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La crisi della democrazia, le scorciatoie sbagliate e la lezione politica e civile di Gaetano Salvemini

Rileggere i classici, in tempi di fragilità e incertezze. Cercando, nelle loro pagine, parole utili a fare da guida nelle confuse vicende della nostra controversa attualità. Rileggere Gaetano Salvemini, per esempio. Ecco alcune righe illuminanti: “Il diritto di voto non rende il cittadino né più intelligente né più saggio. Né il suffragio universale è il toccasana di tutti i mali… Una elezione è una rivoluzione omeopatica, o una rivoluzione risparmiata. E il suffragio universale è semplicemente uno specchio, nel quale si riflette la realtà del momento in cui viene usato. Se gli elettori non conoscono i loro diritti o non sanno che farsene, il suffragio universale produrrà la fine dello stesso suffragio universale. Quando la realtà è barbara, lo specchio rifletterà una immagine barbara”.

E’ il 1952 quando Salvemini, intellettuale e politico liberale, da poco tornato in Italia dopo un lungo esilio da antifascista negli Usa, affida queste riflessioni alla rivista “Il Ponte” diretta da Piero Calamandrei, in un saggio, “Fu l’Italia prefascista una democrazia?”, che prende le mosse da Giolitti e il Risorgimento per affrontare il nodo del rapporto tra la crisi delle istituzioni liberali nei primi anni del Novecento, l’avvento del fascismo e la grande popolarità di Mussolini come “uomo della Provvidenza” e, finalmente, mettere in evidenza le questioni che il nuovo corso della democrazia, nel segno della Costituzione, pone a una classe politica incerta tra radicale rinnovamento e tiepida conservazione.

Quel saggio, lucido e lungimirante, è adesso di nuovo nelle librerie per iniziativa di Bollati Boringhieri (dopo la meritoria pubblicazione dei saggi “Sulla democrazia”, gli scritti e le lezioni americane dal 1934 al 1940). Il titolo è “La rivoluzione del ricco”, con la cura di Francesco Torchiani, che scrive anche una brillante postfazione. Si ragiona sulla fragilità delle istituzioni rappresentative, in carenza di un forte senso civile democratico. E si insiste sulle responsabilità della buona politica per cercare di dare risposte alle domande popolari di riforme, di miglioramenti della qualità della vita e del lavoro, di ricucitura delle fratture degli squilibri economici e sociali che determinano fratture e rancori. Una lezione attualissima, appunto.

Ci sono, nel saggio, le ripetizioni delle critiche di Salvemini (e dell’amico Piero Gobetti) a Giolitti e al suo troppo moderato riformismo (sino all’incomprensione del carattere positivo delle proteste sociali nel Mezzogiorno), l’eco delle polemiche con Benedetto Croce e Palmiro Togliatti affascinati, invece, dalle relazioni tra Giolitti e il riformismo socialista, la riaffermazione dell’idea di una democrazia che superi le tentazioni oligarchiche (la “rivoluzione del ricco”, appunto) e sappia dare voce e spazio ad autentiche, ampie esigenze di partecipazione. E c’è, soprattutto, “un invito esplicito – nota Torchiani – a non dimenticare il ruolo delle minoranze organizzate che, in momenti difficili hanno saputo dar prova di coraggio e lungimiranza. A questi punti di riferimento occorre guardare quando l’orizzonte si fa inquietante”.

Ecco un punto chiave: il ruolo delle minoranze, forza essenziale di una democrazia non tanto efficiente quanto soprattutto efficace, nella capacità di rappresentanza, nella forza di rappresentazione della reale sostanza dei problemi e nell’attitudine a dare, a quei problemi, risposte di buon governo.

Salvemini era stato, proprio in quegli anni Cinquanta, una delle firme di punta de “Il Mondo”, il settimanale diretto da Mario Pannunzio, sulla sponda del pensiero critico liberale tutt’altro che incline al conservatorismo del partito guidato da Giovanni Malagodi e aperto invece al dialogo con le componenti più riformatici del mondo cattolico e del partito socialista (un periodico, per forza di carattere, “antifascista in nome dell’intelligenza, anticomunista in nome della libertà, anticlericale in nome della ragione”).

Settimanale nettamente minoritario, “Il Mondo” (vendeva poche decine di migliaia di copie, quando gli altri autorevoli settimanali come “L’Europeo”, “Epoca” e poi “L’Espresso” affollavano le edicole con successo di pubblico). Eppure autorevolissimo, per qualità delle analisi e dei commenti, accuratezza delle inchieste, solida cultura delle recensioni e degli interventi letterari e, caratteristica tutt’altro che secondaria, per una visione aperta delle trasformazioni della società italiana tra boom economico e radicali e spesso travolgenti cambiamenti sociali.

La politica e le istituzioni arrancavano, senza riuscire a dare risposte esaurienti alle innovazioni in atto. Lo sarebbero state anche altre volte, nel corso della storia recente. Il riformismo non è mai stato agevolmente di casa, sullo scenario politico italiano.

La lezione istituzionale e politica di Salvemini sta proprio qui: nella necessità di non ridurre la democrazia rappresentativa al pur indispensabile sistema di voto del suffragio universale ma, semmai, di viverla nella sua complessità: istituzioni, sistema di pesi e contrappesi, autonomie e relative responsabilità (a cominciare dalla magistratura), libertà di stampa, formazione dell’opinione pubblica, scuola, funzione fondamentale delle forze sociali, legami tra diritti e doveri nelle dinamiche delle relazioni industriali e del welfare State. Democrazia come governo delle complessità, partecipazione, consapevolezza.

Sono, appunto, le questioni con cui ancora oggi facciamo i conti, pur in contesti profondamente mutati. Questioni cui dare risposte. Senza le scorciatoie inefficaci e autoritarie di populismo e sovranismo, senza le polemiche sul Parlamento “da aprire come una scatoletta di tonno” o del sorteggio dei parlamentari con cui sostituire il voto consapevole, senza “l’immagine barbara” che, alla Salvemini, si riflette nello specchio del voto. Semmai, con un solido supplemento di conoscenza, competenza, partecipazione, con un forte senso del valore degli interessi generali di una comunità.

Serve davvero, rileggere “i classici”.

Rileggere i classici, in tempi di fragilità e incertezze. Cercando, nelle loro pagine, parole utili a fare da guida nelle confuse vicende della nostra controversa attualità. Rileggere Gaetano Salvemini, per esempio. Ecco alcune righe illuminanti: “Il diritto di voto non rende il cittadino né più intelligente né più saggio. Né il suffragio universale è il toccasana di tutti i mali… Una elezione è una rivoluzione omeopatica, o una rivoluzione risparmiata. E il suffragio universale è semplicemente uno specchio, nel quale si riflette la realtà del momento in cui viene usato. Se gli elettori non conoscono i loro diritti o non sanno che farsene, il suffragio universale produrrà la fine dello stesso suffragio universale. Quando la realtà è barbara, lo specchio rifletterà una immagine barbara”.

E’ il 1952 quando Salvemini, intellettuale e politico liberale, da poco tornato in Italia dopo un lungo esilio da antifascista negli Usa, affida queste riflessioni alla rivista “Il Ponte” diretta da Piero Calamandrei, in un saggio, “Fu l’Italia prefascista una democrazia?”, che prende le mosse da Giolitti e il Risorgimento per affrontare il nodo del rapporto tra la crisi delle istituzioni liberali nei primi anni del Novecento, l’avvento del fascismo e la grande popolarità di Mussolini come “uomo della Provvidenza” e, finalmente, mettere in evidenza le questioni che il nuovo corso della democrazia, nel segno della Costituzione, pone a una classe politica incerta tra radicale rinnovamento e tiepida conservazione.

Quel saggio, lucido e lungimirante, è adesso di nuovo nelle librerie per iniziativa di Bollati Boringhieri (dopo la meritoria pubblicazione dei saggi “Sulla democrazia”, gli scritti e le lezioni americane dal 1934 al 1940). Il titolo è “La rivoluzione del ricco”, con la cura di Francesco Torchiani, che scrive anche una brillante postfazione. Si ragiona sulla fragilità delle istituzioni rappresentative, in carenza di un forte senso civile democratico. E si insiste sulle responsabilità della buona politica per cercare di dare risposte alle domande popolari di riforme, di miglioramenti della qualità della vita e del lavoro, di ricucitura delle fratture degli squilibri economici e sociali che determinano fratture e rancori. Una lezione attualissima, appunto.

Ci sono, nel saggio, le ripetizioni delle critiche di Salvemini (e dell’amico Piero Gobetti) a Giolitti e al suo troppo moderato riformismo (sino all’incomprensione del carattere positivo delle proteste sociali nel Mezzogiorno), l’eco delle polemiche con Benedetto Croce e Palmiro Togliatti affascinati, invece, dalle relazioni tra Giolitti e il riformismo socialista, la riaffermazione dell’idea di una democrazia che superi le tentazioni oligarchiche (la “rivoluzione del ricco”, appunto) e sappia dare voce e spazio ad autentiche, ampie esigenze di partecipazione. E c’è, soprattutto, “un invito esplicito – nota Torchiani – a non dimenticare il ruolo delle minoranze organizzate che, in momenti difficili hanno saputo dar prova di coraggio e lungimiranza. A questi punti di riferimento occorre guardare quando l’orizzonte si fa inquietante”.

Ecco un punto chiave: il ruolo delle minoranze, forza essenziale di una democrazia non tanto efficiente quanto soprattutto efficace, nella capacità di rappresentanza, nella forza di rappresentazione della reale sostanza dei problemi e nell’attitudine a dare, a quei problemi, risposte di buon governo.

Salvemini era stato, proprio in quegli anni Cinquanta, una delle firme di punta de “Il Mondo”, il settimanale diretto da Mario Pannunzio, sulla sponda del pensiero critico liberale tutt’altro che incline al conservatorismo del partito guidato da Giovanni Malagodi e aperto invece al dialogo con le componenti più riformatici del mondo cattolico e del partito socialista (un periodico, per forza di carattere, “antifascista in nome dell’intelligenza, anticomunista in nome della libertà, anticlericale in nome della ragione”).

Settimanale nettamente minoritario, “Il Mondo” (vendeva poche decine di migliaia di copie, quando gli altri autorevoli settimanali come “L’Europeo”, “Epoca” e poi “L’Espresso” affollavano le edicole con successo di pubblico). Eppure autorevolissimo, per qualità delle analisi e dei commenti, accuratezza delle inchieste, solida cultura delle recensioni e degli interventi letterari e, caratteristica tutt’altro che secondaria, per una visione aperta delle trasformazioni della società italiana tra boom economico e radicali e spesso travolgenti cambiamenti sociali.

La politica e le istituzioni arrancavano, senza riuscire a dare risposte esaurienti alle innovazioni in atto. Lo sarebbero state anche altre volte, nel corso della storia recente. Il riformismo non è mai stato agevolmente di casa, sullo scenario politico italiano.

La lezione istituzionale e politica di Salvemini sta proprio qui: nella necessità di non ridurre la democrazia rappresentativa al pur indispensabile sistema di voto del suffragio universale ma, semmai, di viverla nella sua complessità: istituzioni, sistema di pesi e contrappesi, autonomie e relative responsabilità (a cominciare dalla magistratura), libertà di stampa, formazione dell’opinione pubblica, scuola, funzione fondamentale delle forze sociali, legami tra diritti e doveri nelle dinamiche delle relazioni industriali e del welfare State. Democrazia come governo delle complessità, partecipazione, consapevolezza.

Sono, appunto, le questioni con cui ancora oggi facciamo i conti, pur in contesti profondamente mutati. Questioni cui dare risposte. Senza le scorciatoie inefficaci e autoritarie di populismo e sovranismo, senza le polemiche sul Parlamento “da aprire come una scatoletta di tonno” o del sorteggio dei parlamentari con cui sostituire il voto consapevole, senza “l’immagine barbara” che, alla Salvemini, si riflette nello specchio del voto. Semmai, con un solido supplemento di conoscenza, competenza, partecipazione, con un forte senso del valore degli interessi generali di una comunità.

Serve davvero, rileggere “i classici”.

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