La creatività “è il vero capitale”: le “quattro D” che la provocano e la lezione di Moretti
“La creatività è il vero capitale”, sostiene Enrico Moretti, economista a Berkeley, Università di California, in un articolo su “La Lettura” del Corriere della Sera. Parla del “neolavoro”, racconta un universo in cui spariscono vecchie manifatture (la Kodak, straordinario esempio hi tech sino a una ventina d’anni fa e adesso in crisi irreversibile) e nascono neo-fabbriche in cui si integrano in modo originale produzione e servizi, ricerca e continua trasformazione di culture innovative. “Sono la conoscenza e il talento a generare reddito”, insiste Moretti. Un paio d’anni fa il suo libro “La nuova geografia del lavoro” (pubblicato in Italia da Mondadori) aveva descritto, con forza di dati e fatti, come stia radicalmente cambiando il mondo dell’economia occidentale e documentato che un posto di lavoro hi tech ne crea per ricaduta altri cinque, anche in settori tradizionali. Oggi insiste sul fatto che “la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. Il numero e la forza dei distretti dell’innovazione di un Paese ne determineranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro”.
E’ un pensiero forte e originale, quello di Moretti. Che tiene in gran conto l’esperienza che sta trasformando l’economia Usa, dove si confrontano e si compongono fenomeni diversi e convergenti: il rilancio dell’industria dell’auto e il “reshoring”, il ritorno a produrre in America di molti gruppi industriali e, contemporaneamente, il boom dell’economia digitale, di Google e di Facebook, le nuove dimensioni di connessione di Apple e Microsoft, i servizi più innovativi. Digital manufacturing. E start up le più creative. Perché appunto, per insistere con Moretti, “conoscenza e talento generano reddito”.
Ne sono consapevoli anche le grandi imprese con solide radici industriali. Come General Electric. Che proprio di recente da spostato il suo quartier generale da Fairfield (Connecticut) all’area di Boston, proprio là dove maturano conoscenza, creatività, ambiente favorevole alle imprese innovative, dove accanto a un luogo di formazione e d’innovazione d’eccellenza come il Mit (Massachussets Institute of Technology) crescono case editrici, think tanks, laboratori artistici. Un’indicazione interessante, da usare come buon paradigma.
Ma se “la creatività è il vero capitale”, cosa la stimola, cosa la determina, cosa la tiene in vita? Eric Weiner, giornalista di talento, in “The Geography of Genius” (Simon & Schuster), parla di “quattro D”: “Diversità delle idee; discernimento; disordine, perché dal caos arrivano sempre flussi positivi di innovazione; e disagio, la spinta creativa nata dalle necessità”. Weiner ha trovato queste caratteristiche nell’antica Atene, nella Firenze del Rinascimento (“Un modello d’innovazione migliore di quel che è ora la Silicon Valley”), nella Londra di Shakespeare e nella Vienna di Mozart e Beethoven. E insiste sulle interrelazioni tra bisogni e ambiente, tra capacità di pensiero e forza dei limiti da superare. Sino al paradigma della “sedia scomoda”: “Più le sedie sono soffici e comode peggio è. Senza limiti siamo perduti. La tensione invece produce invenzioni”, ha spiegato a Viviana Devoto del Corriere della Sera (31 gennaio). Un pensiero analogo al “stay hungry, stay foolish” del discorso di Steve Jobs ai laureandi di Stanford.
Lezioni americane di rilievo, dunque. E in Europa, in Italia, dove la manifattura ha ancora un gran peso? Qui è ancora la manifattura migliore, a fare da cardine del rinnovamento. “Neo-fabbriche e smanettoni”, sintetizza con formula brillante Aldo Bonomi, sociologo attento osservatore dell’innovazione. Ibridazioni di produzione e ricerca. Creatività e design applicati anche alla meccanica. Industria hi tech e medium tech competitività a livello internazionale e in cerca di migliorare la sua stessa competitività. Il punto di riferimento è Milano, quella metropoli in cui, tra città grande, Brianza e Lodi, la manifattura pesa per il 29% del Pil (la media italiana è del 18%) e si verifica un’alta concentrazione di industria, università, servizi, cultura, ricerca. Il futuro? Appunto una “Milano creativa” che Assolombarda definisce “Steam”, acronimo per science, technology, education, arts e appunto manufacturing. Una creativa “cultura politecnica”. D’altronde, di creatività, gli italiani, anche gli industriali italiani, sono tradizionalmente maestri. Con lo sguardo brillante al futuro.
“La creatività è il vero capitale”, sostiene Enrico Moretti, economista a Berkeley, Università di California, in un articolo su “La Lettura” del Corriere della Sera. Parla del “neolavoro”, racconta un universo in cui spariscono vecchie manifatture (la Kodak, straordinario esempio hi tech sino a una ventina d’anni fa e adesso in crisi irreversibile) e nascono neo-fabbriche in cui si integrano in modo originale produzione e servizi, ricerca e continua trasformazione di culture innovative. “Sono la conoscenza e il talento a generare reddito”, insiste Moretti. Un paio d’anni fa il suo libro “La nuova geografia del lavoro” (pubblicato in Italia da Mondadori) aveva descritto, con forza di dati e fatti, come stia radicalmente cambiando il mondo dell’economia occidentale e documentato che un posto di lavoro hi tech ne crea per ricaduta altri cinque, anche in settori tradizionali. Oggi insiste sul fatto che “la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. Il numero e la forza dei distretti dell’innovazione di un Paese ne determineranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro”.
E’ un pensiero forte e originale, quello di Moretti. Che tiene in gran conto l’esperienza che sta trasformando l’economia Usa, dove si confrontano e si compongono fenomeni diversi e convergenti: il rilancio dell’industria dell’auto e il “reshoring”, il ritorno a produrre in America di molti gruppi industriali e, contemporaneamente, il boom dell’economia digitale, di Google e di Facebook, le nuove dimensioni di connessione di Apple e Microsoft, i servizi più innovativi. Digital manufacturing. E start up le più creative. Perché appunto, per insistere con Moretti, “conoscenza e talento generano reddito”.
Ne sono consapevoli anche le grandi imprese con solide radici industriali. Come General Electric. Che proprio di recente da spostato il suo quartier generale da Fairfield (Connecticut) all’area di Boston, proprio là dove maturano conoscenza, creatività, ambiente favorevole alle imprese innovative, dove accanto a un luogo di formazione e d’innovazione d’eccellenza come il Mit (Massachussets Institute of Technology) crescono case editrici, think tanks, laboratori artistici. Un’indicazione interessante, da usare come buon paradigma.
Ma se “la creatività è il vero capitale”, cosa la stimola, cosa la determina, cosa la tiene in vita? Eric Weiner, giornalista di talento, in “The Geography of Genius” (Simon & Schuster), parla di “quattro D”: “Diversità delle idee; discernimento; disordine, perché dal caos arrivano sempre flussi positivi di innovazione; e disagio, la spinta creativa nata dalle necessità”. Weiner ha trovato queste caratteristiche nell’antica Atene, nella Firenze del Rinascimento (“Un modello d’innovazione migliore di quel che è ora la Silicon Valley”), nella Londra di Shakespeare e nella Vienna di Mozart e Beethoven. E insiste sulle interrelazioni tra bisogni e ambiente, tra capacità di pensiero e forza dei limiti da superare. Sino al paradigma della “sedia scomoda”: “Più le sedie sono soffici e comode peggio è. Senza limiti siamo perduti. La tensione invece produce invenzioni”, ha spiegato a Viviana Devoto del Corriere della Sera (31 gennaio). Un pensiero analogo al “stay hungry, stay foolish” del discorso di Steve Jobs ai laureandi di Stanford.
Lezioni americane di rilievo, dunque. E in Europa, in Italia, dove la manifattura ha ancora un gran peso? Qui è ancora la manifattura migliore, a fare da cardine del rinnovamento. “Neo-fabbriche e smanettoni”, sintetizza con formula brillante Aldo Bonomi, sociologo attento osservatore dell’innovazione. Ibridazioni di produzione e ricerca. Creatività e design applicati anche alla meccanica. Industria hi tech e medium tech competitività a livello internazionale e in cerca di migliorare la sua stessa competitività. Il punto di riferimento è Milano, quella metropoli in cui, tra città grande, Brianza e Lodi, la manifattura pesa per il 29% del Pil (la media italiana è del 18%) e si verifica un’alta concentrazione di industria, università, servizi, cultura, ricerca. Il futuro? Appunto una “Milano creativa” che Assolombarda definisce “Steam”, acronimo per science, technology, education, arts e appunto manufacturing. Una creativa “cultura politecnica”. D’altronde, di creatività, gli italiani, anche gli industriali italiani, sono tradizionalmente maestri. Con lo sguardo brillante al futuro.