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 La forza essenziale e “leggera” delle parole di Mattarella e Draghi

C’è una straordinaria forza, nelle parole. Come per esempio nei tre aggettivi, “sanitario”, “economico” e “sociale”, usati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella breve dichiarazione subito dopo aver ricevuto la notizia ufficiale della rielezione al Quirinale, per definire il terreno delle emergenze che l’Italia si trova ad affrontare. Tre aggettivi chiari, essenziali, che chiedono risposte politiche, programmi di governo, riforme in Parlamento. Per la salute. E lo sviluppo sostenibile.

Anche Mario Draghi, rassicurato e rinsaldato alla presidenza del Consiglio proprio dalla rielezione di Mattarella, è una persona abituata al linguaggio scabro e preciso. Resta, nell’annuario della buona politica, quella sua frase in tre parole, “whatever it takes”, che salvò l’euro e l’Europa (e dunque anche la tenuta economica e sociale dell’Italia). Adesso, coerentemente, Draghi sta facendo “tutto ciò che serve” per le riforme e gli investimenti necessari a portare il paese fuori dalle traversie dolorose della pandemia e della recessione.

C’è un’altra parola fondamentale , che ricorre nei loro discorsi pubblici: “conoscenza”. Che si declina anche in “competenza” e, naturalmente, in “formazione” e “scuola”.

“I giovani – aveva detto Draghi in un discorso del settembre 2017 al Trinity College di Dublino – non vogliono vivere di sussidi. Vogliono lavorare e accrescere le opportunità della loro vita”. E l’impegno di chi governa è fare fronte “a un’eredità di speranze deluse, rabbia e, in definitiva, sfiducia nei valori della nostra società e nell’identità della democrazia”. Fiducia da ricostruire, appunto, senza “alimentare false speranze” ma con indicazioni e scelte per speranze concrete”. Perché “privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. E dunque “la scuola è la prima spesa produttiva su cui investire”.

Adesso Draghi governa. Traduce parole progettuali in atti, norme, stanziamenti. Le scelte concrete del Pnrr, secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue, vanno in questa direzione.

Le parole sono importanti. “Pietre”, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma anche “leggere”, tutt’altro che vaghe e volatili, secondo le “Lezioni americane” di Italo Calvino: “Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. O i versi di Paul Valéry: “Si deve essere leggeri come l’uccello che vola e non come la piuma”.

La “leggerezza” responsabile e istituzionale di Mattarella. La “leggerezza” progettuale e pragmatica del buon governo di Draghi. Facile? “La facilità è una forma di perfezione che contiene la sostanza di un lungo lavoro”, per dirla con Paolo Conte, musicista capace di straordinaria poesia.

Mattarella è un giurista, forte di un’ampia e sofisticata cultura umanistica. Conosce bene, per studi ed esperienza, il significato di due frasi care alla cultura romana: “Rem tene, verba sequentur” ma anche “nomina sunt consequentia rerum”. E se è vero che il latino è il ragionare, ecco che le parole definiscono il mondo, ne raccontano la storia e ne indicano il futuro solo quando c’è una forte relazione con la sostanza delle cose. Altrimenti, si tratta di vuota retorica. Un buon giurista, appunto, lo sa.

Mario Draghi è un economista. Ha studiato in un ottimo liceo classico, dai gesuiti del “Massimo” di Roma e conosce bene anche lui il valore del discorso e il peso dei dati. Dal suo maestro universitario, Federico Caffè, ha imparato, tra l’altro, l’importanza dell’“economia degli affetti”, ragionando di valori, diritti delle persone, aspettative d’una migliore qualità della vita e del lavoro. E ne interpreta, in modo originale, un’idea forte del riformismo: “Il riformista preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione del ‘sistema’”.

Vale, per Mattarella e Draghi, il richiamo a una sottile eppur fondamentale differenza linguistica: “eloquens”, dicevano i latini, per indicare “colui che parla bene, in modo etico”, ben diverso dal loquens, “colui che parla”, spesso impropriamente. Tutta la differenza, radicale, sta in una “e”. La vita politica, anche adesso, ne offre parecchi esempi.

D’altronde, “il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto ‘sonoro’ potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino“. Il giudizio, severo e attualissimo, è di Giovannino Guareschi, scrittore acuto e sensibile, nell’Italia degli anni Cinquanta.

Oggi, la rivalutazione dello studio delle lingue classiche (il latino e il greco della filosofia e della scienza, oltre che della poesia e del grande teatro) nel contesto della “cultura politecnica” fa ben sperare. Conoscenza, appunto.

Continuando a ragionare di parole, viene in mente un altro gioco di sottili differenze. I francesi distinguono “écrivain”, lo scrittore (il romanziere, il filosofo, il saggista, l’autore di qualità) da “écrivant”, chi fa il mestiere d’una scrittura tecnica, usuale, burocratica. Scrittore e scrivano, insomma.

Sono fondamentali, gli occhi attenti alle differenze. In un mondo di gente che parla e scrive senza senso né intelligente cura per la responsabilità.

Mattarella è siciliano, d’animo retto e forte, tutto il contrario del “gattopardismo”, delle contorsioni verbali, delle imposture retoriche del potere, che ben conosce ma che per robusta etica personale e politica, non usa. E ha sicuramente dimestichezza con le pagine di Leonardo Sciascia. Come questa, tratta da “Gli zii di Sicilia”: “Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini, sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma a ogni momento pronto all’azione: un uomo che non pare abbia molte speranze eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori… una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e familiare la morte. Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto e amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice”.

Ecco, appunto: parole parche e dirette. Ancora Sciascia: “Credo nel mistero delle parole e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza”.

Bellezza è una parola “leggera”. Essenziale. Un impegno di lavoro e di vita. E, perché no?, di governo.

C’è una straordinaria forza, nelle parole. Come per esempio nei tre aggettivi, “sanitario”, “economico” e “sociale”, usati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella breve dichiarazione subito dopo aver ricevuto la notizia ufficiale della rielezione al Quirinale, per definire il terreno delle emergenze che l’Italia si trova ad affrontare. Tre aggettivi chiari, essenziali, che chiedono risposte politiche, programmi di governo, riforme in Parlamento. Per la salute. E lo sviluppo sostenibile.

Anche Mario Draghi, rassicurato e rinsaldato alla presidenza del Consiglio proprio dalla rielezione di Mattarella, è una persona abituata al linguaggio scabro e preciso. Resta, nell’annuario della buona politica, quella sua frase in tre parole, “whatever it takes”, che salvò l’euro e l’Europa (e dunque anche la tenuta economica e sociale dell’Italia). Adesso, coerentemente, Draghi sta facendo “tutto ciò che serve” per le riforme e gli investimenti necessari a portare il paese fuori dalle traversie dolorose della pandemia e della recessione.

C’è un’altra parola fondamentale , che ricorre nei loro discorsi pubblici: “conoscenza”. Che si declina anche in “competenza” e, naturalmente, in “formazione” e “scuola”.

“I giovani – aveva detto Draghi in un discorso del settembre 2017 al Trinity College di Dublino – non vogliono vivere di sussidi. Vogliono lavorare e accrescere le opportunità della loro vita”. E l’impegno di chi governa è fare fronte “a un’eredità di speranze deluse, rabbia e, in definitiva, sfiducia nei valori della nostra società e nell’identità della democrazia”. Fiducia da ricostruire, appunto, senza “alimentare false speranze” ma con indicazioni e scelte per speranze concrete”. Perché “privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. E dunque “la scuola è la prima spesa produttiva su cui investire”.

Adesso Draghi governa. Traduce parole progettuali in atti, norme, stanziamenti. Le scelte concrete del Pnrr, secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue, vanno in questa direzione.

Le parole sono importanti. “Pietre”, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma anche “leggere”, tutt’altro che vaghe e volatili, secondo le “Lezioni americane” di Italo Calvino: “Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. O i versi di Paul Valéry: “Si deve essere leggeri come l’uccello che vola e non come la piuma”.

La “leggerezza” responsabile e istituzionale di Mattarella. La “leggerezza” progettuale e pragmatica del buon governo di Draghi. Facile? “La facilità è una forma di perfezione che contiene la sostanza di un lungo lavoro”, per dirla con Paolo Conte, musicista capace di straordinaria poesia.

Mattarella è un giurista, forte di un’ampia e sofisticata cultura umanistica. Conosce bene, per studi ed esperienza, il significato di due frasi care alla cultura romana: “Rem tene, verba sequentur” ma anche “nomina sunt consequentia rerum”. E se è vero che il latino è il ragionare, ecco che le parole definiscono il mondo, ne raccontano la storia e ne indicano il futuro solo quando c’è una forte relazione con la sostanza delle cose. Altrimenti, si tratta di vuota retorica. Un buon giurista, appunto, lo sa.

Mario Draghi è un economista. Ha studiato in un ottimo liceo classico, dai gesuiti del “Massimo” di Roma e conosce bene anche lui il valore del discorso e il peso dei dati. Dal suo maestro universitario, Federico Caffè, ha imparato, tra l’altro, l’importanza dell’“economia degli affetti”, ragionando di valori, diritti delle persone, aspettative d’una migliore qualità della vita e del lavoro. E ne interpreta, in modo originale, un’idea forte del riformismo: “Il riformista preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione del ‘sistema’”.

Vale, per Mattarella e Draghi, il richiamo a una sottile eppur fondamentale differenza linguistica: “eloquens”, dicevano i latini, per indicare “colui che parla bene, in modo etico”, ben diverso dal loquens, “colui che parla”, spesso impropriamente. Tutta la differenza, radicale, sta in una “e”. La vita politica, anche adesso, ne offre parecchi esempi.

D’altronde, “il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto ‘sonoro’ potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino“. Il giudizio, severo e attualissimo, è di Giovannino Guareschi, scrittore acuto e sensibile, nell’Italia degli anni Cinquanta.

Oggi, la rivalutazione dello studio delle lingue classiche (il latino e il greco della filosofia e della scienza, oltre che della poesia e del grande teatro) nel contesto della “cultura politecnica” fa ben sperare. Conoscenza, appunto.

Continuando a ragionare di parole, viene in mente un altro gioco di sottili differenze. I francesi distinguono “écrivain”, lo scrittore (il romanziere, il filosofo, il saggista, l’autore di qualità) da “écrivant”, chi fa il mestiere d’una scrittura tecnica, usuale, burocratica. Scrittore e scrivano, insomma.

Sono fondamentali, gli occhi attenti alle differenze. In un mondo di gente che parla e scrive senza senso né intelligente cura per la responsabilità.

Mattarella è siciliano, d’animo retto e forte, tutto il contrario del “gattopardismo”, delle contorsioni verbali, delle imposture retoriche del potere, che ben conosce ma che per robusta etica personale e politica, non usa. E ha sicuramente dimestichezza con le pagine di Leonardo Sciascia. Come questa, tratta da “Gli zii di Sicilia”: “Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini, sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma a ogni momento pronto all’azione: un uomo che non pare abbia molte speranze eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori… una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e familiare la morte. Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto e amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice”.

Ecco, appunto: parole parche e dirette. Ancora Sciascia: “Credo nel mistero delle parole e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza”.

Bellezza è una parola “leggera”. Essenziale. Un impegno di lavoro e di vita. E, perché no?, di governo.

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