La “diversità cooperante” può far vincere l’impresa. Ma occorre saperle gestire
Una volta piccolo era bello, adesso – sempre di più – diverso può essere bello, efficace, efficiente, competitivo. Anche e soprattutto in economia. Sempre che si riesca a conciliare istanze diverse, origini differenti, modi di pensare variegati, approcci alla produzione e alla vita magari apparentemente lontanissimi fra di loro. Quella che si potrebbe chiamare “diversità cooperante”, è – a ben vedere – una delle sfide (forse la sfida principale), della produzione in senso lato. Vincono le imprese che sanno diversificare, ma anche quelle che riescono piùugrave; di altre ad unire menti diverse in un solo luogo e a farle ragionare insieme, quelle che accorpano in una sola squadra manualità di origine differente e a farle lavorare insieme.
Ma non tutto è così facile. Capire attraverso quali percorsi le imprese si muovo di fronte alla diversità è quindi sempre utile per comprendere quali errori non commettere e quali strade percorrere. “Cultural diversity in organizations A study on the view and management on cultural diversity” – una tesi presentata da Dhakshayene Holmgren e Anneli Jonsson alla Umeå School of Business and Economics nella sessione primaverile-estiva appena conclusasi -, serve proprio per questo. Si tratta di un studio che parte dalle basi teoriche del tema per arrivare ad una serie di interviste in imprese svedesi. Un lavoro che, proprio perché “ambientato” in un’area che dovrebbe essere molto avanzata dal punto di vista dell’accoglienza delle diversità culturali, arriva a conclusioni inaspettate.
L’idea dalla quale partono i due studiosi è semplice. “La globalizzazione delle economie e le migrazioni – spiegano – hanno aumentato le opportunità” ma anche la necessità che le organizzazioni siano più aperte e “accomodanti nei confronti di un ambiente di lavoro eterogeneo”. La constatazione è però che “purtroppo molte aziende non vedono i vantaggi che la diversità culturale potrebbe portare e come una diversità culturale ben gestita possa consentire di raggiungere vantaggi competitivi nel mercato”.
Ma in realtà che cosa accade? A questa domanda il lavoro risponde con l’analisi di sette casi aziendali diversi, quelli di: Iksu (attiva dal 1959 nell’ambito dei settori sportivi), Indexator (azienda metalmeccanica creata nel 1967), Komatsu Forest e SCA Obbola (entrambe attive nel comparto forestale), Norrmejerier (un’impresa di trasformazione di latte nata dall’unione di decine e decine di produttori), Umetrics (creata nell’ambito dell’Università e attiva nel settore dell’analisi dei dati), e di Umiren Stad AB (un’agenzia di lavoro temporaneo).
Due sembrano le conclusioni empiriche di questo lavoro. Da un lato, la diversità culturale viene vista comunque come un elemento positivo. Ma, dall’altro, l’esplicitazione pratica è tutta un’altra cosa. “La maggior parte delle aziende – viene spiegato ancora -, non ha una visione olistica” dell’argomento e quindi non riesce “ad articolare la diversità a livello strategico e di conseguenza in tutte le dimensioni dell’organizzazione”. Con risultati che, quindi, non sempre sono ottimali. Insomma, in tema di “diversità cooperante” la strada è ancora complessa. Anche in Svezia.
Cultural diversity in organizations. A study on the view and management on cultural diversity
Dhakshayene Holmgren, Anneli Jonsson
Umeå School of Business and Economics
Spring semester 2013
Una volta piccolo era bello, adesso – sempre di più – diverso può essere bello, efficace, efficiente, competitivo. Anche e soprattutto in economia. Sempre che si riesca a conciliare istanze diverse, origini differenti, modi di pensare variegati, approcci alla produzione e alla vita magari apparentemente lontanissimi fra di loro. Quella che si potrebbe chiamare “diversità cooperante”, è – a ben vedere – una delle sfide (forse la sfida principale), della produzione in senso lato. Vincono le imprese che sanno diversificare, ma anche quelle che riescono piùugrave; di altre ad unire menti diverse in un solo luogo e a farle ragionare insieme, quelle che accorpano in una sola squadra manualità di origine differente e a farle lavorare insieme.
Ma non tutto è così facile. Capire attraverso quali percorsi le imprese si muovo di fronte alla diversità è quindi sempre utile per comprendere quali errori non commettere e quali strade percorrere. “Cultural diversity in organizations A study on the view and management on cultural diversity” – una tesi presentata da Dhakshayene Holmgren e Anneli Jonsson alla Umeå School of Business and Economics nella sessione primaverile-estiva appena conclusasi -, serve proprio per questo. Si tratta di un studio che parte dalle basi teoriche del tema per arrivare ad una serie di interviste in imprese svedesi. Un lavoro che, proprio perché “ambientato” in un’area che dovrebbe essere molto avanzata dal punto di vista dell’accoglienza delle diversità culturali, arriva a conclusioni inaspettate.
L’idea dalla quale partono i due studiosi è semplice. “La globalizzazione delle economie e le migrazioni – spiegano – hanno aumentato le opportunità” ma anche la necessità che le organizzazioni siano più aperte e “accomodanti nei confronti di un ambiente di lavoro eterogeneo”. La constatazione è però che “purtroppo molte aziende non vedono i vantaggi che la diversità culturale potrebbe portare e come una diversità culturale ben gestita possa consentire di raggiungere vantaggi competitivi nel mercato”.
Ma in realtà che cosa accade? A questa domanda il lavoro risponde con l’analisi di sette casi aziendali diversi, quelli di: Iksu (attiva dal 1959 nell’ambito dei settori sportivi), Indexator (azienda metalmeccanica creata nel 1967), Komatsu Forest e SCA Obbola (entrambe attive nel comparto forestale), Norrmejerier (un’impresa di trasformazione di latte nata dall’unione di decine e decine di produttori), Umetrics (creata nell’ambito dell’Università e attiva nel settore dell’analisi dei dati), e di Umiren Stad AB (un’agenzia di lavoro temporaneo).
Due sembrano le conclusioni empiriche di questo lavoro. Da un lato, la diversità culturale viene vista comunque come un elemento positivo. Ma, dall’altro, l’esplicitazione pratica è tutta un’altra cosa. “La maggior parte delle aziende – viene spiegato ancora -, non ha una visione olistica” dell’argomento e quindi non riesce “ad articolare la diversità a livello strategico e di conseguenza in tutte le dimensioni dell’organizzazione”. Con risultati che, quindi, non sempre sono ottimali. Insomma, in tema di “diversità cooperante” la strada è ancora complessa. Anche in Svezia.
Cultural diversity in organizations. A study on the view and management on cultural diversity
Dhakshayene Holmgren, Anneli Jonsson
Umeå School of Business and Economics
Spring semester 2013