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La fuga dei giovani del Sud verso nord ed Europa. Riforme e investimenti per cambiare verso  

Gli italiani residenti all’estero, all’inizio del 2023, sono quasi 6 milioni. E 1,8 milioni hanno meno di trent’anni. Per raccontare i dati da un altro punto di vista, si può dire che il 10,7% della popolazione giovanile nazionale vive stabilmente in un altro paese: più di metà di loro ha scelto una città in Europa. L’Italia, già nettamente in crisi demografica, continua insomma a perdere i suoi giovani, che partono in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E, a segnare un record negativo, appunto per i giovani, sono le città del Mezzogiorno: Enna (477,5 ogni mille abitanti, un rapporto pari al quintuplo della media nazionale), Agrigento, Isernia, Potenza e poi, dopo la veneta Belluno, Caltanissetta, Vibo Valentia, Campobasso, Cosenza, Avellino… Fuggono anche i pensionati, sempre dalle città del Sud: Enna, Vibo, Isernia, Campobasso, Agrigento, Avellino, Potenza…

Si parte molto pure da Mantova, Rovigo e Lodi, dalle aree del Nord di minore intensità di sviluppo economico. E da Prato (dove però pesano molto i ritorni verso le famiglie d’origine in Cina di abitanti nati in Italia).

Lo rivelano i dati dell’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), elaborati dal ministero dell’Interno e anticipati da “Il Sole24Ore” (6 febbraio). La tendenza è in aumento: gli iscritti all’Aire, nel 2006 erano 3milioni 106mila, adesso sono 5milioni 933mila, il doppio, cioè, con 122mila nuove iscrizioni nel 2022 (un aumento del 2,2% rispetto al ‘21).

Ci sono altri movimenti demografici che meritano attenzione. Per esempio, quelli che dicono che in dieci anni il Mezzogiorno nel suo complesso ha perso oltre 500mila residenti, con una forte componente di ragazze e ragazzi dai 25 ai 34 anni. Lo documenta il quotidiano “Domani” (5 febbraio), titolando così: “La vera emergenza in Italia è la fuga dei giovani dal Sud”.

Sono dati noti, naturalmente. Testimonianze di tendenze che vanno avanti da tempo. Senza che questa grave ferita sociale abbia risposte politiche adeguate. Vale dunque la pena ricordarsene, ancora una volta, mentre si discute di riforma delle autonomie differenziate, di maggiore e migliore integrazione europea e dunque di necessità di fare tutto il possibile per cercare di affrontare quel divario tra Nord e Sud che nel corso del tempo è drammaticamente cresciuto (lo continuano a documentare le ricerche Svimez) e che proprio un buon impiego delle risorse del PNRR potrebbe contribuire a ridurre.

Ancora un paio di dati, per buon promemoria. Nel 1951 il Pil pro capite nel Mezzogiorno era pari al 70% di quello del Nord. All’inizio degli anni Novanta, era sceso al 60%. Nel 2020, al 55%: la metà. E, proprio guardando ai giovani, serve ricordare che il 62% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è occupato. Ma, spostandosi dalla media nazionale alle medie locali, si vede che lo è il 74% nel Nord Ovest, il 76% nel Nord Est e solo il 45,7% nel Mezzogiorno. La media nazionale, insomma, comunque al di sotto di quella europea, nasconde forti divari regionali. Le ragioni della fuga delle nuove generazioni meridionali verso Nord e verso gli altri paesi europei hanno qui una clamorosa illustrazione.

Il Sud diseguale, com’è ovvio, non avvantaggia affatto lo sviluppo del Paese, la sua integrazione europea. Non serve, non favorisce certo le regioni del Nord, anche perché frena e distorce la  produttività e la competitività di tutto il sistema Italia. Aggrava gli squilibri e i disagi sociali. Ostacola profondamente le scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Come sa bene anche Confindustria, che del superamento del divario ha fatto un punto qualificante delle sue strategie politiche e della cultura d’impresa.

Servono dunque scelte politiche di fondo. Per la crescita del Sud. Tra infrastrutture materiali e immateriali, investimenti produttivi, ambiziosi piani di formazione all’altezza delle sfide poste dalla twin transition digitale e ambientale e delle nuove opportunità della diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Il Mezzogiorno, la sua intelligenza storica, la sua collocazione geografica baricentrica in un Mediterraneo che ha una crescente rilevanza geopolitica sono tutte condizioni che vanno considerate in una strategia europea di ripresa dell’Italia.

Quanto sia utile o meno, in questa strategia, l’autonomia regionale differenziata non ci sono ancora dati chiari per dirlo. Di certo, le politiche industriali, fiscali, di ricerca e formazione e le infrastrutture vanno considerate in un disegno unitario che abbia radici a Bruxelles e sguardo verso il mondo.

Il Mezzogiorno, semmai, proprio per attrarre investimenti e valorizzare le proprie potenzialità (dunque anche il suo capitale umano, da non abbandonare all’ineluttabilità dell’emigrazione di massa, alla “fuga dei cervelli”), ha bisogno di “buon governo”. Non di lamentazioni, rancori, nostalgie neoborboniche, clientele.

Per capire meglio, può aiutarci anche la storia politica meridionale. Rileggendo, per esempio, i discorsi e i programmi di governo di uno dei migliori amministratori che il Sud abbia avuto: Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana alla fine degli anni Settenta. Attento a insistere e a fare scelte perché la Sicilia, con riforme, cura per la legalità e corretta amministrazione, in un dialogo con le forze economiche e sociali migliori d’Italia, fosse terra di insediamenti industriali innovativi, lavoro qualificato, cultura d’avanguardia. Una lezione stroncata dalla violenza mafiosa. Ma ancora attualissima.

(foto Getty Images) 

Gli italiani residenti all’estero, all’inizio del 2023, sono quasi 6 milioni. E 1,8 milioni hanno meno di trent’anni. Per raccontare i dati da un altro punto di vista, si può dire che il 10,7% della popolazione giovanile nazionale vive stabilmente in un altro paese: più di metà di loro ha scelto una città in Europa. L’Italia, già nettamente in crisi demografica, continua insomma a perdere i suoi giovani, che partono in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E, a segnare un record negativo, appunto per i giovani, sono le città del Mezzogiorno: Enna (477,5 ogni mille abitanti, un rapporto pari al quintuplo della media nazionale), Agrigento, Isernia, Potenza e poi, dopo la veneta Belluno, Caltanissetta, Vibo Valentia, Campobasso, Cosenza, Avellino… Fuggono anche i pensionati, sempre dalle città del Sud: Enna, Vibo, Isernia, Campobasso, Agrigento, Avellino, Potenza…

Si parte molto pure da Mantova, Rovigo e Lodi, dalle aree del Nord di minore intensità di sviluppo economico. E da Prato (dove però pesano molto i ritorni verso le famiglie d’origine in Cina di abitanti nati in Italia).

Lo rivelano i dati dell’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), elaborati dal ministero dell’Interno e anticipati da “Il Sole24Ore” (6 febbraio). La tendenza è in aumento: gli iscritti all’Aire, nel 2006 erano 3milioni 106mila, adesso sono 5milioni 933mila, il doppio, cioè, con 122mila nuove iscrizioni nel 2022 (un aumento del 2,2% rispetto al ‘21).

Ci sono altri movimenti demografici che meritano attenzione. Per esempio, quelli che dicono che in dieci anni il Mezzogiorno nel suo complesso ha perso oltre 500mila residenti, con una forte componente di ragazze e ragazzi dai 25 ai 34 anni. Lo documenta il quotidiano “Domani” (5 febbraio), titolando così: “La vera emergenza in Italia è la fuga dei giovani dal Sud”.

Sono dati noti, naturalmente. Testimonianze di tendenze che vanno avanti da tempo. Senza che questa grave ferita sociale abbia risposte politiche adeguate. Vale dunque la pena ricordarsene, ancora una volta, mentre si discute di riforma delle autonomie differenziate, di maggiore e migliore integrazione europea e dunque di necessità di fare tutto il possibile per cercare di affrontare quel divario tra Nord e Sud che nel corso del tempo è drammaticamente cresciuto (lo continuano a documentare le ricerche Svimez) e che proprio un buon impiego delle risorse del PNRR potrebbe contribuire a ridurre.

Ancora un paio di dati, per buon promemoria. Nel 1951 il Pil pro capite nel Mezzogiorno era pari al 70% di quello del Nord. All’inizio degli anni Novanta, era sceso al 60%. Nel 2020, al 55%: la metà. E, proprio guardando ai giovani, serve ricordare che il 62% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è occupato. Ma, spostandosi dalla media nazionale alle medie locali, si vede che lo è il 74% nel Nord Ovest, il 76% nel Nord Est e solo il 45,7% nel Mezzogiorno. La media nazionale, insomma, comunque al di sotto di quella europea, nasconde forti divari regionali. Le ragioni della fuga delle nuove generazioni meridionali verso Nord e verso gli altri paesi europei hanno qui una clamorosa illustrazione.

Il Sud diseguale, com’è ovvio, non avvantaggia affatto lo sviluppo del Paese, la sua integrazione europea. Non serve, non favorisce certo le regioni del Nord, anche perché frena e distorce la  produttività e la competitività di tutto il sistema Italia. Aggrava gli squilibri e i disagi sociali. Ostacola profondamente le scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Come sa bene anche Confindustria, che del superamento del divario ha fatto un punto qualificante delle sue strategie politiche e della cultura d’impresa.

Servono dunque scelte politiche di fondo. Per la crescita del Sud. Tra infrastrutture materiali e immateriali, investimenti produttivi, ambiziosi piani di formazione all’altezza delle sfide poste dalla twin transition digitale e ambientale e delle nuove opportunità della diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Il Mezzogiorno, la sua intelligenza storica, la sua collocazione geografica baricentrica in un Mediterraneo che ha una crescente rilevanza geopolitica sono tutte condizioni che vanno considerate in una strategia europea di ripresa dell’Italia.

Quanto sia utile o meno, in questa strategia, l’autonomia regionale differenziata non ci sono ancora dati chiari per dirlo. Di certo, le politiche industriali, fiscali, di ricerca e formazione e le infrastrutture vanno considerate in un disegno unitario che abbia radici a Bruxelles e sguardo verso il mondo.

Il Mezzogiorno, semmai, proprio per attrarre investimenti e valorizzare le proprie potenzialità (dunque anche il suo capitale umano, da non abbandonare all’ineluttabilità dell’emigrazione di massa, alla “fuga dei cervelli”), ha bisogno di “buon governo”. Non di lamentazioni, rancori, nostalgie neoborboniche, clientele.

Per capire meglio, può aiutarci anche la storia politica meridionale. Rileggendo, per esempio, i discorsi e i programmi di governo di uno dei migliori amministratori che il Sud abbia avuto: Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana alla fine degli anni Settenta. Attento a insistere e a fare scelte perché la Sicilia, con riforme, cura per la legalità e corretta amministrazione, in un dialogo con le forze economiche e sociali migliori d’Italia, fosse terra di insediamenti industriali innovativi, lavoro qualificato, cultura d’avanguardia. Una lezione stroncata dalla violenza mafiosa. Ma ancora attualissima.

(foto Getty Images) 

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