Cultura digitale nelle scuole, le proposte di riforma e il bisogno di conoscenza critica e responsabile
Un decalogo del Ministero dell’Istruzione sull’uso dei telefonini in classe, come strumento didattico, appena arrivato nelle scuole italiane. E una discussione molto partecipata sulla necessità di migliorare, appunto nelle scuole, la conoscenza del mondo digitale, sino alla proposta di creare un vero e proprio “liceo di cultura digitale”. Sono temi chiave per lo sviluppo economico del Paese, ma anche e forse soprattutto per il sistema di relazioni culturali e sociali, per l’informazione e, perché no?, per la stessa tenuta di lungo periodo della nostra democrazia.
Opportuno dibattito, dunque. Cui dà un contributo essenziale Francesco Profumo, ex ministro della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca (ma anche ex presidente del Cnr ed ex rettore del Politecnico di Torino e adesso presidente della Fondazione San Paolo, una delle più prestigiose istituzioni culturali e sociali italiane).
In un articolo su “Avvenire” (19 gennaio), intervenendo in un dibattito avviato dal quotidiano della Conferenza Episcopale, il professor Profumo giudica positiva l’idea del “liceo della cultura digitale”, insiste su una riforma del sistema formativo che ancora troppo risente dei canoni dell’educazione formulati negli anni Venti del Novecento dal ministro Giovanni Gentile e ispirati da idealismo e storicismo crociano e guarda alle prospettive del mercato del lavoro nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi: un lavoro “che non è solo funzione del cambiamento tecnologico, ma è influenzato anche da un insieme di altre variabili, quali la sostenibilità ambientale, la globalizzazione, il cambiamento demografico, l’aumento delle diseguaglianze, l’incertezza del quadro politico”.
Tutte questioni che chiedono nuovi metodi di insegnamento e apprendimento e nuovi programmi: “Diventa fondamentale alfabetizzarsi e sviluppare le conoscenze e competenze digitali non solo attraverso l’utilizzo di modalità informali, ma anche attraverso l’utilizzo di metodologie formali, da acquisire in ambito scolastico e attraverso esperienze di alternanza scuola-lavoro”. Forse, appunto, “un liceo digitale”. O fors’anche – val la pena aggiungere – un impegno robusto di cultura digitale in tutte le strutture scolastiche, dalla scuola dell’obbligo alle tante e diverse scuole superiori.
Il “decalogo” del ministero è utile, anche se parziale. Vale la pena pensare, più ambiziosamente, a una “educazione digitale responsabile” (Pierangelo Soldavini, “Il Sole24Ore”, 21 gennaio) e quadrare all’uso di telefonini e tablet come strumenti d’apprendimento di cui avere chiari anche limiti e potenzialità. Dante, Petrarca e la geografia on line? Perché no? Purché non si perda la dimensione delle studio come impegno serio, ricerca, responsabilità, senza cadere vittime d’un modo banalizzato nella sua sola dimensione ludica.
Siamo infatti di fronte a culture e mestieri che cambiano. Profumo ha proprio ragione. Servono conoscenze migliori. Non tanto competenze, che si acquisiscono nel corso del tempo, sapendo bene quanto sia e sarà sempre più diffuso il bisogno di formazione permanente, d’un long life learnig. Quanto, appunto, conoscenze. E capacità di ragionamento critico. Un metodo, molto più che una tecnica. Una capacità di entrare criticamente nel merito delle questioni: “Adess ghe capissarem on quaicoss: andemm a guardagh denter”, c’è scritto sulla parte d’ingresso della Fondazione Pirelli, per capire qualcosa “guardiamo dentro” una macchina, un processo, una tecnologia, secondo la battuta attribuita all’ingegner Luigi Emanueli, scienziato e uomo d’impresa nei primi decenni del Novecento, stagione d’impetuosa crescita Pirelli, eccellenza hi tech e sofisticata “civiltà delle macchine”.
Il merito critico delle questioni. Proprio quel metodo che la cultura scientifica del Novecento ci ha lasciato in eredità: l’abitudine alla “falsificazione” cara a Karl Popper e alla sua “società aperta” (provare sempre a smentire un’acquisizione scientifica, cercare nuovi dati e fare nuovi esperimenti per verificarne meglio fondatezza e infondatezza e poi andare avanti), la consapevolezza che la scienza sia una condizione in evoluzione, in cui nulla è dato per sempre. Ne è attualissima testimonianza anche il dibattito, spesso aspro e tagliente, nella prima metà del Novecento tra Niels Bohr e Albert Einstein sui fondamenti della fisica quantistica, la relatività, la casualità, il “principio di indeterminazione” e sulle questioni scientifiche ed etiche (lo racconta bene Gabriella Greison in “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, Salani).
La critica, dunque. Secondo la lezione di Kant. Sapendo che tra le caratteristiche del mondo digitale c’è il costante cambiamento che riguarda relazioni, materiali, tecnologie, ambienti, abitudini di vita e lavoro. Che investe il mondo digitale stesso. E, proprio adesso, non soltanto le sue logiche ma anche la sua stessa “accettabilità”, la sua legittimazione sociale.
“Il mondo nuovo della Silicon Valley che spaventa tutta l’America”, ha raccontato su “la Repubblica” (15 gennaio) Enrico Moretti, economista alla University of California (il suo libro più noto è “La nuova economia del lavoro”, Mondadori), documentando come l’universo hi tech, innovativo, globale, cosmopolita, colto, liberal, di alto reddito ed elevata sensibilità per l’ambiente e i diritti civili, sia sempre più inviso, negli Usa, non solo all’opinione pubblica della destra rappresentata da Trump ma anche ad ambienti di sinistra, democratici, che temono violazioni della privacy, disinformazione da fake news senza argini sufficienti e abuso di posizione dominante dei colossi digitali ai danni dei consumatori. Le recenti rivelazioni sulla vulnerabilità dei sistemi informatici e sulle speculazioni finanziarie collegate hanno peggiorato il quadro.
Che il sistema dei valori e della fiducia nel mondo digital sia in crisi lo conferma anche la copertina di “The Economist” nell’ultimo numero in edicola. “Taming the titans”, dice il titolo, su un inquietante fondo rosso cupo animato da tre mostri d’acciaio con i simboli di Amazon, Facebook e Google. Un avvertimento a neutralizzare o rendere inoffensivi quei giganti: “Come possono essere controllati?”.
È un ribaltamento di senso e consenso che fa molto riflettere. L’opposizione non può essere fatta alla Trump, populista e “luddista”.
Il mondo digital è la nostra realtà, nelle attività produttive, nei movimenti, nei rapporti interpersonali, nella salvaguardia dell’ambiente e nella costruzione e gestione di più abitabili smart city. Con processi positivi. E radicali miglioramenti della qualità di vita e lavoro. Dunque serve più cultura critica, una sapiente attitudine a capirne e governarne i processi e le prospettive. A partire dalla scuola, appunto. I nativi digitali e cioè i nostri figli e nipoti non possono che esserne sempre più gli attori consapevoli.
Un decalogo del Ministero dell’Istruzione sull’uso dei telefonini in classe, come strumento didattico, appena arrivato nelle scuole italiane. E una discussione molto partecipata sulla necessità di migliorare, appunto nelle scuole, la conoscenza del mondo digitale, sino alla proposta di creare un vero e proprio “liceo di cultura digitale”. Sono temi chiave per lo sviluppo economico del Paese, ma anche e forse soprattutto per il sistema di relazioni culturali e sociali, per l’informazione e, perché no?, per la stessa tenuta di lungo periodo della nostra democrazia.
Opportuno dibattito, dunque. Cui dà un contributo essenziale Francesco Profumo, ex ministro della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca (ma anche ex presidente del Cnr ed ex rettore del Politecnico di Torino e adesso presidente della Fondazione San Paolo, una delle più prestigiose istituzioni culturali e sociali italiane).
In un articolo su “Avvenire” (19 gennaio), intervenendo in un dibattito avviato dal quotidiano della Conferenza Episcopale, il professor Profumo giudica positiva l’idea del “liceo della cultura digitale”, insiste su una riforma del sistema formativo che ancora troppo risente dei canoni dell’educazione formulati negli anni Venti del Novecento dal ministro Giovanni Gentile e ispirati da idealismo e storicismo crociano e guarda alle prospettive del mercato del lavoro nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi: un lavoro “che non è solo funzione del cambiamento tecnologico, ma è influenzato anche da un insieme di altre variabili, quali la sostenibilità ambientale, la globalizzazione, il cambiamento demografico, l’aumento delle diseguaglianze, l’incertezza del quadro politico”.
Tutte questioni che chiedono nuovi metodi di insegnamento e apprendimento e nuovi programmi: “Diventa fondamentale alfabetizzarsi e sviluppare le conoscenze e competenze digitali non solo attraverso l’utilizzo di modalità informali, ma anche attraverso l’utilizzo di metodologie formali, da acquisire in ambito scolastico e attraverso esperienze di alternanza scuola-lavoro”. Forse, appunto, “un liceo digitale”. O fors’anche – val la pena aggiungere – un impegno robusto di cultura digitale in tutte le strutture scolastiche, dalla scuola dell’obbligo alle tante e diverse scuole superiori.
Il “decalogo” del ministero è utile, anche se parziale. Vale la pena pensare, più ambiziosamente, a una “educazione digitale responsabile” (Pierangelo Soldavini, “Il Sole24Ore”, 21 gennaio) e quadrare all’uso di telefonini e tablet come strumenti d’apprendimento di cui avere chiari anche limiti e potenzialità. Dante, Petrarca e la geografia on line? Perché no? Purché non si perda la dimensione delle studio come impegno serio, ricerca, responsabilità, senza cadere vittime d’un modo banalizzato nella sua sola dimensione ludica.
Siamo infatti di fronte a culture e mestieri che cambiano. Profumo ha proprio ragione. Servono conoscenze migliori. Non tanto competenze, che si acquisiscono nel corso del tempo, sapendo bene quanto sia e sarà sempre più diffuso il bisogno di formazione permanente, d’un long life learnig. Quanto, appunto, conoscenze. E capacità di ragionamento critico. Un metodo, molto più che una tecnica. Una capacità di entrare criticamente nel merito delle questioni: “Adess ghe capissarem on quaicoss: andemm a guardagh denter”, c’è scritto sulla parte d’ingresso della Fondazione Pirelli, per capire qualcosa “guardiamo dentro” una macchina, un processo, una tecnologia, secondo la battuta attribuita all’ingegner Luigi Emanueli, scienziato e uomo d’impresa nei primi decenni del Novecento, stagione d’impetuosa crescita Pirelli, eccellenza hi tech e sofisticata “civiltà delle macchine”.
Il merito critico delle questioni. Proprio quel metodo che la cultura scientifica del Novecento ci ha lasciato in eredità: l’abitudine alla “falsificazione” cara a Karl Popper e alla sua “società aperta” (provare sempre a smentire un’acquisizione scientifica, cercare nuovi dati e fare nuovi esperimenti per verificarne meglio fondatezza e infondatezza e poi andare avanti), la consapevolezza che la scienza sia una condizione in evoluzione, in cui nulla è dato per sempre. Ne è attualissima testimonianza anche il dibattito, spesso aspro e tagliente, nella prima metà del Novecento tra Niels Bohr e Albert Einstein sui fondamenti della fisica quantistica, la relatività, la casualità, il “principio di indeterminazione” e sulle questioni scientifiche ed etiche (lo racconta bene Gabriella Greison in “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, Salani).
La critica, dunque. Secondo la lezione di Kant. Sapendo che tra le caratteristiche del mondo digitale c’è il costante cambiamento che riguarda relazioni, materiali, tecnologie, ambienti, abitudini di vita e lavoro. Che investe il mondo digitale stesso. E, proprio adesso, non soltanto le sue logiche ma anche la sua stessa “accettabilità”, la sua legittimazione sociale.
“Il mondo nuovo della Silicon Valley che spaventa tutta l’America”, ha raccontato su “la Repubblica” (15 gennaio) Enrico Moretti, economista alla University of California (il suo libro più noto è “La nuova economia del lavoro”, Mondadori), documentando come l’universo hi tech, innovativo, globale, cosmopolita, colto, liberal, di alto reddito ed elevata sensibilità per l’ambiente e i diritti civili, sia sempre più inviso, negli Usa, non solo all’opinione pubblica della destra rappresentata da Trump ma anche ad ambienti di sinistra, democratici, che temono violazioni della privacy, disinformazione da fake news senza argini sufficienti e abuso di posizione dominante dei colossi digitali ai danni dei consumatori. Le recenti rivelazioni sulla vulnerabilità dei sistemi informatici e sulle speculazioni finanziarie collegate hanno peggiorato il quadro.
Che il sistema dei valori e della fiducia nel mondo digital sia in crisi lo conferma anche la copertina di “The Economist” nell’ultimo numero in edicola. “Taming the titans”, dice il titolo, su un inquietante fondo rosso cupo animato da tre mostri d’acciaio con i simboli di Amazon, Facebook e Google. Un avvertimento a neutralizzare o rendere inoffensivi quei giganti: “Come possono essere controllati?”.
È un ribaltamento di senso e consenso che fa molto riflettere. L’opposizione non può essere fatta alla Trump, populista e “luddista”.
Il mondo digital è la nostra realtà, nelle attività produttive, nei movimenti, nei rapporti interpersonali, nella salvaguardia dell’ambiente e nella costruzione e gestione di più abitabili smart city. Con processi positivi. E radicali miglioramenti della qualità di vita e lavoro. Dunque serve più cultura critica, una sapiente attitudine a capirne e governarne i processi e le prospettive. A partire dalla scuola, appunto. I nativi digitali e cioè i nostri figli e nipoti non possono che esserne sempre più gli attori consapevoli.