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La musica e il lavoro: i concerti Pirelli-Mito e i dialoghi tra fabbrica e cultura

Costruire comportamenti armonici, mettere insieme persone, accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità originali espressioni e dissonanze. Fare musica. E organizzare lavoro. Realizzare simmetrie. Fabbricare bellezza. Un prodotto delle mani o della mente. E’ ardito, trovare relazioni tra fabbrica e musica, tra suono e lavoro? Può darsi. Ma non impossibile. Inusuale, piuttosto. Ma non è ardita, comunque, e tutta e sempre da costruire, la creatività che lega persone e fonda comunità?

   É un tema caro, questo, per Pirelli. Nella storia delle sue relazioni tra la manifattura e la cultura, tra la tecnologia e il racconto degli artisti, con tutti gli strumenti che sono capaci d’usare. Gli illustratori pubblicitari d’un tempo. I pittori. Gli scrittori. I poeti. Gli architetti. Gli artisti. I fotografi. Civiltà delle parole e delle macchine. Con un rinvio a valori essenziali. La qualità del lavoro e dei rapporti tra persone. Il piacere d’una comunità operosa e sensibile alla ricerca, ai cambiamenti.

  Parliamo di musica, stavolta. E raccontiamo perché ancora una volta Pirelli è partner di MiTo. E perché tornano i concerti nei luoghi del lavoro, in fabbrica, al Polo Industriale di Settimo Torinese nel 2010, 2011 e 2014 e adesso nell’auditorium dell’Headquarter di Pirelli a Milano, recuperando il senso di una solida tradizione e, naturalmente, rinnovandola.

   Vedremo come nei precedenti concerti erano stati centrali il lavoro e il suo “suono”, l’evocazione delle atmosfere sonore del Novecento (il “secolo delle fabbriche”), l’attenzione  dell’esecuzione, la ricerca del massimo della qualità. Con una sintesi: produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una sfida sempre aperta.

 Si riconferma, oggi, per Pirelli, un altro dei suoi impegni: ridare alla musica il ruolo di protagonista della grande cultura popolare, con la consapevolezza che le persone non hanno mai smesso di amare la musica classica e, semmai, anche tra le nuove generazioni, chiedono relazioni più aperte, intense, cariche di intelligenza e di emozioni. MiTo ha da sempre un ruolo chiave. E la scelta, per questo concerto, di Beethoven e dei suoi “figli”, a cominciare da Schumann, ne è conferma: una musica che va oltre le tradizioni barocche del “trio” di violino, violoncello e pianoforte e sa dare forma all’irrompere dell’allora modernità romantica, nell’innovazione del “contrappunto” e nella definizione di accordi che raccontano i cambiamenti del mondo, preannunciandone le evoluzioni. Straordinaria creatività. E rigorosissima esecuzione. Memoria e futuro, appunto. Metamorfosi. Ancora una volta impresa è cultura, nel segno della contemporaneità.
Da dove parte la nostra riflessione? Dai saperi che s’incrociano. Quelli della manifattura e delle macchine. Quelli analitici della filosofia che cerca di trovare originali chiavi interpretative per navigare nelle complessità di società e mercati in cambiamento. E quelli del loro racconto. Sono i saperi dei laboratori di ricerca e sviluppo, in cui si sperimentano le basi di nuovi prodotti e nuovi sistemi di produzione, di distribuzione, di consumo. E quelli della creatività artistica.
Nota il sociologo Aldo Bonomi, teorico del “capitalismo molecolare” e della “città infinita” densa di reti intelligenti di manifatture e servizi diffuse sul territorio, de “Il capitalismo in-finito”[1] nel passaggio dal post-fordismo alla dispersione e alla “palude del lavoro liquido”: per riprendersi, “il ‘made in Italy’ dovrà farsi ‘remade in Italy’ e inaugurare una quarta stagione, dopo quelle delle bottega, del capannone e dei distretti: per le filiere produttive dovrà aprirsi un tempo in cui il territorio sia fonte di valore nella sua dimensione di bene comune da rigenerare. Non più solo deposito di saperi, tradizioni, risorse da prelevare dentro un modello di crescita puramente quantitativa fondata sul consumo di territorio e sul dumping sociale. Ma qualcosa che pone il problema del carattere sociale e cooperativo dell’attività di investimento nell’economia della conoscenza. Dove, per ricostruire le basi del valore, la manifattura ha bisogno di impollinare la cultura della fabbrica con saperi scientifici e sociali di cui sono portatori i creativi, i professionisti, i giovani ‘indigeni digitali’. I quali, a  loro volta, se vogliono tradurre gli investimenti formativi in redditi e lavori corrispondenti non possono continuare a coltivare l’utopia di un capitalismo virtuale e deindustrializzato”. Sintesi di competenze diverse interne al sistema produttivo. E dialoghi tra l’interno dell’industria e l’esterno.

Lo si può dire anche in un altro modo, ricorrendo all’acronimo di “Milano Steam”, una formula, cara ad Assolombarda, che cerca così di rappresentare la sintesi della metropoli produttiva e di quella creativa , giocando con le iniziali di science, technology, engineering ma anche environment, (l’ambiente sostenibile), arts e cioè il complesso dei saperi umanistici, un nostro primato italiano e manifacturing ovvero “la fabbrica bella” della manifattura hi tech in cui creatività, ricerca, produzione, servizi definiscono la loro competitività nella caratteristica eccezionale del “fare cose belle che piacciono al mondo”. Milano paradigma italiano in cui capitale sociale, capitale economico, capitale scientifico e capitale estetico giocano in sinergia la partita dello sviluppo. C’è una parola, che può fare bene da sintesi? Potrebbe essere “armonia”. Una parola musicale.

  Rieccoci anche da questo punto di vista ai dialoghi tra l’interno dell’industria e l’esterno, secondo l’esperienza Pirelli. Un altro esempio? I luoghi di lavoro innervati da dibattiti su temi della filosofia e della scienza, com’era accaduto in Pirelli, nel giugno 2013, ospitando nell’Auditorium dell’Headquarter del gruppo, in Bicocca, una sezione della “Milanesiana”, diretta da Elisabetta Sgarbi, dedicata a “La filosofia, il cinema, il segreto” (con  la partecipazione, tra i tanti, di Massimo Cacciari, Remo Bodei, Umberto Veronesi, Marco Bellocchio, Tzevan Todorov  ed Emanuele Severino). O i frequenti scambi di esperienze tra artisti impegnati nella costruzione di grandi istallazioni all’HangarBicocca e gli ingegneri e i tecnologi dei Laboratori Pirelli. I dialoghi fattivi tra scrittori e artisti per illustrare e arricchire i bilanci Pirelli. O la musica in fabbrica (ne daremo conto più approfonditamente tra poco), nello stabilimento Pirelli di Settimo Torinese, con la struttura dei servizi e dei laboratori di ricerca progettati da Renzo Piano, secondo criteri da “fabbrica bella”, immersa nel verde (la “fabbrica nel giardino dei ciliegi”, con fascinosa evocazione letteraria), trasparente, sicura, piacevole da vivere, ecologicamente all’avanguardia. O l’industria stessa che diventa scenario e materia per racconti di lavoro che danno forma a libri e opere teatrali (in collaborazione con editori come Mondadori e Laterza o con il Piccolo Teatro di Milano, per una rappresentazione, “Settimo – La fabbrica e il lavoro”, con la regia di Serena Sinigaglia, che ha registrato quasi sempre, per tre settimane, il “tutto esaurito” nella programmazione del Piccolo, durante la stagione 2012). O, ancora, le mostre e i lavori di Fondazoine Pirelli Educational con migliaia di bambini delle scuole di Milano, per rinsaldare e rinnovare le relazioni tra l’industria e lo studio, il lavoro e la formazione. E’ tutto un mescolarsi di sguardi e competenze, di domande di culture diverse e di risposte ricche di “fertilizzazioni incrociate”.

  E’ un lavorìo intenso. In vista di una migliore qualità della metropoli come luogo di competenze innovative e produzioni di alta gamma, nel contesto dell’”economia della conoscenza” e, appunto, dell’industria come cardine di sviluppo di qualità. Un altro modo per fare vivere la cultura d’impresa e l’azienda come luogo di cultura, aperto alla cultura, produttore di cultura. Un vero e proprio “Rinascimento manifatturiero”, per usare la brillante sintesi d’un recente seminario dell’Aspen Institute Italia, che s’è tenuto proprio nella Villa degli Arcimboldi in Bicocca e che ha poi prodotto una pubblicazione di successo, utile per un lunga serie di approfondimenti sulla buona cultura d’impresa.

  Serve appunto una nuova cultura, per gestire un’azienda. Che ha parentele – rieccoci-  con il fare manifattura e costruire musica. Accordare e concordare. Imparare a ricondurre a unità consonanze e, naturalmente, dissonanze. Originali armonie. Disarmonie che si ricompongono.

  E’ un’ipotesi culturale affascinante. Come ha spiegato un libro utilissimo agli uomini e alle donne che si occupano di imprese: “Disordine armonico”, di Frank J. Barrett[2] (con una bella e sapiente prefazione di Severino Salvemini). Il titolo inglese è ancora più esplicito: “Yes to the Mess: surprising leadeship lessons from jazz”. Perché Barrett gioca contemporaneamente con due identità: insegna Management ad Harvard e suona jazz al piano. E le sue riflessioni si muovono disinvoltamente sui tanti livelli che la migliore cultura d’impresa sa interpretare. L’organizzazione e l’improvvisazione. Il gioco di squadra e il virtuosismo creativo del solista. La ripetizione di un ritmo noto. E la fuga da quel ritmo per esplorare nuovi universi sonori. Ricerca e innovazione, insomma. Fondate su una robusta competenza di tecniche strumentali.

  Sono temi caratteristici d’una costante elaborazione di idee in direzione delle relazioni più fantasiose tra fare industria e fare cultura. E d’una ricerca di senso nelle tante pieghe di una “metamorfosi industriale” che sollecita continuamente nuovi strumenti per capire come cambiare paradigmi di produzione, di prodotto, di consumo. Il cambiamento dei tempi, per rispondere alla Grande Crisi, sollecita anche riflessioni spregiudicate sulle forme delle organizzazioni e sulle relazioni tra i loro protagonisti. La musica, e il jazz di cui parliamo, possono essere di grande aiuto. Perché? Spiega Salvemini: “I nuovi modelli di gestione d’impresa hanno bisogno di fondarsi sull’esempio di contesti diversi, meno rigidi, di quelli del management tradizionale”. E proprio la lezione storica di Miles Davis , Louis Armstrong, Charlie Parker e, più recentemente, del grande Keith Jarrett dicono che il lavoro del solista di genio va accompagnato da solide sezioni ritmiche, dall’impegno di un’orchestra o comunque di un gruppo (un terzetto, un quartetto…) che  anticipano, provocano, , seguono la tromba o il piano del solista: “Sostegno al leader – insiste Salvemini – come dovrebbe succedere in un’azienda in cui regna coesione e affiatamento”.

  Le culture, per essere feconde, hanno infatti bisogno di confronti. Meglio ancora: di ibridazioni. Tra linguaggi, tecniche, comportamenti, stili di lavoro. Tra le parole del fare e quelle del raccontare. Tra le macchine, le persone, le produzioni, i prodotti. La musica, da tutti i punti di vista, ne può essere chiave di interpretazione e, perché no?, narrazione.

  La riprova? Nell’esperienza di un complesso d’archi, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, straordinario violinista di rilievo internazionale, che un paio di volte all’anno, per parecchio tempo, ha fatto le prove dei suoi concerti, prima d’andare in tournée, nell’Auditorium dell’Headquarter Pirelli a Milano. Sono state prove aperte a tutti i dipendenti, che approfittavano d’una pausa della giornata di lavoro per sedersi ad ascoltare e capire dal vivo cosa vuol dire “fare un concerto”, “costruire un’esecuzione”. Se ne sono ricavate interessanti riflessioni. Sul lavoro. E il suo “suono”. Sulla musica. E sull’impegno nella sua esecuzione, in cerca del massimo della qualità (processo comune, per un violinista o per un ingegnere, tanto che proprio Accardo ne è stato “testimonial”, durante la “Quality Week” di Pirelli, davanti a una platea di tecnici e di persone della produzione). Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una buona impresa, no?

   C’è un’altra strada, in questo lavorio continuo, da percorrere. Rinnovare lo spessore attuale della musica classica. E legare i concerti, le sinfonie, le sonate ai luoghi di lavoro: cultura “alta” e contemporaneamente popolare, dimensione straordinaria di una sintonia molto originale, in cui proprio la cultura italiana, durante tutto il corso del Novecento, ha fornito all’Europa innovative elaborazioni, originali sintesi.

   Eccolo, dunque, il senso della oramai lunga relazione d’una grande impresa italiana e internazionale, come la Pirelli con l’Orchestra Verdi, una delle migliori compagini milanesi di respiro internazionale. Con la Scala, in una lunga stagione della sua vita. E, appunto, con un festival prestigioso come MiTo Settembre Musica (quasi un mese di concerti tra Milano e Torino, per i quali c’è stato spesso e c’è ancora un dialogo molto attivo con la Fondazione Pirelli).

   Si ribadisce, qui, il valore dell’esperienza dei concerti in fabbrica, al Polo Industriale di Settimo Torinese (il più recente, lunedì 19 settembre 2014), con i calorosi applausi di mille persone per l’Orchestra Filarmonica di Torino diretta da Micha Hamel , impegnata nell’esecuzione di due sinfonie di Beethoven, la Prima e la Settima. “La Settima a Settimo”, per dirla con una battuta di brillante comunicazione. Beethoven accanto ai robot e ai laboratori di ricerca del più moderno stabilimento industriale della Pirelli.C’è, d’altronde, una tradizione europea, che lega la musica ai luoghi del lavoro. Nella Vienna all’inizio del  Novecento, con i concerti per lavoratori[3]: opere classiche per un pubblico nuovo e diverso dalla tradizionale utenza borghese e composizioni all’epoca contemporanee (per fare solo un esempio: le sinfonie di Mahler dirette dal giovane Webern). E nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, con l’impegno di musicisti come Luigi Nono, Claudio Abbado e Maurizio Pollini, sensibilità ed esperienze differenti per “illuminare la fabbrica”.

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    Esiste un nesso profondo, d’altronde, tra operare con consapevolezza in un’impresa e fare musica. Sono centrali il lavoro e il suo “suono”, la fatica dell’esecuzione, la ricerca del massimo della qualità, con la consapevolezza che la fabbrica è fatta da persone all’opera, dai gesti delle mani, svelte e capaci e dai  movimenti delle macchine. La fabbrica è un ritmo. Voci e rumori. Che diventano un suono. La fabbrica ha una sua musica. E la musica può entrare in fabbrica. L’industria ha una sua cultura. E la cultura può, anzi deve ritrovarsi negli spazi dell’industria. La sintesi? Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie.

   Si torna così al binomio tradizione e innovazione. La scelta di Beethoven (per il concerto del settembre 2014), ne è stata la conferma: la sua musica ha robuste radici nei canoni del miglior Settecento, interpreta una vivace attualità romantica e rappresenta la monumentalità del “classico” ma preannuncia anche le composizioni di parecchi decenni dopo di lui. Straordinaria creatività. E rigorosissima strumentazione.

   Anche il luogo scelto ha grande rilevanza. Dopo la Grande Crisi, l’industria è tornata al centro dell’economia. Lo stabilimento di Settimo testimonia come sia cambiata e cresciuta la fabbrica, con le tecnologie più sofisticate. Metamorfosi. Impresa è cultura, nel segno della contemporaneità: ”Realizzare un concerto in fabbrica – ha confermato il maestro Micha Hamel, direttore d’orchestra della “Settima a Settimo” – dà un senso di unicità e al tempo stesso l’idea che sta avvenendo qualcosa di nuovo. La musica entra in un luogo inusuale. Si va fuori dagli schemi. Artisticamente, è un concetto molto importante”.

   E’ stata appunto questa la consapevolezza che ha ispirato tutta l’esperienza della musica in fabbrica. Fin dal primo concerto, il 13 settembre 2010, nel vecchio stabilimento Pirelli, alla vigilia della sua chiusura (per dare vita al Nuovo Polo). Sul palco, I Fiati di Torino, musicisti dell’Orchestra Sinfonica della Rai torinese. Sullo sfondo, i pneumatici prodotti nello stabilimento. In platea, il cortile dell’azienda, oltre quattrocento persone. Per ascoltare le musiche di Mozart, Bach e Beethoven, Berio e Gabrieli, Saglietti e Stravinskij: dal Settecento alla contemporaneità. Una doppia valenza, del suono e dei luoghi. E’ stato un concerto per ottoni, gli strumenti che ricordano la materia metallica, parente simbolica di quella con cui sono fatte le macchine. Ed è stato un gioco di armonie, per suggerire quel che il lavoro può e deve tendere a essere, anche quando quell’armonia è difficile.

   Adesso che le tecnologie innovative rendono più vario, ricco e complesso il lavoro, la musica può trovare un nuovo spazio, una più intensa attualità. Riascoltando il “classico”. E ambientando con inedite suggestioni la contemporaneità. L’innovazione è anche un linguaggio.

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   Per il secondo concerto, il 9 settembre 2011, l’orchestra è stata quella dei Pomeriggi Musicali di Milano, diretta da Luca Pfaff. Il luogo, il grande magazzino del nuovo stabilimento del Polo. In lontananza, rumore di macchine al lavoro, appena un’eco leggera. E’ fabbrica, no? In programma, davanti a settecento persone, brani di Stravinskij, Milhaud, Honegger e De Falla. E’ la musica del Novecento. Il secolo dei grandi cambiamenti. E dell’industria, una complessità che occupa la scena dell’innovazione, suscita profondi rivolgimenti, coinvolge milioni di uomini e donne: un universo d’inedite responsabilità, contrastanti protagonismi con rivendicazioni e modifiche di diritti e doveri. Novecento è parole, immagini, movimento. Rumori mai prima ascoltati. E suoni. Si scompongono e ricompongono letteratura, arte figurativa, musica. Tramontano le forme classiche. La nuova forma è la ricerca. Che ancora continua, nei nostri tempi incerti.

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Riflettere sul Novecento, con la sua musica in fabbrica, vuol dire dunque non solo interrogarci criticamente sulle nostre radici recenti, ma anche provare a costruire una nuova epistemologia della post-modernità e cercare di tracciare linee futuribili d’un migliore destino. Per un’umanità in movimento. L’ascolto musicale può aiutare a comprendere il senso profondo delle mutazioni, sia del lavoro, sia delle relazioni connesse. La cultura d’impresa costruisce la sua colonna sonora. Sino alle suggestioni di Beethoven, nel concerto di Settimo. Sinfonia classica. E contemporaneità.

   Già, la contemporaneità. Anche stavolta, secondo il tema scelto da MiTo per il 2016, “Padri e figli”. Beethoven e Schumann, nel concerto in Auditorium. Un tema che si rilegge e rinnova, un testimone che passa, dal “classico” alla sperimentazione che prefigura le scomposizioni del Novecento. Memoria e futuro. E metamorfosi. Vale per la creazione. Per il racconto. Per il lavoro. Di metamorfosi, d’altronde, è sempre fatta la nostra faticosa, controversa, dolorosa modernità. Eppur felice, negli sprazzi, guardando il futuro.

[1] Aldo Bonomi, “Il capitalismo in-finito”, Einaudi, 2013

[2] Frank J. Barrett, “Disordine armonico”, Egea, 2013

[3] Piero Violante, “Eredità della musica – David J. Bach e i concerti per lavoratori viennesi 1905-1934”, Sellerio, 2007

Costruire comportamenti armonici, mettere insieme persone, accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità originali espressioni e dissonanze. Fare musica. E organizzare lavoro. Realizzare simmetrie. Fabbricare bellezza. Un prodotto delle mani o della mente. E’ ardito, trovare relazioni tra fabbrica e musica, tra suono e lavoro? Può darsi. Ma non impossibile. Inusuale, piuttosto. Ma non è ardita, comunque, e tutta e sempre da costruire, la creatività che lega persone e fonda comunità?

   É un tema caro, questo, per Pirelli. Nella storia delle sue relazioni tra la manifattura e la cultura, tra la tecnologia e il racconto degli artisti, con tutti gli strumenti che sono capaci d’usare. Gli illustratori pubblicitari d’un tempo. I pittori. Gli scrittori. I poeti. Gli architetti. Gli artisti. I fotografi. Civiltà delle parole e delle macchine. Con un rinvio a valori essenziali. La qualità del lavoro e dei rapporti tra persone. Il piacere d’una comunità operosa e sensibile alla ricerca, ai cambiamenti.

  Parliamo di musica, stavolta. E raccontiamo perché ancora una volta Pirelli è partner di MiTo. E perché tornano i concerti nei luoghi del lavoro, in fabbrica, al Polo Industriale di Settimo Torinese nel 2010, 2011 e 2014 e adesso nell’auditorium dell’Headquarter di Pirelli a Milano, recuperando il senso di una solida tradizione e, naturalmente, rinnovandola.

   Vedremo come nei precedenti concerti erano stati centrali il lavoro e il suo “suono”, l’evocazione delle atmosfere sonore del Novecento (il “secolo delle fabbriche”), l’attenzione  dell’esecuzione, la ricerca del massimo della qualità. Con una sintesi: produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una sfida sempre aperta.

 Si riconferma, oggi, per Pirelli, un altro dei suoi impegni: ridare alla musica il ruolo di protagonista della grande cultura popolare, con la consapevolezza che le persone non hanno mai smesso di amare la musica classica e, semmai, anche tra le nuove generazioni, chiedono relazioni più aperte, intense, cariche di intelligenza e di emozioni. MiTo ha da sempre un ruolo chiave. E la scelta, per questo concerto, di Beethoven e dei suoi “figli”, a cominciare da Schumann, ne è conferma: una musica che va oltre le tradizioni barocche del “trio” di violino, violoncello e pianoforte e sa dare forma all’irrompere dell’allora modernità romantica, nell’innovazione del “contrappunto” e nella definizione di accordi che raccontano i cambiamenti del mondo, preannunciandone le evoluzioni. Straordinaria creatività. E rigorosissima esecuzione. Memoria e futuro, appunto. Metamorfosi. Ancora una volta impresa è cultura, nel segno della contemporaneità.
Da dove parte la nostra riflessione? Dai saperi che s’incrociano. Quelli della manifattura e delle macchine. Quelli analitici della filosofia che cerca di trovare originali chiavi interpretative per navigare nelle complessità di società e mercati in cambiamento. E quelli del loro racconto. Sono i saperi dei laboratori di ricerca e sviluppo, in cui si sperimentano le basi di nuovi prodotti e nuovi sistemi di produzione, di distribuzione, di consumo. E quelli della creatività artistica.
Nota il sociologo Aldo Bonomi, teorico del “capitalismo molecolare” e della “città infinita” densa di reti intelligenti di manifatture e servizi diffuse sul territorio, de “Il capitalismo in-finito”[1] nel passaggio dal post-fordismo alla dispersione e alla “palude del lavoro liquido”: per riprendersi, “il ‘made in Italy’ dovrà farsi ‘remade in Italy’ e inaugurare una quarta stagione, dopo quelle delle bottega, del capannone e dei distretti: per le filiere produttive dovrà aprirsi un tempo in cui il territorio sia fonte di valore nella sua dimensione di bene comune da rigenerare. Non più solo deposito di saperi, tradizioni, risorse da prelevare dentro un modello di crescita puramente quantitativa fondata sul consumo di territorio e sul dumping sociale. Ma qualcosa che pone il problema del carattere sociale e cooperativo dell’attività di investimento nell’economia della conoscenza. Dove, per ricostruire le basi del valore, la manifattura ha bisogno di impollinare la cultura della fabbrica con saperi scientifici e sociali di cui sono portatori i creativi, i professionisti, i giovani ‘indigeni digitali’. I quali, a  loro volta, se vogliono tradurre gli investimenti formativi in redditi e lavori corrispondenti non possono continuare a coltivare l’utopia di un capitalismo virtuale e deindustrializzato”. Sintesi di competenze diverse interne al sistema produttivo. E dialoghi tra l’interno dell’industria e l’esterno.

Lo si può dire anche in un altro modo, ricorrendo all’acronimo di “Milano Steam”, una formula, cara ad Assolombarda, che cerca così di rappresentare la sintesi della metropoli produttiva e di quella creativa , giocando con le iniziali di science, technology, engineering ma anche environment, (l’ambiente sostenibile), arts e cioè il complesso dei saperi umanistici, un nostro primato italiano e manifacturing ovvero “la fabbrica bella” della manifattura hi tech in cui creatività, ricerca, produzione, servizi definiscono la loro competitività nella caratteristica eccezionale del “fare cose belle che piacciono al mondo”. Milano paradigma italiano in cui capitale sociale, capitale economico, capitale scientifico e capitale estetico giocano in sinergia la partita dello sviluppo. C’è una parola, che può fare bene da sintesi? Potrebbe essere “armonia”. Una parola musicale.

  Rieccoci anche da questo punto di vista ai dialoghi tra l’interno dell’industria e l’esterno, secondo l’esperienza Pirelli. Un altro esempio? I luoghi di lavoro innervati da dibattiti su temi della filosofia e della scienza, com’era accaduto in Pirelli, nel giugno 2013, ospitando nell’Auditorium dell’Headquarter del gruppo, in Bicocca, una sezione della “Milanesiana”, diretta da Elisabetta Sgarbi, dedicata a “La filosofia, il cinema, il segreto” (con  la partecipazione, tra i tanti, di Massimo Cacciari, Remo Bodei, Umberto Veronesi, Marco Bellocchio, Tzevan Todorov  ed Emanuele Severino). O i frequenti scambi di esperienze tra artisti impegnati nella costruzione di grandi istallazioni all’HangarBicocca e gli ingegneri e i tecnologi dei Laboratori Pirelli. I dialoghi fattivi tra scrittori e artisti per illustrare e arricchire i bilanci Pirelli. O la musica in fabbrica (ne daremo conto più approfonditamente tra poco), nello stabilimento Pirelli di Settimo Torinese, con la struttura dei servizi e dei laboratori di ricerca progettati da Renzo Piano, secondo criteri da “fabbrica bella”, immersa nel verde (la “fabbrica nel giardino dei ciliegi”, con fascinosa evocazione letteraria), trasparente, sicura, piacevole da vivere, ecologicamente all’avanguardia. O l’industria stessa che diventa scenario e materia per racconti di lavoro che danno forma a libri e opere teatrali (in collaborazione con editori come Mondadori e Laterza o con il Piccolo Teatro di Milano, per una rappresentazione, “Settimo – La fabbrica e il lavoro”, con la regia di Serena Sinigaglia, che ha registrato quasi sempre, per tre settimane, il “tutto esaurito” nella programmazione del Piccolo, durante la stagione 2012). O, ancora, le mostre e i lavori di Fondazoine Pirelli Educational con migliaia di bambini delle scuole di Milano, per rinsaldare e rinnovare le relazioni tra l’industria e lo studio, il lavoro e la formazione. E’ tutto un mescolarsi di sguardi e competenze, di domande di culture diverse e di risposte ricche di “fertilizzazioni incrociate”.

  E’ un lavorìo intenso. In vista di una migliore qualità della metropoli come luogo di competenze innovative e produzioni di alta gamma, nel contesto dell’”economia della conoscenza” e, appunto, dell’industria come cardine di sviluppo di qualità. Un altro modo per fare vivere la cultura d’impresa e l’azienda come luogo di cultura, aperto alla cultura, produttore di cultura. Un vero e proprio “Rinascimento manifatturiero”, per usare la brillante sintesi d’un recente seminario dell’Aspen Institute Italia, che s’è tenuto proprio nella Villa degli Arcimboldi in Bicocca e che ha poi prodotto una pubblicazione di successo, utile per un lunga serie di approfondimenti sulla buona cultura d’impresa.

  Serve appunto una nuova cultura, per gestire un’azienda. Che ha parentele – rieccoci-  con il fare manifattura e costruire musica. Accordare e concordare. Imparare a ricondurre a unità consonanze e, naturalmente, dissonanze. Originali armonie. Disarmonie che si ricompongono.

  E’ un’ipotesi culturale affascinante. Come ha spiegato un libro utilissimo agli uomini e alle donne che si occupano di imprese: “Disordine armonico”, di Frank J. Barrett[2] (con una bella e sapiente prefazione di Severino Salvemini). Il titolo inglese è ancora più esplicito: “Yes to the Mess: surprising leadeship lessons from jazz”. Perché Barrett gioca contemporaneamente con due identità: insegna Management ad Harvard e suona jazz al piano. E le sue riflessioni si muovono disinvoltamente sui tanti livelli che la migliore cultura d’impresa sa interpretare. L’organizzazione e l’improvvisazione. Il gioco di squadra e il virtuosismo creativo del solista. La ripetizione di un ritmo noto. E la fuga da quel ritmo per esplorare nuovi universi sonori. Ricerca e innovazione, insomma. Fondate su una robusta competenza di tecniche strumentali.

  Sono temi caratteristici d’una costante elaborazione di idee in direzione delle relazioni più fantasiose tra fare industria e fare cultura. E d’una ricerca di senso nelle tante pieghe di una “metamorfosi industriale” che sollecita continuamente nuovi strumenti per capire come cambiare paradigmi di produzione, di prodotto, di consumo. Il cambiamento dei tempi, per rispondere alla Grande Crisi, sollecita anche riflessioni spregiudicate sulle forme delle organizzazioni e sulle relazioni tra i loro protagonisti. La musica, e il jazz di cui parliamo, possono essere di grande aiuto. Perché? Spiega Salvemini: “I nuovi modelli di gestione d’impresa hanno bisogno di fondarsi sull’esempio di contesti diversi, meno rigidi, di quelli del management tradizionale”. E proprio la lezione storica di Miles Davis , Louis Armstrong, Charlie Parker e, più recentemente, del grande Keith Jarrett dicono che il lavoro del solista di genio va accompagnato da solide sezioni ritmiche, dall’impegno di un’orchestra o comunque di un gruppo (un terzetto, un quartetto…) che  anticipano, provocano, , seguono la tromba o il piano del solista: “Sostegno al leader – insiste Salvemini – come dovrebbe succedere in un’azienda in cui regna coesione e affiatamento”.

  Le culture, per essere feconde, hanno infatti bisogno di confronti. Meglio ancora: di ibridazioni. Tra linguaggi, tecniche, comportamenti, stili di lavoro. Tra le parole del fare e quelle del raccontare. Tra le macchine, le persone, le produzioni, i prodotti. La musica, da tutti i punti di vista, ne può essere chiave di interpretazione e, perché no?, narrazione.

  La riprova? Nell’esperienza di un complesso d’archi, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, straordinario violinista di rilievo internazionale, che un paio di volte all’anno, per parecchio tempo, ha fatto le prove dei suoi concerti, prima d’andare in tournée, nell’Auditorium dell’Headquarter Pirelli a Milano. Sono state prove aperte a tutti i dipendenti, che approfittavano d’una pausa della giornata di lavoro per sedersi ad ascoltare e capire dal vivo cosa vuol dire “fare un concerto”, “costruire un’esecuzione”. Se ne sono ricavate interessanti riflessioni. Sul lavoro. E il suo “suono”. Sulla musica. E sull’impegno nella sua esecuzione, in cerca del massimo della qualità (processo comune, per un violinista o per un ingegnere, tanto che proprio Accardo ne è stato “testimonial”, durante la “Quality Week” di Pirelli, davanti a una platea di tecnici e di persone della produzione). Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una buona impresa, no?

   C’è un’altra strada, in questo lavorio continuo, da percorrere. Rinnovare lo spessore attuale della musica classica. E legare i concerti, le sinfonie, le sonate ai luoghi di lavoro: cultura “alta” e contemporaneamente popolare, dimensione straordinaria di una sintonia molto originale, in cui proprio la cultura italiana, durante tutto il corso del Novecento, ha fornito all’Europa innovative elaborazioni, originali sintesi.

   Eccolo, dunque, il senso della oramai lunga relazione d’una grande impresa italiana e internazionale, come la Pirelli con l’Orchestra Verdi, una delle migliori compagini milanesi di respiro internazionale. Con la Scala, in una lunga stagione della sua vita. E, appunto, con un festival prestigioso come MiTo Settembre Musica (quasi un mese di concerti tra Milano e Torino, per i quali c’è stato spesso e c’è ancora un dialogo molto attivo con la Fondazione Pirelli).

   Si ribadisce, qui, il valore dell’esperienza dei concerti in fabbrica, al Polo Industriale di Settimo Torinese (il più recente, lunedì 19 settembre 2014), con i calorosi applausi di mille persone per l’Orchestra Filarmonica di Torino diretta da Micha Hamel , impegnata nell’esecuzione di due sinfonie di Beethoven, la Prima e la Settima. “La Settima a Settimo”, per dirla con una battuta di brillante comunicazione. Beethoven accanto ai robot e ai laboratori di ricerca del più moderno stabilimento industriale della Pirelli.C’è, d’altronde, una tradizione europea, che lega la musica ai luoghi del lavoro. Nella Vienna all’inizio del  Novecento, con i concerti per lavoratori[3]: opere classiche per un pubblico nuovo e diverso dalla tradizionale utenza borghese e composizioni all’epoca contemporanee (per fare solo un esempio: le sinfonie di Mahler dirette dal giovane Webern). E nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, con l’impegno di musicisti come Luigi Nono, Claudio Abbado e Maurizio Pollini, sensibilità ed esperienze differenti per “illuminare la fabbrica”.

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    Esiste un nesso profondo, d’altronde, tra operare con consapevolezza in un’impresa e fare musica. Sono centrali il lavoro e il suo “suono”, la fatica dell’esecuzione, la ricerca del massimo della qualità, con la consapevolezza che la fabbrica è fatta da persone all’opera, dai gesti delle mani, svelte e capaci e dai  movimenti delle macchine. La fabbrica è un ritmo. Voci e rumori. Che diventano un suono. La fabbrica ha una sua musica. E la musica può entrare in fabbrica. L’industria ha una sua cultura. E la cultura può, anzi deve ritrovarsi negli spazi dell’industria. La sintesi? Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie.

   Si torna così al binomio tradizione e innovazione. La scelta di Beethoven (per il concerto del settembre 2014), ne è stata la conferma: la sua musica ha robuste radici nei canoni del miglior Settecento, interpreta una vivace attualità romantica e rappresenta la monumentalità del “classico” ma preannuncia anche le composizioni di parecchi decenni dopo di lui. Straordinaria creatività. E rigorosissima strumentazione.

   Anche il luogo scelto ha grande rilevanza. Dopo la Grande Crisi, l’industria è tornata al centro dell’economia. Lo stabilimento di Settimo testimonia come sia cambiata e cresciuta la fabbrica, con le tecnologie più sofisticate. Metamorfosi. Impresa è cultura, nel segno della contemporaneità: ”Realizzare un concerto in fabbrica – ha confermato il maestro Micha Hamel, direttore d’orchestra della “Settima a Settimo” – dà un senso di unicità e al tempo stesso l’idea che sta avvenendo qualcosa di nuovo. La musica entra in un luogo inusuale. Si va fuori dagli schemi. Artisticamente, è un concetto molto importante”.

   E’ stata appunto questa la consapevolezza che ha ispirato tutta l’esperienza della musica in fabbrica. Fin dal primo concerto, il 13 settembre 2010, nel vecchio stabilimento Pirelli, alla vigilia della sua chiusura (per dare vita al Nuovo Polo). Sul palco, I Fiati di Torino, musicisti dell’Orchestra Sinfonica della Rai torinese. Sullo sfondo, i pneumatici prodotti nello stabilimento. In platea, il cortile dell’azienda, oltre quattrocento persone. Per ascoltare le musiche di Mozart, Bach e Beethoven, Berio e Gabrieli, Saglietti e Stravinskij: dal Settecento alla contemporaneità. Una doppia valenza, del suono e dei luoghi. E’ stato un concerto per ottoni, gli strumenti che ricordano la materia metallica, parente simbolica di quella con cui sono fatte le macchine. Ed è stato un gioco di armonie, per suggerire quel che il lavoro può e deve tendere a essere, anche quando quell’armonia è difficile.

   Adesso che le tecnologie innovative rendono più vario, ricco e complesso il lavoro, la musica può trovare un nuovo spazio, una più intensa attualità. Riascoltando il “classico”. E ambientando con inedite suggestioni la contemporaneità. L’innovazione è anche un linguaggio.

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   Per il secondo concerto, il 9 settembre 2011, l’orchestra è stata quella dei Pomeriggi Musicali di Milano, diretta da Luca Pfaff. Il luogo, il grande magazzino del nuovo stabilimento del Polo. In lontananza, rumore di macchine al lavoro, appena un’eco leggera. E’ fabbrica, no? In programma, davanti a settecento persone, brani di Stravinskij, Milhaud, Honegger e De Falla. E’ la musica del Novecento. Il secolo dei grandi cambiamenti. E dell’industria, una complessità che occupa la scena dell’innovazione, suscita profondi rivolgimenti, coinvolge milioni di uomini e donne: un universo d’inedite responsabilità, contrastanti protagonismi con rivendicazioni e modifiche di diritti e doveri. Novecento è parole, immagini, movimento. Rumori mai prima ascoltati. E suoni. Si scompongono e ricompongono letteratura, arte figurativa, musica. Tramontano le forme classiche. La nuova forma è la ricerca. Che ancora continua, nei nostri tempi incerti.

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Riflettere sul Novecento, con la sua musica in fabbrica, vuol dire dunque non solo interrogarci criticamente sulle nostre radici recenti, ma anche provare a costruire una nuova epistemologia della post-modernità e cercare di tracciare linee futuribili d’un migliore destino. Per un’umanità in movimento. L’ascolto musicale può aiutare a comprendere il senso profondo delle mutazioni, sia del lavoro, sia delle relazioni connesse. La cultura d’impresa costruisce la sua colonna sonora. Sino alle suggestioni di Beethoven, nel concerto di Settimo. Sinfonia classica. E contemporaneità.

   Già, la contemporaneità. Anche stavolta, secondo il tema scelto da MiTo per il 2016, “Padri e figli”. Beethoven e Schumann, nel concerto in Auditorium. Un tema che si rilegge e rinnova, un testimone che passa, dal “classico” alla sperimentazione che prefigura le scomposizioni del Novecento. Memoria e futuro. E metamorfosi. Vale per la creazione. Per il racconto. Per il lavoro. Di metamorfosi, d’altronde, è sempre fatta la nostra faticosa, controversa, dolorosa modernità. Eppur felice, negli sprazzi, guardando il futuro.

[1] Aldo Bonomi, “Il capitalismo in-finito”, Einaudi, 2013

[2] Frank J. Barrett, “Disordine armonico”, Egea, 2013

[3] Piero Violante, “Eredità della musica – David J. Bach e i concerti per lavoratori viennesi 1905-1934”, Sellerio, 2007

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