia dell’industria europea. Timori fondati e buone ragioni si intrecciano a difese nazionaliste e a preoccupazioni per la fine di una espansione della spesa pubblica usata per “comprare consenso” (molti guardano con sospetto proprio all’Italia, in serie difficoltà con i conti anche per gli effetti devastanti del “superbonus” edilizio).

Il voto di giugno potrebbe fare chiarezza, con l’elezione di un Parlamento europeo e poi di una Commissione Ue capaci di quelle “riforme coraggiose” cui ha fatto cenno il presidente Mattarella e delle scelte politiche indispensabili a far sì che l’Europa non sia “schiacciata” dalla forza economica e politica di Usa e Cina.

Per orientarsi, anche in vista del voto, possono essere utili alcune riflessioni recenti. Quella del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta (il Sole24Ore, 24 aprile). O le proposte avanzate da  Marco Buti e Marcello Messori sulla transizione verde e digitale e sulla necessità che l’Europa superi l’attuale condizione di “scarsa produttività” (Il Sole24Ore, 21 aprile). O ancora l’appello  di Emma Marcegaglia, presidentessa del B7 (l’insieme delle imprese dei paesi del G7) per “un accordo globale per accelerare la transizione verde” (Il Sole24Ore, 28 aprile), usando anche gli Eurobond. Vediamo meglio.

Panetta (“Una nuova star dell’antipopulismo”, secondo Il Foglio, 24 aprile) sostiene che, senza cedere ai protezionismi, occorre “rafforzare l’economia europea lungo tre direzioni principali: riequilibrando il suo modello di sviluppo; garantendo la sua autonomia strategica; adeguando la sua capacità di provvedere alla propria sicurezza esterna e potenziando il suo ruolo nel dibattito internazionale”. Come? Anche per Panetta, usando pure la leva degli Eurobond.

E la Bce? Dovrà andare oltre i confini della responsabilità sulla moneta e sull’inflazione e “saper guardare al futuro”. In altre parole, è una strategia analoga, in tempi difficili, a quel “whatever it takes” con cui Mario Draghi, da presidente della Bce, salvò l’euro e l’economia europea al tempo della crisi post Covid.

Buti e Messori insistono sulla necessità di “differenziare la strategia europea dalle scelte monopolistiche della Cina e dal protezionismo statunitense”. E propongono la produzione e il finanziamento di “Beni pubblici europei” (Bpe, in sigla) sia in campo economico che geopolitico: per le politiche industriali e sociali comuni, per l’innovazione e, naturalmente, per la sicurezza. Una strategia. Che si articola in progetti. E trova finanziamenti sul mercato. Riecco gli Eurobond.

Sono, appunto, i temi che si ritrovano nel rapporto Letta e che riascolteremo con il rapporto Draghi. Che risuonano nel discorso di Panetta. E che cominciano a trovare riscontri sia nelle posizioni della Francia di Macron che nella Germania purtroppo ancora in cerca su come fare uscire la propria economia dalla crisi in corso.

Sono temi su cui proprio l’Italia può giocare un ruolo fondamentale. E’ uno del grandi paesi fondatori dell’Europa ma non può suscitare preoccupazioni egemoniche come quelle provocate da Francia e Germania. Ha sempre mostrato un’attitudine dialogante con gli altri paesi europei, ma anche con nazioni estranee alla Ue, a cominciare dall’area del Mediterraneo. Ed è forte di un sistema di imprese flessibili, aperte, competitive, ben inserite in parecchie catene del valore globali. Può fare molto, insomma. Con idee innovative. E ruoli di responsabilità. A patto di non cadere in tentazioni sovraniste e in chiusure propagandiste, da spesa pubblica irresponsabile e chiusure nazionaliste. Un’Italia che sa far bene l’Italia e si fa carico del bene dell’Europa e, dunque, di se stessa.

(foto Getty Images)

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