“Nessun uomo è un’isola…”. I racconti di buone imprese nell’“Italia dei rancori”
C’è chi soffre disagi crescenti e nutre sempre più forti rancori, come rivela l’ultimo Rapporto del Censis. E chi invece non s’arrende: intraprende, investe, innova e cerca di costruire ragioni per rinsaldare pur fragili comunità. E’ sempre contrastato e controverso, il ritratto dell’Italia contemporanea. Se ne possono valorizzare i tratti essenziali, per cercare di capire meglio. Dovrebbero farlo, innanzitutto, i protagonisti della politica. Peccato che troppo spesso s’occupino d’altro. E che in parecchi, da irresponsabili, alimentino risentimenti, rabbie e, appunto, rancori, da spregiudicati “imprenditori della paura” per lucrare consensi elettorali.
In questo sommario “viaggio” tra gli umori delle persone (si rifiuta il termine “gente”, che sa di populismo e subculture da cattivo spettacolo), si può partire da una vignetta e da una pubblicità. La vignetta è di Altan, sull’ultimo numero de “L’Espresso”. Due uomini in tuta, impegnati a correre. “Ma dove stiamo andando?”, chiede il primo. “Io che ne so? Sono un suo follower”, risponde l’altro. Solitudine, spirito gregario, disperazione, ai tempi delle finte comunità da social media.
La pubblicità di cui parliamo apre orizzonti diversi: “Nessun uomo è un’isola. Neanche un supermercato”. Titolo forte, a doppia pagina, sui principali quotidiani. Il testo continua così: “L’uomo, che Aristotele definisce politikòn zôon, per sua natura tende a unirsi ai propri simili per formare delle comunità. La socialità, lo scambio di opinioni, le scelte che fissano e rafforzano identità comuni rappresentano la vocazione del singolo ad andare verso il sociale, cioè verso l’altro” e via via continuando sino a “per noi che non siamo un’isola, comprendere viene prima di vendere”. Vendere? La firma della pubblicità, nettamente “politica” e niente affatto retorica, è Conad, supermercati, anzi supermercati in cooperativa, che proprio delle idee di condivisione, responsabilità sociale, comunità ed “economia civile” ha fatto patrimonio della propria identità, sostanza del proprio stare sui territori, nelle grandi città e nei piccoli centri. Nell’Italia slabbrata, anche un supermercato, citando Aristotele e un verso del poeta seicentesco inglese John Donne (“No man is an island, entire of itselfe…”) può cercare di ricucire fratture economiche e sociali. Un esempio di economia responsabile su cui riflettere.
L’economia italiana è in ripresa, il Pil 2017 cresce oltre le previsioni di governo e istituzioni internazionali, superando probabilmente l’1,7% (il premier Gentiloni, che ha parecchi meriti di equilibrio e intelligente amministrazione, parla adesso di crescita “vicina al 2%”) e influenzando positivamente il 2018. Aumentano gli investimenti, l’export, i posti di lavoro. Anche i consumi, naturalmente. E un po’ i risparmi. Eppure chi, come il Censis, ha imparato da anni a scandagliare gli umori più profondi degli italiani, mette in luce insoddisfazioni, timori e, appunto, “rancori” (la parola sta nel titolo del Rapporto di quest’anno, presentato all’inizio di dicembre).
Cosa succede? C’è un’Italia in movimento, documentata dalle attendibili statistiche dell’Istat sul Pil e un’Italia “percepita” raccontata dalle ombre del Censis? Qualcuno non è credibile?
La risposta è facile: ci sono due volti dell’Italia. E, soldi in tasca a parte (più nettamente percepiti nelle aree economicamente dinamiche, a Milano e Bologna e nel Nord Est, meno evidenti nella Roma in crisi da disastro della pubblica amministrazione e nelle città e nei paesi del Mezzogiorno), restano aperte alcune profonde ferite sociali, che naturalmente la ripresa economica non può rapidamente ricucire: la frattura del patto generazionale (i nostri figli vivranno peggio di noi e questa consapevolezza angoscia decine di migliaia di famiglie), la crisi dei lavori tradizionali sotto la spinta dell’economia digitale, il blocco dell’ascensore sociale (larghissima la percentuale di giovani che teme di non potere migliorare condizione e reddito, anche studiando), la sensazione di insicurezza generale, aggravata dall’invecchiamento della popolazione (gli anziani soli, spaesati, malfermi, in città percepite come ostili, in quartieri abitati sempre più da gruppi sociali e culturali che vengono da mondi radicalmente diversi).
Nell’Italia in cambiamento l’insicurezza prevale sulla speranza. Servirebbe far bene politica, per ricostruire un circolo virtuoso di aspettative positive, ridare spazio alla fiducia. Ci si può augurare che arrivi il momento di governanti virtuosi e non di populisti parolai. E che la moneta buona della fiducia scacci la moneta perversa della paura.
Altri attori sociali si muovono bene. Le imprese familiari, per esempio. Aperte all’innovazione e anche al cambio “manageriale”: nel passaggio generazionale dal fondatore ai figli, sono sempre più frequenti i casi in cui la proprietà e le strategie restano in famiglia e per la gestione ci si affida alle competenze di bravi manager. Assicurando così all’impresa sviluppo, solidità, futuro. Lo conferma anche una recente ricerca dell’Università Cattolica di Milano (“IlSole24Ore”, 3 dicembre), lo testimoniano le iniziative dell’Aidaf, l’associazione delle imprese familiari guidata da Elena Zambon, famiglia di industriali farmaceutici di solide radici italiane e visione internazionale. Le imprese motore di crescita equilibrata, con robusto senso dell’innovazione ma anche del welfare, del rapporto con i territori e della responsabilità della crescita. Cultura d’impresa positiva. Senza rimpianti né rancori. Nessuna impresa è un’isola…
C’è chi soffre disagi crescenti e nutre sempre più forti rancori, come rivela l’ultimo Rapporto del Censis. E chi invece non s’arrende: intraprende, investe, innova e cerca di costruire ragioni per rinsaldare pur fragili comunità. E’ sempre contrastato e controverso, il ritratto dell’Italia contemporanea. Se ne possono valorizzare i tratti essenziali, per cercare di capire meglio. Dovrebbero farlo, innanzitutto, i protagonisti della politica. Peccato che troppo spesso s’occupino d’altro. E che in parecchi, da irresponsabili, alimentino risentimenti, rabbie e, appunto, rancori, da spregiudicati “imprenditori della paura” per lucrare consensi elettorali.
In questo sommario “viaggio” tra gli umori delle persone (si rifiuta il termine “gente”, che sa di populismo e subculture da cattivo spettacolo), si può partire da una vignetta e da una pubblicità. La vignetta è di Altan, sull’ultimo numero de “L’Espresso”. Due uomini in tuta, impegnati a correre. “Ma dove stiamo andando?”, chiede il primo. “Io che ne so? Sono un suo follower”, risponde l’altro. Solitudine, spirito gregario, disperazione, ai tempi delle finte comunità da social media.
La pubblicità di cui parliamo apre orizzonti diversi: “Nessun uomo è un’isola. Neanche un supermercato”. Titolo forte, a doppia pagina, sui principali quotidiani. Il testo continua così: “L’uomo, che Aristotele definisce politikòn zôon, per sua natura tende a unirsi ai propri simili per formare delle comunità. La socialità, lo scambio di opinioni, le scelte che fissano e rafforzano identità comuni rappresentano la vocazione del singolo ad andare verso il sociale, cioè verso l’altro” e via via continuando sino a “per noi che non siamo un’isola, comprendere viene prima di vendere”. Vendere? La firma della pubblicità, nettamente “politica” e niente affatto retorica, è Conad, supermercati, anzi supermercati in cooperativa, che proprio delle idee di condivisione, responsabilità sociale, comunità ed “economia civile” ha fatto patrimonio della propria identità, sostanza del proprio stare sui territori, nelle grandi città e nei piccoli centri. Nell’Italia slabbrata, anche un supermercato, citando Aristotele e un verso del poeta seicentesco inglese John Donne (“No man is an island, entire of itselfe…”) può cercare di ricucire fratture economiche e sociali. Un esempio di economia responsabile su cui riflettere.
L’economia italiana è in ripresa, il Pil 2017 cresce oltre le previsioni di governo e istituzioni internazionali, superando probabilmente l’1,7% (il premier Gentiloni, che ha parecchi meriti di equilibrio e intelligente amministrazione, parla adesso di crescita “vicina al 2%”) e influenzando positivamente il 2018. Aumentano gli investimenti, l’export, i posti di lavoro. Anche i consumi, naturalmente. E un po’ i risparmi. Eppure chi, come il Censis, ha imparato da anni a scandagliare gli umori più profondi degli italiani, mette in luce insoddisfazioni, timori e, appunto, “rancori” (la parola sta nel titolo del Rapporto di quest’anno, presentato all’inizio di dicembre).
Cosa succede? C’è un’Italia in movimento, documentata dalle attendibili statistiche dell’Istat sul Pil e un’Italia “percepita” raccontata dalle ombre del Censis? Qualcuno non è credibile?
La risposta è facile: ci sono due volti dell’Italia. E, soldi in tasca a parte (più nettamente percepiti nelle aree economicamente dinamiche, a Milano e Bologna e nel Nord Est, meno evidenti nella Roma in crisi da disastro della pubblica amministrazione e nelle città e nei paesi del Mezzogiorno), restano aperte alcune profonde ferite sociali, che naturalmente la ripresa economica non può rapidamente ricucire: la frattura del patto generazionale (i nostri figli vivranno peggio di noi e questa consapevolezza angoscia decine di migliaia di famiglie), la crisi dei lavori tradizionali sotto la spinta dell’economia digitale, il blocco dell’ascensore sociale (larghissima la percentuale di giovani che teme di non potere migliorare condizione e reddito, anche studiando), la sensazione di insicurezza generale, aggravata dall’invecchiamento della popolazione (gli anziani soli, spaesati, malfermi, in città percepite come ostili, in quartieri abitati sempre più da gruppi sociali e culturali che vengono da mondi radicalmente diversi).
Nell’Italia in cambiamento l’insicurezza prevale sulla speranza. Servirebbe far bene politica, per ricostruire un circolo virtuoso di aspettative positive, ridare spazio alla fiducia. Ci si può augurare che arrivi il momento di governanti virtuosi e non di populisti parolai. E che la moneta buona della fiducia scacci la moneta perversa della paura.
Altri attori sociali si muovono bene. Le imprese familiari, per esempio. Aperte all’innovazione e anche al cambio “manageriale”: nel passaggio generazionale dal fondatore ai figli, sono sempre più frequenti i casi in cui la proprietà e le strategie restano in famiglia e per la gestione ci si affida alle competenze di bravi manager. Assicurando così all’impresa sviluppo, solidità, futuro. Lo conferma anche una recente ricerca dell’Università Cattolica di Milano (“IlSole24Ore”, 3 dicembre), lo testimoniano le iniziative dell’Aidaf, l’associazione delle imprese familiari guidata da Elena Zambon, famiglia di industriali farmaceutici di solide radici italiane e visione internazionale. Le imprese motore di crescita equilibrata, con robusto senso dell’innovazione ma anche del welfare, del rapporto con i territori e della responsabilità della crescita. Cultura d’impresa positiva. Senza rimpianti né rancori. Nessuna impresa è un’isola…