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La “notte chiara” della scienza e l’innovazione delle imprese per fare fronte all’uragano economico in arrivo

“Com’è la notte?”.
“Chiara”.

Sono le ultime battute di “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Lo scienziato ha appena dovuto accettare di sottostare agli ordini dei dottori della Chiesa, abiurando le sue scoperte sulla centralità del Sole e sul movimento della Terra come pianeta, umiliando la forza dell’evidenza scientifica di fronte alle credenze dei teologi. Subisce, per paura, la durezza del potere. Ma non si rassegna. E continua a studiare le stelle e le leggi della fisica, dell’astronomia. Perché c’è pur sempre una forza, nella scienza. Una straordinaria bellezza, nella ricerca, nella scoperta, nella conoscenza. E una verità, da verificare, discutere, mettere comunque alla prova.

Una ripartenza, da far vivere.
Un cielo, da continuare a guardare.
“Com’è la notte?”
“Chiara”.
Nonostante tutto.

“Vita di Galileo” debutta al Piccolo Teatro di Milano il 22 aprile del 1963. La regia è di Giorgio Strelher. E il ruolo del protagonista è affidato a Tino Buazzelli, in una delle interpretazioni più intense ed efficaci che la storia teatrale ricordi. Ancora oggi, è a quell’edizione strelheriana che si fa riferimento, anche durante le iniziative, appunto al Piccolo, per ricordare il centenario della nascita di Strelher. Perché proprio in quei dialoghi, in quelle scene, in quell’intensa drammaturgia lacerante eppur carica di speranze si condensa il senso profondo dell’esperienza umana di fronte alle questioni, scientifiche e morali, che segnano la storia del progresso, dello sviluppo, della costruzione di una civiltà più equilibrata.

E’ chiara, la notte, pure in questi nostri tempi difficili, di crisi sanitarie e fragilità tecnologiche, straordinarie opportunità di sviluppo economico e insopportabili disparità sociali, grandi progressi scientifici e crescenti squilibri ambientali. Di guerra strazianti, come in Ucraina. E di aggressioni ai diritti di milioni di persone ad avere un migliore futuro.

Tempi di incertezze, mentre ci si trova a fare i conti con i rischi di recessione, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei tassi e dunque del costo del denaro dopo anni di quiete, le fratture nel sistema degli scambi internazionali. Ed è sempre più necessario dare retta ai timori di Jamie Dimon, CEO di J.P. Morgan, una delle maggiori banche internazionali, quando mette l’accento su “l’uragano economico che sta arrivando”.

Tempi rischiosi, dunque. In cui potremmo cadere nella tentazione poetica (“Codesto solo questo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo/ ciò che non vogliamo”, Eugenio Montale). Ma anche affidarci alle possibilità offerte dalle conquiste scientifiche, per la salute, la qualità della vita, il miglioramento delle condizioni di lavoro. Camminare nella crisi. Evitando le ombre di un “pensiero magico” che diffida della conoscenza e delle competenze scientifiche. E accogliendo le opportunità offerte dagli studi per affrontare le sfide della gestione della complessità (come documenta la ricerca di Giorgio Parisi, cui è stato assegnato quest’anno il Premio Nobel per la fisica). Proprio quella complessità che Italo Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, individua come costante della condizione umana e come motore stesso delle spinte all’innovazione, secondo percorsi e pensieri non lineari. Sapendo comunque che, nonostante tutto, nonostante ogni intreccio e a dispetto di ogni divergenza e contraddizione, nel nostro viaggio al termine della notte si può intravvedere un’alba. Come appunto Galileo insegna.

Ci sono luoghi particolari, in cui queste complesse e pur contrastate condizioni culturali e sociali si incrociano e si evolvono. Le strutture produttive. Gli stabilimenti industriali. Le fabbriche. Ecco, le fabbriche, parola antica ritornata di recente al centro del discorso pubblico, nell’epoca di un ritrovato “orgoglio industriale” italiano ed europeo.

Erano state, nell’Ottocento, i simboli della modernità, delle nuove dimensioni della produzione e del consumi, delle dirompenti trasformazioni economiche e sociali. Nel lungo e controverso Novecento, sono state protagoniste di primo piano del panorama della politica e dell’economia, nel secolo dell’auto e della mobilità di massa, della chimica e delle telecomunicazioni, dei consumi e delle trasformazioni degli stili di vita, tra conflitti e benessere diffuso. E anche adesso, mentre le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la digital economy e l’Intelligenza Artificiale, spingono verso il primato dei “servizi” e delle attività del cosiddetto “terziario”, le fabbriche anzi, meglio, le neo-fabbriche restano centrali nel panorama economico. Perché proprio lì si condensano le evoluzioni di scienza e tecnologia, lavoro e vita, ricerca e produzione, esigenze economiche e valori sociali, innovazione e tutela dell’ambiente. Competitività e sostenibilità, ambientale e sociale.

Sembravano scomparse, le fabbriche, nel panorama d’inizio del nuovo millennio, confinate in territori pur ampi ma marginali rispetto al cuore del “progresso”. Sono ritornate attuali, con nuovi assetti e nuovi valori.

Fabbriche. E cioè civiltà delle macchine e “umanesimo industriale” chi si declina in “umanesimo digitale”, seguendo le innovazioni scientifiche e tecnologiche. Luoghi speciali in cui si sperimentano e costruiscono originali sintesi produttive e culturali. E in cui cresce la consapevolezza della relazione tra industria e cultura. Del rapporto imprescindibile tra fare fabbrica e fare cultura.

Impresa e cultura, infatti, non fanno riferimento a due universi differenti, ma sono parte dello stesso mondo (se ne è parlato a lungo, la scorsa settimana, a Roma, agli Stati Generali del Patrimonio Industriale, organizzati dall’Aipai, l’associazione accademica di studi storici, e da Museimpresa).

Fare impresa, impresa industriale soprattutto, infatti, vuol dire investire e lavorare sui cambiamenti dei mercati, dei consumi, delle tecnologie produttive. Puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Seguire le trasformazioni tecniche e sociali. E l’innovazione, parola chiave, carica appunto di forti valenze culturali e simboliche, riguarda tutto: le tecnologie, i materiali, i nuovi prodotti e i nuovi processi per produrli, le relazioni industriali tra le varie componenti del mondo dell’impresa e del lavoro, la governance dell’azienda, i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cos’è tutto questo se non cultura scientifica, cultura economica, cultura umanistica, insomma cultura d’impresa? Bisogna, in altri termini, passare dalla tradizionale visione di “impresa e cultura” a una visione più forte e carica di valori: “Impresa è cultura”.

Lo sguardo storico, in questo ragionamento, si può fermare su una definizione: quella di un’impresa “progressiva”, sottolineando l’aggettivo usato da Giovanni Battista Pirelli in un discorso del 1873, l’anno successivo alla fondazione dell’azienda (se ne ritrova l’eco nelle pagine di “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura, appena edito da Marsilio).

Un’impresa, cioè, forte di tecnologie d’avanguardia per tutti i prodotti della gomma ma anche di grande cura per “la mano dell’uomo”. Aperta all’innovazione nel senso più ampio del termine (prodotti e produzioni, materiali, organizzazione aziendale, impegni sociali). E forte della consapevolezza di essere, tra conflitti e concordanze, motore della costruzione di una storia comune segnata da migliori equilibri economici, culturali, sociali.

Sapienza antica. E contemporanea.

“Ogni cosa è in travaglio, più di quel che l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere, e l’orecchio non è mai stanco d’udire” si legge nell’Ecclesiaste 1.8, libro fondamentale per fare i conti con il tempo della storia e il ritmo dei cambiamenti. E quell’“occhio che non si sazia mai di vedere” è una straordinaria definizione del desiderio di scoperta, della curiosità scientifica, della passione tecnologica, in sintesi dell’ansia innovativa che connota l’impresa, non tanto macchina di profitto (comunque indispensabile) quanto soprattutto soggetto di cambiamento. La sua cultura e la sua etica ne definiscono valori, condizioni, orizzonti e ne informano progetti e comportamenti.

Innovazione, dunque.

“Adess ghe capissarem on quaicoss: andemm a guardagh denter” era la frase preferita da Luigi Emanueli, l’ingegnere considerato padre dell’elettrotecnica moderna, animatore, lungo tutto l’arco della prima metà del Novecento, di molte delle innovazioni per i cavi e i pneumatici della Pirelli. Guardare all’interno delle macchine e dei prodotti, capirne fino in fondo le regole di funzionamento. Costruire, smontare e ricostruire. “Guardagh denter”, con l’attitudine dello scienziato e l’abilità del meccanico.

C’è, in quella frase, il senso profondo che anima a lungo l’intera industria italiana, nelle sue pagine migliori di crescita e costruzione della competitività. L’impegno a fare, e fare bene. L’intelligenza creativa. L’inquietudine del miglioramento. La definizione della propria eccellenza, grazie alla quale reggere una competizione tecnica e produttiva con altri paesi europei e internazionali più robusti per forza d’impresa, ricchezza finanziaria, disponibilità di materie prime, sostegni pubblici all’impresa e alla ricerca scientifica e alle sue applicazioni tecnologiche. Il Recovery Fund della Ue, con la sua applicazione italiana del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) va in questa direzione. Così come potranno fare anche gli altri probabili Piani della Ue per l’energia e la sicurezza. Una strada in salita. Ma da percorrere. Magari affidandosi appunto al ricordo di Galileo. Alla “notte chiara” della scienza.

“Com’è la notte?”.
“Chiara”.

Sono le ultime battute di “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Lo scienziato ha appena dovuto accettare di sottostare agli ordini dei dottori della Chiesa, abiurando le sue scoperte sulla centralità del Sole e sul movimento della Terra come pianeta, umiliando la forza dell’evidenza scientifica di fronte alle credenze dei teologi. Subisce, per paura, la durezza del potere. Ma non si rassegna. E continua a studiare le stelle e le leggi della fisica, dell’astronomia. Perché c’è pur sempre una forza, nella scienza. Una straordinaria bellezza, nella ricerca, nella scoperta, nella conoscenza. E una verità, da verificare, discutere, mettere comunque alla prova.

Una ripartenza, da far vivere.
Un cielo, da continuare a guardare.
“Com’è la notte?”
“Chiara”.
Nonostante tutto.

“Vita di Galileo” debutta al Piccolo Teatro di Milano il 22 aprile del 1963. La regia è di Giorgio Strelher. E il ruolo del protagonista è affidato a Tino Buazzelli, in una delle interpretazioni più intense ed efficaci che la storia teatrale ricordi. Ancora oggi, è a quell’edizione strelheriana che si fa riferimento, anche durante le iniziative, appunto al Piccolo, per ricordare il centenario della nascita di Strelher. Perché proprio in quei dialoghi, in quelle scene, in quell’intensa drammaturgia lacerante eppur carica di speranze si condensa il senso profondo dell’esperienza umana di fronte alle questioni, scientifiche e morali, che segnano la storia del progresso, dello sviluppo, della costruzione di una civiltà più equilibrata.

E’ chiara, la notte, pure in questi nostri tempi difficili, di crisi sanitarie e fragilità tecnologiche, straordinarie opportunità di sviluppo economico e insopportabili disparità sociali, grandi progressi scientifici e crescenti squilibri ambientali. Di guerra strazianti, come in Ucraina. E di aggressioni ai diritti di milioni di persone ad avere un migliore futuro.

Tempi di incertezze, mentre ci si trova a fare i conti con i rischi di recessione, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei tassi e dunque del costo del denaro dopo anni di quiete, le fratture nel sistema degli scambi internazionali. Ed è sempre più necessario dare retta ai timori di Jamie Dimon, CEO di J.P. Morgan, una delle maggiori banche internazionali, quando mette l’accento su “l’uragano economico che sta arrivando”.

Tempi rischiosi, dunque. In cui potremmo cadere nella tentazione poetica (“Codesto solo questo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo/ ciò che non vogliamo”, Eugenio Montale). Ma anche affidarci alle possibilità offerte dalle conquiste scientifiche, per la salute, la qualità della vita, il miglioramento delle condizioni di lavoro. Camminare nella crisi. Evitando le ombre di un “pensiero magico” che diffida della conoscenza e delle competenze scientifiche. E accogliendo le opportunità offerte dagli studi per affrontare le sfide della gestione della complessità (come documenta la ricerca di Giorgio Parisi, cui è stato assegnato quest’anno il Premio Nobel per la fisica). Proprio quella complessità che Italo Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, individua come costante della condizione umana e come motore stesso delle spinte all’innovazione, secondo percorsi e pensieri non lineari. Sapendo comunque che, nonostante tutto, nonostante ogni intreccio e a dispetto di ogni divergenza e contraddizione, nel nostro viaggio al termine della notte si può intravvedere un’alba. Come appunto Galileo insegna.

Ci sono luoghi particolari, in cui queste complesse e pur contrastate condizioni culturali e sociali si incrociano e si evolvono. Le strutture produttive. Gli stabilimenti industriali. Le fabbriche. Ecco, le fabbriche, parola antica ritornata di recente al centro del discorso pubblico, nell’epoca di un ritrovato “orgoglio industriale” italiano ed europeo.

Erano state, nell’Ottocento, i simboli della modernità, delle nuove dimensioni della produzione e del consumi, delle dirompenti trasformazioni economiche e sociali. Nel lungo e controverso Novecento, sono state protagoniste di primo piano del panorama della politica e dell’economia, nel secolo dell’auto e della mobilità di massa, della chimica e delle telecomunicazioni, dei consumi e delle trasformazioni degli stili di vita, tra conflitti e benessere diffuso. E anche adesso, mentre le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la digital economy e l’Intelligenza Artificiale, spingono verso il primato dei “servizi” e delle attività del cosiddetto “terziario”, le fabbriche anzi, meglio, le neo-fabbriche restano centrali nel panorama economico. Perché proprio lì si condensano le evoluzioni di scienza e tecnologia, lavoro e vita, ricerca e produzione, esigenze economiche e valori sociali, innovazione e tutela dell’ambiente. Competitività e sostenibilità, ambientale e sociale.

Sembravano scomparse, le fabbriche, nel panorama d’inizio del nuovo millennio, confinate in territori pur ampi ma marginali rispetto al cuore del “progresso”. Sono ritornate attuali, con nuovi assetti e nuovi valori.

Fabbriche. E cioè civiltà delle macchine e “umanesimo industriale” chi si declina in “umanesimo digitale”, seguendo le innovazioni scientifiche e tecnologiche. Luoghi speciali in cui si sperimentano e costruiscono originali sintesi produttive e culturali. E in cui cresce la consapevolezza della relazione tra industria e cultura. Del rapporto imprescindibile tra fare fabbrica e fare cultura.

Impresa e cultura, infatti, non fanno riferimento a due universi differenti, ma sono parte dello stesso mondo (se ne è parlato a lungo, la scorsa settimana, a Roma, agli Stati Generali del Patrimonio Industriale, organizzati dall’Aipai, l’associazione accademica di studi storici, e da Museimpresa).

Fare impresa, impresa industriale soprattutto, infatti, vuol dire investire e lavorare sui cambiamenti dei mercati, dei consumi, delle tecnologie produttive. Puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Seguire le trasformazioni tecniche e sociali. E l’innovazione, parola chiave, carica appunto di forti valenze culturali e simboliche, riguarda tutto: le tecnologie, i materiali, i nuovi prodotti e i nuovi processi per produrli, le relazioni industriali tra le varie componenti del mondo dell’impresa e del lavoro, la governance dell’azienda, i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cos’è tutto questo se non cultura scientifica, cultura economica, cultura umanistica, insomma cultura d’impresa? Bisogna, in altri termini, passare dalla tradizionale visione di “impresa e cultura” a una visione più forte e carica di valori: “Impresa è cultura”.

Lo sguardo storico, in questo ragionamento, si può fermare su una definizione: quella di un’impresa “progressiva”, sottolineando l’aggettivo usato da Giovanni Battista Pirelli in un discorso del 1873, l’anno successivo alla fondazione dell’azienda (se ne ritrova l’eco nelle pagine di “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura, appena edito da Marsilio).

Un’impresa, cioè, forte di tecnologie d’avanguardia per tutti i prodotti della gomma ma anche di grande cura per “la mano dell’uomo”. Aperta all’innovazione nel senso più ampio del termine (prodotti e produzioni, materiali, organizzazione aziendale, impegni sociali). E forte della consapevolezza di essere, tra conflitti e concordanze, motore della costruzione di una storia comune segnata da migliori equilibri economici, culturali, sociali.

Sapienza antica. E contemporanea.

“Ogni cosa è in travaglio, più di quel che l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere, e l’orecchio non è mai stanco d’udire” si legge nell’Ecclesiaste 1.8, libro fondamentale per fare i conti con il tempo della storia e il ritmo dei cambiamenti. E quell’“occhio che non si sazia mai di vedere” è una straordinaria definizione del desiderio di scoperta, della curiosità scientifica, della passione tecnologica, in sintesi dell’ansia innovativa che connota l’impresa, non tanto macchina di profitto (comunque indispensabile) quanto soprattutto soggetto di cambiamento. La sua cultura e la sua etica ne definiscono valori, condizioni, orizzonti e ne informano progetti e comportamenti.

Innovazione, dunque.

“Adess ghe capissarem on quaicoss: andemm a guardagh denter” era la frase preferita da Luigi Emanueli, l’ingegnere considerato padre dell’elettrotecnica moderna, animatore, lungo tutto l’arco della prima metà del Novecento, di molte delle innovazioni per i cavi e i pneumatici della Pirelli. Guardare all’interno delle macchine e dei prodotti, capirne fino in fondo le regole di funzionamento. Costruire, smontare e ricostruire. “Guardagh denter”, con l’attitudine dello scienziato e l’abilità del meccanico.

C’è, in quella frase, il senso profondo che anima a lungo l’intera industria italiana, nelle sue pagine migliori di crescita e costruzione della competitività. L’impegno a fare, e fare bene. L’intelligenza creativa. L’inquietudine del miglioramento. La definizione della propria eccellenza, grazie alla quale reggere una competizione tecnica e produttiva con altri paesi europei e internazionali più robusti per forza d’impresa, ricchezza finanziaria, disponibilità di materie prime, sostegni pubblici all’impresa e alla ricerca scientifica e alle sue applicazioni tecnologiche. Il Recovery Fund della Ue, con la sua applicazione italiana del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) va in questa direzione. Così come potranno fare anche gli altri probabili Piani della Ue per l’energia e la sicurezza. Una strada in salita. Ma da percorrere. Magari affidandosi appunto al ricordo di Galileo. Alla “notte chiara” della scienza.

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