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La lezione della Nobel Goldin sul valore delle donne contro il declino demografico e la scarsa crescita

Nell’Italia che cresce appena dello 0,7% quest’anno e di un altro stentato 0,7% nel ’24 (secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, mentre il governo insiste sull’1,2%) pesano molto, in negativo, sia il cosiddetto “inverno demografico” sia l’insufficiente partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Una questione da affrontare con scelte strategiche, politiche ed economiche, in nome delle buone ragioni dello sviluppo sostenibile. E proprio la recente attribuzione del Premio Nobel per l’economia a Claudia Goldin, docente ad Harvard, per i suoi studi sul mercato del lavoro femminile e sulle conseguenze delle disparità di genere sulle retribuzioni e sulle opportunità di carriera può stimolare sia i nostri decisori politici sia le imprese (protagoniste di primo piano della crescita economica e del benessere diffuso) a dedicare maggiore attenzione a come evitare che le gravi diseguaglianze deprimano le possibilità dell’Italia. Un’Italia sempre più stretta tra alto debito pubblico, crescita asfittica e scarsa mobilità sociale. Tra stagnazione e frustrazione delle speranze delle nuove generazioni.

Ricordiamo alcuni dati essenziali. Nel 2022 sono nati meno di 400mila bambini. Il saldo tra nati e morti continua, da circa 30 anni, a essere negativo. E negativo comincia a rivelarsi anche quello tra emigranti e immigrati (aumenta il numero dei nostri giovani che vanno a cercare all’estero migliori opportunità di lavoro e di vita: dal 2002 a oggi ne abbiamo persi 3 milioni). “Un Paese che si svuota”, scrive il sociologo Stefano Allievi in “Governare le migrazioni. Si deve, si può”, Laterza, insistendo sulla necessità di scelte politiche lungimiranti e non su ideologie respingenti. Intanto, in attesa di quelle scelte che non arrivano, diventiamo sempre più un paese di anziani, scarsamente sensibili al futuro.

Più passa il tempo, insomma, più perdiamo lavoratori, con effetti negativi sul Pil. Pesano, sul declino, anche le gravi carenze del sistema formativo: le imprese, quelle manifatturiere soprattutto, denunciano la difficoltà di trovare risorse adeguate per la metà dei posti di lavoro a disposizione.
Il numero di laureati (200mila all’anno) è percentualmente il più basso della media Ue. E proprio la curva negativa della natalità aggrava drammaticamente il fenomeno: di quei quasi 400mila nati nel ’22, di cui abbiamo appena parlato, i laureati tra vent’anni (ferme restano le tendenze sociali attuali) saranno appena 80mila, cioè 120mila in meno di adesso. Un disastro, in termini economici e sociali, ma anche di tenuta politica del sistema Paese.
Negativo pure l’effetto della carente partecipazione femminile al mercato del lavoro, soprattutto per le mansioni più qualificate. È vero, infatti, che le donne studiano di più e meglio, come confermano i dati Istat secondo cui il 65,3% delle donne ha almeno un diploma, a fronte del 60,1% degli uomini, mentre le laureate arrivano al 23,1%, contro il 16,8% degli uomini. Ma è altrettanto vero che il tasso di occupazione femminile è ancora molto più basso di quello maschile (55,7% contro 75,8%).

Resta un pesante gender gap nella formazione. Ed è sempre evidente il forte divario esistente tra uomini e donne nelle discipline dell’area STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), ma anche in medicina, giurisprudenza ed economia. C’è, in generale, una sostanziale carenza di laureati STEM. E tra loro, solo il 39% è donna.
Quel basso tasso di occupazione femminile significa, in termini essenziali, che utilizziamo male intelligenze, conoscenze, attitudini, risorse preziose. Si sottrae alle ipotesi di sviluppo un capitale umano di straordinarie qualità. Si depriva il Paese di un grande potenziale di intraprendenza, pensiero originale, stimolo all’innovazione.

È proprio Claudia Goldin, con gli studi la cui importanza è confermata dal Nobel, a documentare che le donne sono sì più istruite degli uomini, ma hanno orizzonti professionali più corti, spesso smettono di lavorare dopo la nascita del primo figlio, rallentano gli impegni professionali al crescere delle responsabilità di cura e di assistenza familiare e finiscono così per ritrovarsi marginali sul mercato del lavoro.
Una condizione in cambiamento. Ma troppo lentamente. I tassi di occupazione femminili sono più che triplicati, nell’ultimo secolo. Tuttavia ancora oggi, nel mondo, solo il 50% delle donne lavora, di fronte a una percentuale d’un uomini occupati dell’80%.

Un mercato da modificare, riformare, dunque. Con una diversa organizzazione degli orari e dei calcoli di produttività. Con una legislazione che valorizzi anche le responsabilità maschili rispetto ai carichi familiari. Con una cultura d’impresa più inclusiva. E con strutture adeguate di servizi sociali (per fare un solo esempio, la presenza di asili nido). Ci sono investimenti pubblici in corso, è vero (anche nel Pnrr). Ed evoluzioni sociali e culturali, con una sensibilità crescente rispetto al valore del lavoro delle donne. Ma ancora insufficienti a colmare rapidamente il gender gap e a favorire la piena valorizzazione, più equa ed efficiente, dell’apporto dell’intelligenza e delle capacità femminili allo sviluppo.

(foto Getty Images)

Nell’Italia che cresce appena dello 0,7% quest’anno e di un altro stentato 0,7% nel ’24 (secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, mentre il governo insiste sull’1,2%) pesano molto, in negativo, sia il cosiddetto “inverno demografico” sia l’insufficiente partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Una questione da affrontare con scelte strategiche, politiche ed economiche, in nome delle buone ragioni dello sviluppo sostenibile. E proprio la recente attribuzione del Premio Nobel per l’economia a Claudia Goldin, docente ad Harvard, per i suoi studi sul mercato del lavoro femminile e sulle conseguenze delle disparità di genere sulle retribuzioni e sulle opportunità di carriera può stimolare sia i nostri decisori politici sia le imprese (protagoniste di primo piano della crescita economica e del benessere diffuso) a dedicare maggiore attenzione a come evitare che le gravi diseguaglianze deprimano le possibilità dell’Italia. Un’Italia sempre più stretta tra alto debito pubblico, crescita asfittica e scarsa mobilità sociale. Tra stagnazione e frustrazione delle speranze delle nuove generazioni.

Ricordiamo alcuni dati essenziali. Nel 2022 sono nati meno di 400mila bambini. Il saldo tra nati e morti continua, da circa 30 anni, a essere negativo. E negativo comincia a rivelarsi anche quello tra emigranti e immigrati (aumenta il numero dei nostri giovani che vanno a cercare all’estero migliori opportunità di lavoro e di vita: dal 2002 a oggi ne abbiamo persi 3 milioni). “Un Paese che si svuota”, scrive il sociologo Stefano Allievi in “Governare le migrazioni. Si deve, si può”, Laterza, insistendo sulla necessità di scelte politiche lungimiranti e non su ideologie respingenti. Intanto, in attesa di quelle scelte che non arrivano, diventiamo sempre più un paese di anziani, scarsamente sensibili al futuro.

Più passa il tempo, insomma, più perdiamo lavoratori, con effetti negativi sul Pil. Pesano, sul declino, anche le gravi carenze del sistema formativo: le imprese, quelle manifatturiere soprattutto, denunciano la difficoltà di trovare risorse adeguate per la metà dei posti di lavoro a disposizione.
Il numero di laureati (200mila all’anno) è percentualmente il più basso della media Ue. E proprio la curva negativa della natalità aggrava drammaticamente il fenomeno: di quei quasi 400mila nati nel ’22, di cui abbiamo appena parlato, i laureati tra vent’anni (ferme restano le tendenze sociali attuali) saranno appena 80mila, cioè 120mila in meno di adesso. Un disastro, in termini economici e sociali, ma anche di tenuta politica del sistema Paese.
Negativo pure l’effetto della carente partecipazione femminile al mercato del lavoro, soprattutto per le mansioni più qualificate. È vero, infatti, che le donne studiano di più e meglio, come confermano i dati Istat secondo cui il 65,3% delle donne ha almeno un diploma, a fronte del 60,1% degli uomini, mentre le laureate arrivano al 23,1%, contro il 16,8% degli uomini. Ma è altrettanto vero che il tasso di occupazione femminile è ancora molto più basso di quello maschile (55,7% contro 75,8%).

Resta un pesante gender gap nella formazione. Ed è sempre evidente il forte divario esistente tra uomini e donne nelle discipline dell’area STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), ma anche in medicina, giurisprudenza ed economia. C’è, in generale, una sostanziale carenza di laureati STEM. E tra loro, solo il 39% è donna.
Quel basso tasso di occupazione femminile significa, in termini essenziali, che utilizziamo male intelligenze, conoscenze, attitudini, risorse preziose. Si sottrae alle ipotesi di sviluppo un capitale umano di straordinarie qualità. Si depriva il Paese di un grande potenziale di intraprendenza, pensiero originale, stimolo all’innovazione.

È proprio Claudia Goldin, con gli studi la cui importanza è confermata dal Nobel, a documentare che le donne sono sì più istruite degli uomini, ma hanno orizzonti professionali più corti, spesso smettono di lavorare dopo la nascita del primo figlio, rallentano gli impegni professionali al crescere delle responsabilità di cura e di assistenza familiare e finiscono così per ritrovarsi marginali sul mercato del lavoro.
Una condizione in cambiamento. Ma troppo lentamente. I tassi di occupazione femminili sono più che triplicati, nell’ultimo secolo. Tuttavia ancora oggi, nel mondo, solo il 50% delle donne lavora, di fronte a una percentuale d’un uomini occupati dell’80%.

Un mercato da modificare, riformare, dunque. Con una diversa organizzazione degli orari e dei calcoli di produttività. Con una legislazione che valorizzi anche le responsabilità maschili rispetto ai carichi familiari. Con una cultura d’impresa più inclusiva. E con strutture adeguate di servizi sociali (per fare un solo esempio, la presenza di asili nido). Ci sono investimenti pubblici in corso, è vero (anche nel Pnrr). Ed evoluzioni sociali e culturali, con una sensibilità crescente rispetto al valore del lavoro delle donne. Ma ancora insufficienti a colmare rapidamente il gender gap e a favorire la piena valorizzazione, più equa ed efficiente, dell’apporto dell’intelligenza e delle capacità femminili allo sviluppo.

(foto Getty Images)

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