La lezione sui danni della Brexit per il Regno Unito e le spinte per rafforzare ruolo e politiche della Ue
Meno Europa, maggior potere agli stati nazionali, chiedono i sovranisti. Un’Europa più compatta, affidabile, forte d’un più incisivo ruolo internazionale, pena il degrado anche dei singoli paesi europei, dicono invece tutti coloro che hanno a cuore le sintesi tra sviluppo sostenibile, democrazia liberale e welfare. E le imprese italiane? Le migliori manifatturiere oramai da molti anni considerano l’Europa come un grande mercato unico, ricco di opportunità e hanno chiari i vantaggi dell’export negli altri paesi Ue come leva di competitività anche nei confronti degli altri mercati internazionali. Più Europa ed Europa migliore, dunque, è il loro orizzonte.
Confindustria, naturalmente, continua a insistere sulle prospettive di un’Europa meno burocratica e più efficace per il rafforzamento delle relazioni o economiche e della competitività, soprattutto di fronte alle sfide che vengono dalle politiche di Usa e Cina e dai pericoli anche economici delle attuali, drammatiche crisi geopolitiche (ne abbiamo parlato a lungo nei blog delle ultime settimane). Consolida il sistema di buone relazioni con le altre organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania. E chiede un vero e proprio “cambio di passo” alle istituzioni europee, guardando con attenzione e interesse sia al Rapporto sul mercato unico elaborato da Enrico Letta come presidente del Centro Delors, su incarico della Commissione Ue di Bruxelles, sia al rapporto sulla competitività su cui sta lavorando Mario Draghi.
“Un’Europa non unita va verso il declino e la dipendenza da potenze straniere”, sostiene un grande imprenditore come Marco Tronchetti Provera, CEO di Pirelli (la Repubblica, 22 marzo). E spiega: “L’Europa non è riuscita finora a mettere a fattor comune tutte le sue risorse. Ha il mercato più ricco del mondo e 440 milioni di persone con la migliore protezione sociale a livello globale. Il tutto fondato sui valori di cultura e democrazia che sono alla base della nascita della Ue. Al momento però non c’è un progetto, ma solo qualche debole segnale sul fronte della difesa comune e della politica estera. Chi vince le elezioni europee deve riuscire a dare una regia comune a tutto ciò”. Insomma, “abbiamo bisogno di un grande piano di rilancio”. Da finanziare “agendo sul bilancio europeo” e anche “con strumenti come gli Eurobond”, seguendo “la strada già sperimentata con il NextGenEu”. In sintesi, “è importante garantire la competitività del sistema finanziario. L’Europa ha tanto risparmio privato da convogliare sugli investimenti e non può badare solo all’inflazione. Si deve crescere mettendo in connessione la politica monetaria e quella industriale”.
Sono questi, i temi da discutere in campagna elettorale. Evitando di piegare il voto di giugno per il nuovo Parlamento europeo a interessi di potere nazionali e di spendere troppa demagogia nel discorso pubblico, dimenticando di fare i conti con le sfide, i fatti, i numeri dell’economia.
Può essere utile, proprio per rispondere alle campagne antieuropee, ragionare sugli effetti economici e sociali, oltre che politici, di una scelta radicale contro la Ue: la Brexit.
“Sinora la Brexit ha fatto perdere cinque punti di Pil al Regno Unito”, sostiene uno studio di Goldman Sachs (la Repubblica, 9 febbraio) calcolando una differenza nei confronti dei grandi paesi Ue provocata dalla riduzione della crescita e dall’alta inflazione legata alla rottura tra Londra e la Ue dopo il referendum del 23 giugno 2016. Analogo il giudizio di Bloomberg: meno Pil, maggiori interessi sul debito, maggiore disoccupazione: “Il Regno Unito sembra senza scampo dai danni senza fine della Brexit” (la Repubblica, 21 marzo).
Uno studio dell’Ispi, curato da Davide Tentori (12 gennaio) consente di guardare meglio alcuni dati essenziali. La Brexit è diventata formalmente realtà dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020, anche se in termini pratici alcuni cambiamenti si sono verificati già a partire dal 1° gennaio 2021, al termine del “Transition Period” dei negoziati sui termini della nuova relazione economica tra Regno Unito e Unione Europea.
Dal 2021 al 2023 – calcola l’Ispi – il Pil del paese è cresciuto a un tasso annuo medio del 4,5%, a fronte di una crescita media che in Unione Europea è stata invece del 3,3%. Ma è necessario considerare che nel 2020 (l’anno della pandemia Covid, a cui si è aggiunta l’incertezza legata ai negoziati con l’UE per la definizione del Trade and Cooperation Agreement – TCA) “il Pil si era contratto del -10,3%, ben più del -5,8% registrato in media dai 27 Paesi UE”. Insomma, “l’economia britannica è stata certamente penalizzata da elementi imprevedibili, come gli strascichi della pandemia sulle supply chains internazionali a livello di logistica e trasporti – che hanno causato una carenza di forniture di generi alimentari; ma hanno pesato anche gli errori compiuti durante la breve, quanto disastrosa esperienza del governo di Liz Truss”.
Contingenze a parte, l’Ispi insiste su “una strutturale perdita di competitività del sistema produttivo britannico, frutto di una ventennale carenza di investimenti, sia nel settore pubblico che privato, e una parziale perdita di ruolo di “hub” del Paese una volta fuori dal mercato unico europeo”.
L’esecutivo di Rishi Sunak, subentrato a Liz Truss, è riuscito a raddrizzare la barra del timone, evitando così una recessione nel 2023 (anche favorito da una congiuntura globale che si è rivelata più robusta del previsto) “ma a prezzo di una stretta fiscale e monetaria che certamente non favorirà la crescita economica in prospettiva”.
Guardando al commercio estero, rispetto al periodo pre-Brexit e pre-pandemia, “il Regno Unito è riuscito ad aumentare i propri flussi commerciali già nel 2022, anche se alle spese di una notevole crescita dell’import che si è tradotta in un significativo incremento del deficit commerciale (passato da 224 miliardi di dollari nel 2019 a 288 nel 2022). Il commercio bilaterale con l’UE ha registrato una dinamica simile, calando nel 2020 e 2021 per poi riprendersi superando i livelli pre-Covid nel 2022 ma anche in questo caso con un ampliamento del deficit derivante dalla crescita dell’import. Il prossimo stress-test sarà con l’introduzione dell’ultima tranche di controlli sulle merci agro-alimentari in arrivo dall’UE, a partire dalla primavera 2024”.
Le “mani libere” dai vincoli Ue hanno consentito a Londra di tessere nuove relazioni commerciali soprattutto nell’area dell’Indo-Pacifico. Ma tanto attivismo non ha compensato né la crescente debolezza dell’economia, né la perdita della centralità di Londra come piazza finanziaria (molte funzioni, oltre che molte sedi bancarie, si sono spostate ad Amsterdam) né il peggioramento del tenore di vita.
Le recenti elezioni amministrative, con una pesante sconfitta dei Tory, ne sono un evidente riflesso. Dopo 15 anni di potere dei conservatori, sono in molti a ritenere prossimo un cambio di guardia alle prossime elezioni politiche in autunno, con un possibile successo dei laburisti.
“Un’isola alla deriva o con una strategia chiara?”, si chiede il rapporto dell’Ispi.
Le tensioni geopolitiche, le strategie di Washington e le pressioni della Cina anche in campo economico non giocano a favore del ruolo di singoli paesi, ancorché importanti come il Regno Unito.
Le riflessioni sul futuro dell’Europa, sia per le politiche industriali (con un recupero di competitività) che per quelle sulla sicurezza, l’energia e la difesa chiamano comunque in ballo Londra. E se la Brexit non è un fenomeno modificabile nel breve periodo, una nuova stagione di relazioni più robuste sembra auspicabile. In un mondo così carico di rischi e tensioni, nessuno può “ballare da solo”.
(foto Getty Images)
Meno Europa, maggior potere agli stati nazionali, chiedono i sovranisti. Un’Europa più compatta, affidabile, forte d’un più incisivo ruolo internazionale, pena il degrado anche dei singoli paesi europei, dicono invece tutti coloro che hanno a cuore le sintesi tra sviluppo sostenibile, democrazia liberale e welfare. E le imprese italiane? Le migliori manifatturiere oramai da molti anni considerano l’Europa come un grande mercato unico, ricco di opportunità e hanno chiari i vantaggi dell’export negli altri paesi Ue come leva di competitività anche nei confronti degli altri mercati internazionali. Più Europa ed Europa migliore, dunque, è il loro orizzonte.
Confindustria, naturalmente, continua a insistere sulle prospettive di un’Europa meno burocratica e più efficace per il rafforzamento delle relazioni o economiche e della competitività, soprattutto di fronte alle sfide che vengono dalle politiche di Usa e Cina e dai pericoli anche economici delle attuali, drammatiche crisi geopolitiche (ne abbiamo parlato a lungo nei blog delle ultime settimane). Consolida il sistema di buone relazioni con le altre organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania. E chiede un vero e proprio “cambio di passo” alle istituzioni europee, guardando con attenzione e interesse sia al Rapporto sul mercato unico elaborato da Enrico Letta come presidente del Centro Delors, su incarico della Commissione Ue di Bruxelles, sia al rapporto sulla competitività su cui sta lavorando Mario Draghi.
“Un’Europa non unita va verso il declino e la dipendenza da potenze straniere”, sostiene un grande imprenditore come Marco Tronchetti Provera, CEO di Pirelli (la Repubblica, 22 marzo). E spiega: “L’Europa non è riuscita finora a mettere a fattor comune tutte le sue risorse. Ha il mercato più ricco del mondo e 440 milioni di persone con la migliore protezione sociale a livello globale. Il tutto fondato sui valori di cultura e democrazia che sono alla base della nascita della Ue. Al momento però non c’è un progetto, ma solo qualche debole segnale sul fronte della difesa comune e della politica estera. Chi vince le elezioni europee deve riuscire a dare una regia comune a tutto ciò”. Insomma, “abbiamo bisogno di un grande piano di rilancio”. Da finanziare “agendo sul bilancio europeo” e anche “con strumenti come gli Eurobond”, seguendo “la strada già sperimentata con il NextGenEu”. In sintesi, “è importante garantire la competitività del sistema finanziario. L’Europa ha tanto risparmio privato da convogliare sugli investimenti e non può badare solo all’inflazione. Si deve crescere mettendo in connessione la politica monetaria e quella industriale”.
Sono questi, i temi da discutere in campagna elettorale. Evitando di piegare il voto di giugno per il nuovo Parlamento europeo a interessi di potere nazionali e di spendere troppa demagogia nel discorso pubblico, dimenticando di fare i conti con le sfide, i fatti, i numeri dell’economia.
Può essere utile, proprio per rispondere alle campagne antieuropee, ragionare sugli effetti economici e sociali, oltre che politici, di una scelta radicale contro la Ue: la Brexit.
“Sinora la Brexit ha fatto perdere cinque punti di Pil al Regno Unito”, sostiene uno studio di Goldman Sachs (la Repubblica, 9 febbraio) calcolando una differenza nei confronti dei grandi paesi Ue provocata dalla riduzione della crescita e dall’alta inflazione legata alla rottura tra Londra e la Ue dopo il referendum del 23 giugno 2016. Analogo il giudizio di Bloomberg: meno Pil, maggiori interessi sul debito, maggiore disoccupazione: “Il Regno Unito sembra senza scampo dai danni senza fine della Brexit” (la Repubblica, 21 marzo).
Uno studio dell’Ispi, curato da Davide Tentori (12 gennaio) consente di guardare meglio alcuni dati essenziali. La Brexit è diventata formalmente realtà dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020, anche se in termini pratici alcuni cambiamenti si sono verificati già a partire dal 1° gennaio 2021, al termine del “Transition Period” dei negoziati sui termini della nuova relazione economica tra Regno Unito e Unione Europea.
Dal 2021 al 2023 – calcola l’Ispi – il Pil del paese è cresciuto a un tasso annuo medio del 4,5%, a fronte di una crescita media che in Unione Europea è stata invece del 3,3%. Ma è necessario considerare che nel 2020 (l’anno della pandemia Covid, a cui si è aggiunta l’incertezza legata ai negoziati con l’UE per la definizione del Trade and Cooperation Agreement – TCA) “il Pil si era contratto del -10,3%, ben più del -5,8% registrato in media dai 27 Paesi UE”. Insomma, “l’economia britannica è stata certamente penalizzata da elementi imprevedibili, come gli strascichi della pandemia sulle supply chains internazionali a livello di logistica e trasporti – che hanno causato una carenza di forniture di generi alimentari; ma hanno pesato anche gli errori compiuti durante la breve, quanto disastrosa esperienza del governo di Liz Truss”.
Contingenze a parte, l’Ispi insiste su “una strutturale perdita di competitività del sistema produttivo britannico, frutto di una ventennale carenza di investimenti, sia nel settore pubblico che privato, e una parziale perdita di ruolo di “hub” del Paese una volta fuori dal mercato unico europeo”.
L’esecutivo di Rishi Sunak, subentrato a Liz Truss, è riuscito a raddrizzare la barra del timone, evitando così una recessione nel 2023 (anche favorito da una congiuntura globale che si è rivelata più robusta del previsto) “ma a prezzo di una stretta fiscale e monetaria che certamente non favorirà la crescita economica in prospettiva”.
Guardando al commercio estero, rispetto al periodo pre-Brexit e pre-pandemia, “il Regno Unito è riuscito ad aumentare i propri flussi commerciali già nel 2022, anche se alle spese di una notevole crescita dell’import che si è tradotta in un significativo incremento del deficit commerciale (passato da 224 miliardi di dollari nel 2019 a 288 nel 2022). Il commercio bilaterale con l’UE ha registrato una dinamica simile, calando nel 2020 e 2021 per poi riprendersi superando i livelli pre-Covid nel 2022 ma anche in questo caso con un ampliamento del deficit derivante dalla crescita dell’import. Il prossimo stress-test sarà con l’introduzione dell’ultima tranche di controlli sulle merci agro-alimentari in arrivo dall’UE, a partire dalla primavera 2024”.
Le “mani libere” dai vincoli Ue hanno consentito a Londra di tessere nuove relazioni commerciali soprattutto nell’area dell’Indo-Pacifico. Ma tanto attivismo non ha compensato né la crescente debolezza dell’economia, né la perdita della centralità di Londra come piazza finanziaria (molte funzioni, oltre che molte sedi bancarie, si sono spostate ad Amsterdam) né il peggioramento del tenore di vita.
Le recenti elezioni amministrative, con una pesante sconfitta dei Tory, ne sono un evidente riflesso. Dopo 15 anni di potere dei conservatori, sono in molti a ritenere prossimo un cambio di guardia alle prossime elezioni politiche in autunno, con un possibile successo dei laburisti.
“Un’isola alla deriva o con una strategia chiara?”, si chiede il rapporto dell’Ispi.
Le tensioni geopolitiche, le strategie di Washington e le pressioni della Cina anche in campo economico non giocano a favore del ruolo di singoli paesi, ancorché importanti come il Regno Unito.
Le riflessioni sul futuro dell’Europa, sia per le politiche industriali (con un recupero di competitività) che per quelle sulla sicurezza, l’energia e la difesa chiamano comunque in ballo Londra. E se la Brexit non è un fenomeno modificabile nel breve periodo, una nuova stagione di relazioni più robuste sembra auspicabile. In un mondo così carico di rischi e tensioni, nessuno può “ballare da solo”.
(foto Getty Images)