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Il mondo chiuso, le paure e il bisogno di ricostruire fiducia per la politica, le comunità, il credito alle imprese e il lavoro

Closed”, c’è scritto sul cartello appeso su un disegno del mondo. E’ la copertina, puntuale, efficacissima, di “The Economist” in edicola questa settimana. Tutto chiuso. Chiuse molte grandi e piccole città dell’Italia, del resto dell’Europa e adesso anche degli Usa, dopo la lunga stagione di chiusure in Cina. Chiuse le scuole e le università. Gran parte delle fabbriche, tranne quelle dei prodotti medici e farmaceutici, degli alimentari e dei beni essenziali. I negozi, eccetto quelli essenziali per medicine e cibo e pochi altri. Gli uffici, privati e pubblici. Le compagnie aree e gli impianti turistici e sportivi. I teatri, i cinema, gli spazi per la musica. Chiuse le librerie, ma non le edicole (le persone hanno giustamente bisogno di informazione). Chiuso, insomma, tutto quello che si può chiudere, per cercare di fermare o almeno rallentare drasticamente il contagio da coronavirus.

Si sta a casa. Sono vietati gli spostamenti da un comune all’altro (è l’ultima ordinanza, domenica pomeriggio, dei ministri dell’Interno e della Salute). E la stragrande maggioranza dei cittadini, qui in Italia, segue disciplinatamente le indicazioni del governo, le inusuali limitazioni a parte ampia delle nostre libertà. In quasi tutti gli altri paesi occidentali che, più in ritardo rispetto a noi, conoscono i dati allarmanti d’una diffusione della malattia, con alti tassi di mortalità, l’esempio italiano fa scuola. Tutto chiuso, appunto. Lockdown, è la parola che leggiamo per le altre città del mondo.

E’ la prima volta che ci succede, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le strade e le piazze vuote, come negli stralunati quadri delle città metafisiche di De Chirico o nei dipinti delle periferie industriali malinconiche di Sironi. I parchi deserti. Le saracinesche abbassate. Quasi senza passeggeri, i tram e gli autobus.

Viviamo una condizione di profondo disagio e d’intensa inquietudine, in una solitudine imposta e accettata, fuori dai ritmi abituali della vita, degli affetti, del lavoro, delle relazioni sociali. Eppure andiamo avanti, costruendo a fatica nuove dimensioni del vivere, lavorare, studiare, ristabilire – a distanza – relazioni. Una miscela inedita di isolamento e socialità, quasi tutta affidata ai dialoghi a voce, alle parole sui social media (che stanno svelando una sorprendente e vitale utilità).

Un giorno dopo l’altro, andiamo avanti nel nostro “viaggio al termine della notte” (a proposito: avendo tempo, vale la pena dedicarlo anche alla rilettura o, perché no?, alla scoperta d’uno dei più grandi romanzieri del Novecento, Louis-Ferdinand Céline, un medico, peraltro, laureato con una tesi sulle infezioni e poi tormentato scrittore, con la sua ruvida e poetica ricerca di verità e profondità dell’animo umano). Attraversiamo solitudini e paure, per la nostra salute e per quella dei nostri cari, per l’ipotesi d’una morte solitaria, per le difficoltà d’un lavoro scomparsi e che chissà se e come ritroveremo.

Ci facciamo carico, insomma, della dolorosa consapevolezza della nostra fragilità. E proprio perché ci rendiamo conto che non sappiamo bene quando tutto questo finirà, tra quante settimane, tra quanti mesi, al di là della disciplina sociale dell’isolamento, d’una cosa abbiamo soprattutto bisogno.

Di fiducia.

Una fiducia nella possibilità di ricostruire un capitale sociale che, nel corso del tempo, s’era sfilacciato, tra egoismi, privilegi corporativi, contrasti esasperati, tossine d’odio e d’invidia sociale. Proprio in questi tempi difficili, sono evidenti i segnali d’una ripresa dello spirito di comunità, d’un desiderio forte e diffuso d’essere utili, d’una commovente condivisione delle possibilità di aiuto e salvezza. Due indicazioni tra le tante: gli oltre 7mila medici che hanno risposto alla richiesta della presidenza del Consiglio per 350 volontari in Lombardia; e le iniziative di solidarietà (le settemila ore di lavoro donate dai dipendenti Pirelli all’Ospedale Sacco e il cui valore è stato raddoppiato dall’azienda e aggiunto ad altre iniziative, con un contributo complessivo pari a 750mila euro sono una delle numerose attività in corso). Il cartello “Closed” non riguarda l’umanità della maggioranza degli italiani.

Una fiducia da poter finalmente nutrire nella buona politica, che si dimostri in grado di fare fronte alla crisi straordinaria con senso di responsabilità e competenza, sapendo che naturalmente si può sbagliare, nei tempi e nei modi di alcuni provvedimenti, ma non si può mettere in discussione l’interesse generale e quello di tutti gli italiani alla salute e alla sicurezza e, domani, al lavoro e al futuro per demagogia, spirito di fazione, interessi di basso profilo. Gira molto, sui social e nelle conversazioni personali, una frase essenziale di Aldo Moro, uno degli statisti della nostra Repubblica: “Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente al domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”. Coraggiosi e fiduciosi, appunto.

Una fiducia nell’Europa. Nonostante tutto: i ritardi, gli errori, le incomprensioni, le diffidenze reciproche, le miopie. Adesso finalmente sappiamo, per presa di posizione esplicita della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che il Patto di Stabilità “è sospeso” e “il bilancio italiano può gestire la crisi. Fine degli egoismi”. La Bce, inoltre, ha deciso un nuovo quantitative easing di dimensioni massicce, 750 miliardi di euro di titoli da acquistare per sconfiggere l’emergenza economica innescata dal coronavirus e rafforzare le fondamenta dell’euro, di fronte al crollo delle Borse e alla fiammata degli spread: “Tempi straordinari richiedono azioni straordinarie“, ha spiegato la presidente della Bce Christine Lagarde. E’ possibile pensare che, finita la crisi e sperimentati positivamente gli Eurobond e gli altri strumenti per l’emergenza, si possa finalmente avviare un grande piano europeo di sviluppo, dando sostanza di mezzi finanziari e strumenti al Green New Deal di cui tanto si è parlato o a quello che in tenti invocano come “un nuovo Piano Marshall”.

Una fiducia nel futuro. Del lavoro, innanzitutto. E del benessere, delle sicurezze, dei diritti sociali che abbiamo costruito nel tempo, con fatica, sacrifici, volontà di crescere.

La ripresa economica, dopo un crollo del Pil che adesso è difficile calcolare (-5% in Italia? -1,5 o 2% a livello globale) non sarà molto probabilmente “a V”, con una rapida risalita, cioè ma “a U”, con tempi molto più lunghi nella parte bassa della caduta. E dunque ci aspettano parecchi mesi, forse un anno, di difficoltà.

Il panorama che vediamo in queste settimane dolorose è terribile, con il blocco o il rallentamento di gran parte delle attività economiche del paese, nell’industria e nei servizi, nel turismo, nei trasporti e nell’infinità serie di quei mestieri e professioni da gig economy. Decine di migliaia di imprese, in tutti i settori, rischiano di saltare. E di non riaprire mai più, bruciando così un capitale di relazioni, intelligenze, competenze. Ecco, a tante e tali imprese, a cominciare da quelle più piccole, fragili e deboli, va data fiducia, fatta intravvedere la possibilità concreta d’un futuro.

Lo strumento? Il credito, innanzitutto. I fondi della Bce, messi a disposizione dei sistemi bancari nazionali, possono fare da iniezioni straordinarie di liquidità proprio per le imprese. E le garanzie dello Stato (adesso libero dal Patto di stabilità e dunque in grado di impegnare risorse massicce per l’emergenza) possono compensare le difficoltà delle imprese che hanno bisogno di credito per andare avanti, senza fare saltare i bilanci delle banche, cui devono anche essere radicalmente modificati i ratios per poter concedere tempestivamente finanziamenti e rifinanziamenti. Credito rapido e semplice per le imprese, con garanzia dello Stato. Per ridare fiducia nel lavoro e nel futuro, appunto. E scrivere presto, così, un nuovo cartello per una prossima copertina di “The Economist”: “Opened”.

Closed”, c’è scritto sul cartello appeso su un disegno del mondo. E’ la copertina, puntuale, efficacissima, di “The Economist” in edicola questa settimana. Tutto chiuso. Chiuse molte grandi e piccole città dell’Italia, del resto dell’Europa e adesso anche degli Usa, dopo la lunga stagione di chiusure in Cina. Chiuse le scuole e le università. Gran parte delle fabbriche, tranne quelle dei prodotti medici e farmaceutici, degli alimentari e dei beni essenziali. I negozi, eccetto quelli essenziali per medicine e cibo e pochi altri. Gli uffici, privati e pubblici. Le compagnie aree e gli impianti turistici e sportivi. I teatri, i cinema, gli spazi per la musica. Chiuse le librerie, ma non le edicole (le persone hanno giustamente bisogno di informazione). Chiuso, insomma, tutto quello che si può chiudere, per cercare di fermare o almeno rallentare drasticamente il contagio da coronavirus.

Si sta a casa. Sono vietati gli spostamenti da un comune all’altro (è l’ultima ordinanza, domenica pomeriggio, dei ministri dell’Interno e della Salute). E la stragrande maggioranza dei cittadini, qui in Italia, segue disciplinatamente le indicazioni del governo, le inusuali limitazioni a parte ampia delle nostre libertà. In quasi tutti gli altri paesi occidentali che, più in ritardo rispetto a noi, conoscono i dati allarmanti d’una diffusione della malattia, con alti tassi di mortalità, l’esempio italiano fa scuola. Tutto chiuso, appunto. Lockdown, è la parola che leggiamo per le altre città del mondo.

E’ la prima volta che ci succede, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le strade e le piazze vuote, come negli stralunati quadri delle città metafisiche di De Chirico o nei dipinti delle periferie industriali malinconiche di Sironi. I parchi deserti. Le saracinesche abbassate. Quasi senza passeggeri, i tram e gli autobus.

Viviamo una condizione di profondo disagio e d’intensa inquietudine, in una solitudine imposta e accettata, fuori dai ritmi abituali della vita, degli affetti, del lavoro, delle relazioni sociali. Eppure andiamo avanti, costruendo a fatica nuove dimensioni del vivere, lavorare, studiare, ristabilire – a distanza – relazioni. Una miscela inedita di isolamento e socialità, quasi tutta affidata ai dialoghi a voce, alle parole sui social media (che stanno svelando una sorprendente e vitale utilità).

Un giorno dopo l’altro, andiamo avanti nel nostro “viaggio al termine della notte” (a proposito: avendo tempo, vale la pena dedicarlo anche alla rilettura o, perché no?, alla scoperta d’uno dei più grandi romanzieri del Novecento, Louis-Ferdinand Céline, un medico, peraltro, laureato con una tesi sulle infezioni e poi tormentato scrittore, con la sua ruvida e poetica ricerca di verità e profondità dell’animo umano). Attraversiamo solitudini e paure, per la nostra salute e per quella dei nostri cari, per l’ipotesi d’una morte solitaria, per le difficoltà d’un lavoro scomparsi e che chissà se e come ritroveremo.

Ci facciamo carico, insomma, della dolorosa consapevolezza della nostra fragilità. E proprio perché ci rendiamo conto che non sappiamo bene quando tutto questo finirà, tra quante settimane, tra quanti mesi, al di là della disciplina sociale dell’isolamento, d’una cosa abbiamo soprattutto bisogno.

Di fiducia.

Una fiducia nella possibilità di ricostruire un capitale sociale che, nel corso del tempo, s’era sfilacciato, tra egoismi, privilegi corporativi, contrasti esasperati, tossine d’odio e d’invidia sociale. Proprio in questi tempi difficili, sono evidenti i segnali d’una ripresa dello spirito di comunità, d’un desiderio forte e diffuso d’essere utili, d’una commovente condivisione delle possibilità di aiuto e salvezza. Due indicazioni tra le tante: gli oltre 7mila medici che hanno risposto alla richiesta della presidenza del Consiglio per 350 volontari in Lombardia; e le iniziative di solidarietà (le settemila ore di lavoro donate dai dipendenti Pirelli all’Ospedale Sacco e il cui valore è stato raddoppiato dall’azienda e aggiunto ad altre iniziative, con un contributo complessivo pari a 750mila euro sono una delle numerose attività in corso). Il cartello “Closed” non riguarda l’umanità della maggioranza degli italiani.

Una fiducia da poter finalmente nutrire nella buona politica, che si dimostri in grado di fare fronte alla crisi straordinaria con senso di responsabilità e competenza, sapendo che naturalmente si può sbagliare, nei tempi e nei modi di alcuni provvedimenti, ma non si può mettere in discussione l’interesse generale e quello di tutti gli italiani alla salute e alla sicurezza e, domani, al lavoro e al futuro per demagogia, spirito di fazione, interessi di basso profilo. Gira molto, sui social e nelle conversazioni personali, una frase essenziale di Aldo Moro, uno degli statisti della nostra Repubblica: “Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente al domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”. Coraggiosi e fiduciosi, appunto.

Una fiducia nell’Europa. Nonostante tutto: i ritardi, gli errori, le incomprensioni, le diffidenze reciproche, le miopie. Adesso finalmente sappiamo, per presa di posizione esplicita della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che il Patto di Stabilità “è sospeso” e “il bilancio italiano può gestire la crisi. Fine degli egoismi”. La Bce, inoltre, ha deciso un nuovo quantitative easing di dimensioni massicce, 750 miliardi di euro di titoli da acquistare per sconfiggere l’emergenza economica innescata dal coronavirus e rafforzare le fondamenta dell’euro, di fronte al crollo delle Borse e alla fiammata degli spread: “Tempi straordinari richiedono azioni straordinarie“, ha spiegato la presidente della Bce Christine Lagarde. E’ possibile pensare che, finita la crisi e sperimentati positivamente gli Eurobond e gli altri strumenti per l’emergenza, si possa finalmente avviare un grande piano europeo di sviluppo, dando sostanza di mezzi finanziari e strumenti al Green New Deal di cui tanto si è parlato o a quello che in tenti invocano come “un nuovo Piano Marshall”.

Una fiducia nel futuro. Del lavoro, innanzitutto. E del benessere, delle sicurezze, dei diritti sociali che abbiamo costruito nel tempo, con fatica, sacrifici, volontà di crescere.

La ripresa economica, dopo un crollo del Pil che adesso è difficile calcolare (-5% in Italia? -1,5 o 2% a livello globale) non sarà molto probabilmente “a V”, con una rapida risalita, cioè ma “a U”, con tempi molto più lunghi nella parte bassa della caduta. E dunque ci aspettano parecchi mesi, forse un anno, di difficoltà.

Il panorama che vediamo in queste settimane dolorose è terribile, con il blocco o il rallentamento di gran parte delle attività economiche del paese, nell’industria e nei servizi, nel turismo, nei trasporti e nell’infinità serie di quei mestieri e professioni da gig economy. Decine di migliaia di imprese, in tutti i settori, rischiano di saltare. E di non riaprire mai più, bruciando così un capitale di relazioni, intelligenze, competenze. Ecco, a tante e tali imprese, a cominciare da quelle più piccole, fragili e deboli, va data fiducia, fatta intravvedere la possibilità concreta d’un futuro.

Lo strumento? Il credito, innanzitutto. I fondi della Bce, messi a disposizione dei sistemi bancari nazionali, possono fare da iniezioni straordinarie di liquidità proprio per le imprese. E le garanzie dello Stato (adesso libero dal Patto di stabilità e dunque in grado di impegnare risorse massicce per l’emergenza) possono compensare le difficoltà delle imprese che hanno bisogno di credito per andare avanti, senza fare saltare i bilanci delle banche, cui devono anche essere radicalmente modificati i ratios per poter concedere tempestivamente finanziamenti e rifinanziamenti. Credito rapido e semplice per le imprese, con garanzia dello Stato. Per ridare fiducia nel lavoro e nel futuro, appunto. E scrivere presto, così, un nuovo cartello per una prossima copertina di “The Economist”: “Opened”.

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