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La nuova forma della “città dei quartieri” e gli equilibri tra vita e smart working

“L’architettura non può fare miracoli. Non cambia il mondo, così come non lo cambiano molte altre arti. Ma può aiutare o comunque interpretare i cambiamenti del mondo”. Il giudizio è di Renzo Piano (sta nelle pagine de “Il canto della fabbrica”, il libro Mondadori dedicato al Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, progettato appunto da Piano). E indica bene le sfide che adesso, nella stagione della crisi tra pandemia e recessione economica e delle strategie di ripresa, è necessario affrontare per migliorare finalmente le nostre condizioni di vita e di lavoro.

“La pandemia ci sta spingendo a ripensare le nostre vite e, insieme a esse, le nostre città”, conferma Carlo Ratti, ingegnere, direttore del Mit Senseable City Lab a Boston, parlando di “progettazione di nuovi quartieri” ma anche di “riconversione dei distretti esistenti secondo direttrici più sostenibili dal punto di vista sociale e ambientale” (“Corriere della Sera”, 28 maggio”).

È questo uno dei principali dibattiti che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, parlando di riqualificazione urbana e di “città come spazio fisico e spazio della mente” (lo ha fatto, per esempio, ai primi di giugno, l’Aspen Institute Italia) ma anche di nuovo e migliore governo delle città, tema centrale proprio mentre a Roma e a Milano, Torino, Napoli, Bologna e in parecchie altre aree del Paese ci si prepara alle campagne elettorali d’autunno per eleggere i nuovi sindaci e i nuovi consigli comunali.

La pandemia ha evidenziato l’estrema fragilità, sanitaria, sociale ed economica delle megalopoli e delle stesse metropoli, in cui continua ad addensarsi la maggior parte della popolazione del mondo. E soprattutto in Europa tiene banco l’idea della “città in un quarto d’ora”, lanciata dalla sindaco di Parigi Anne Hidalgo e ripresa da altri sindaci, come Beppe Sala a Milano. Parecchie associazioni culturali e ambientali (il Touring Club Italiano, per esempio) insistono sulla bellezza e sulla vivibilità dei borghi.

L’accelerazione delle tendenze allo smart working in molte imprese evidenzia nuovi equilibri tra tempo della vita e tempo del lavoro e pone la questione delle reti digitali e dei collegamenti informatici come essenziali non solo per l’economia ma per i processi di partecipazione politica e di godimento dei servizi sociali, cardine della cittadinanza.
Siamo di fronte a un cambiamento non solo tecnologico, ma soprattutto antropologico. Una metamorfosi. Un mondo in movimento, che pretende giustamente nuovi pensieri politici e culturali, una migliore governance delle città. “How will we live together?” è il tema della Biennale di Architettura in corso a Venezia, da metà maggio. Una domanda chiave per un futuro che è già stretta attualità.

Qualcuno – nota Fulvio Irace, studioso di architettura e urbanistica – suggerisce che il futuro delle metropoli vada verso un modello di disaggregazione, quasi come un arcipelago di piccole città. Una buona idea, confermano Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fondatrici dello studio Grafton Architects (è stato progettato da loro l’edificio dell’Università Bocconi in via Roentgen a Milano) e vincitrici del Pritzker Prize 2020, il più prestigioso premio internazionale di architettura: “È proprio il tradizionale modello dei quartieri. Le unità di vicinato dentro la bolla più grande della città: il vecchio modello di quartieri quasi autosufficienti basati su due tipi di mobilità, quella generale dei trasporti urbani e quella particolare delle piccole distanze a piedi” (“Il Sole24Ore”, 13 giugno).

La riqualificazione delle città, dunque, luogo cardine della cosiddetta “economia di agglomerazione”, condensa di idee, capitali, conoscenze, esperienze.

È vero, nei momenti più duri della pandemia si è sviluppata la passione per i borghi, la tendenza di andare a vivere in campagna o in piccoli villaggi. Eppure, avvertono oggi Farrell e McNamara, “anche se la tecnologia ci consente di lavorare da remoto e di essere autosufficienti, rimane il piacere umano di interrelarsi, di intrecciarsi gli uni agli altri, di sperimentare quel tipo di vicinanza che solo la città è in grado di offrire”.

Bisogna “ridisegnare la città, tra ombre e speranze”, avevamo scritto nel blog del 25 maggio scorso, parlando anche di un rilancio di Milano “produttiva e inclusiva”, punto di riferimento di una strategia di sviluppo nazionale, lungo l’asse tra Europa e Mediterraneo. Una “città che sale”, per riprendere l’efficace immagine di Umberto Boccioni, con un dinamismo che la pandemia ha solo sospeso ma adesso in ripresa (vanno avanti tutti i grandi progetti immobiliari, a cominciare da Mind, Milano Innovation District sull’area ex Expo e dall’ambizioso “Milano Sesto”, con oltre 4 miliardi di investimento a nord della metropoli, tra servizi produttivi, edilizia, parchi).

È necessario, insomma, un ripensamento critico, dunque, come dicono Piano e Ratti. Con un ridisegno del territorio che tenga conto della particolare condizione italiana: poche metropoli (Milano, Roma, Napoli se si considera tutta l’affollata e intricata area vesuviana) e un fitto intreccio di città grandi, medie e piccole, paesi, borghi, campagne fortemente industrializzate e antropizzate, con altre aree (la dorsale appenninica, soprattutto) segnata invece da profondi fenomeni di abbandono.
In tempi di Recovery Plan “Next Generation Ue” ispirato a green e digital economy, sostenibilità ambientale e innovazione, cioè e di Pnrr, il Piano nazionale di resistenza e ripresa, che è la traduzione italiana da parte del buon governo Draghi, per spendere bene i 200 miliardi di stanziamenti a fondo perduto e prestiti (la maggior parte), Il territorio da mettere in sicurezza, riqualificare e considerare asset fondamentale di sviluppo e qualità della vita assume una radicale centralità.

Gli spazi urbani da ripensare. Ma anche gli spazi degli “interni”, di case, uffici, luoghi della comunità.

Sono utili, in questo senso, le riflessioni su una vera e propria “Filosofia della casa”, come indica Emanuele Coccia, professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ragionando, in un libro pubblicato da Einaudi, su “lo spazio domestico e la felicità” e notando che “sempre e solo grazie e dentro una casa abitiamo questo pianeta”.

Una casa intesa come “un artefatto psichico e materiale, che ci permette di essere al mondo meglio di quanto la nostra natura ci consentirebbe”. Stanze, arredi, oggetti, ma anche persone e animali, con cui intrecciamo “una relazione talmente intensa da rendere la felicità e il nostro respiro inseparabili”. Nel racconto di Coccia ci sono riflessioni rafforzate da esperienze personali (una trentina di traslochi in 45 anni di vita), gioie, dolori, equilibri infranti e ricostituiti. E analisi generali sull’ampliamento dell’abitudine a “fare casa” a tutto il pianeta, profondamente antropizzato. Intimità ed esteriorità trovano nuove relazioni, spesso in condizioni critiche. E adesso varrà davvero la pena sperimentare modi migliori di vivere e abitare il mondo.

“L’architettura non può fare miracoli. Non cambia il mondo, così come non lo cambiano molte altre arti. Ma può aiutare o comunque interpretare i cambiamenti del mondo”. Il giudizio è di Renzo Piano (sta nelle pagine de “Il canto della fabbrica”, il libro Mondadori dedicato al Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, progettato appunto da Piano). E indica bene le sfide che adesso, nella stagione della crisi tra pandemia e recessione economica e delle strategie di ripresa, è necessario affrontare per migliorare finalmente le nostre condizioni di vita e di lavoro.

“La pandemia ci sta spingendo a ripensare le nostre vite e, insieme a esse, le nostre città”, conferma Carlo Ratti, ingegnere, direttore del Mit Senseable City Lab a Boston, parlando di “progettazione di nuovi quartieri” ma anche di “riconversione dei distretti esistenti secondo direttrici più sostenibili dal punto di vista sociale e ambientale” (“Corriere della Sera”, 28 maggio”).

È questo uno dei principali dibattiti che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, parlando di riqualificazione urbana e di “città come spazio fisico e spazio della mente” (lo ha fatto, per esempio, ai primi di giugno, l’Aspen Institute Italia) ma anche di nuovo e migliore governo delle città, tema centrale proprio mentre a Roma e a Milano, Torino, Napoli, Bologna e in parecchie altre aree del Paese ci si prepara alle campagne elettorali d’autunno per eleggere i nuovi sindaci e i nuovi consigli comunali.

La pandemia ha evidenziato l’estrema fragilità, sanitaria, sociale ed economica delle megalopoli e delle stesse metropoli, in cui continua ad addensarsi la maggior parte della popolazione del mondo. E soprattutto in Europa tiene banco l’idea della “città in un quarto d’ora”, lanciata dalla sindaco di Parigi Anne Hidalgo e ripresa da altri sindaci, come Beppe Sala a Milano. Parecchie associazioni culturali e ambientali (il Touring Club Italiano, per esempio) insistono sulla bellezza e sulla vivibilità dei borghi.

L’accelerazione delle tendenze allo smart working in molte imprese evidenzia nuovi equilibri tra tempo della vita e tempo del lavoro e pone la questione delle reti digitali e dei collegamenti informatici come essenziali non solo per l’economia ma per i processi di partecipazione politica e di godimento dei servizi sociali, cardine della cittadinanza.
Siamo di fronte a un cambiamento non solo tecnologico, ma soprattutto antropologico. Una metamorfosi. Un mondo in movimento, che pretende giustamente nuovi pensieri politici e culturali, una migliore governance delle città. “How will we live together?” è il tema della Biennale di Architettura in corso a Venezia, da metà maggio. Una domanda chiave per un futuro che è già stretta attualità.

Qualcuno – nota Fulvio Irace, studioso di architettura e urbanistica – suggerisce che il futuro delle metropoli vada verso un modello di disaggregazione, quasi come un arcipelago di piccole città. Una buona idea, confermano Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fondatrici dello studio Grafton Architects (è stato progettato da loro l’edificio dell’Università Bocconi in via Roentgen a Milano) e vincitrici del Pritzker Prize 2020, il più prestigioso premio internazionale di architettura: “È proprio il tradizionale modello dei quartieri. Le unità di vicinato dentro la bolla più grande della città: il vecchio modello di quartieri quasi autosufficienti basati su due tipi di mobilità, quella generale dei trasporti urbani e quella particolare delle piccole distanze a piedi” (“Il Sole24Ore”, 13 giugno).

La riqualificazione delle città, dunque, luogo cardine della cosiddetta “economia di agglomerazione”, condensa di idee, capitali, conoscenze, esperienze.

È vero, nei momenti più duri della pandemia si è sviluppata la passione per i borghi, la tendenza di andare a vivere in campagna o in piccoli villaggi. Eppure, avvertono oggi Farrell e McNamara, “anche se la tecnologia ci consente di lavorare da remoto e di essere autosufficienti, rimane il piacere umano di interrelarsi, di intrecciarsi gli uni agli altri, di sperimentare quel tipo di vicinanza che solo la città è in grado di offrire”.

Bisogna “ridisegnare la città, tra ombre e speranze”, avevamo scritto nel blog del 25 maggio scorso, parlando anche di un rilancio di Milano “produttiva e inclusiva”, punto di riferimento di una strategia di sviluppo nazionale, lungo l’asse tra Europa e Mediterraneo. Una “città che sale”, per riprendere l’efficace immagine di Umberto Boccioni, con un dinamismo che la pandemia ha solo sospeso ma adesso in ripresa (vanno avanti tutti i grandi progetti immobiliari, a cominciare da Mind, Milano Innovation District sull’area ex Expo e dall’ambizioso “Milano Sesto”, con oltre 4 miliardi di investimento a nord della metropoli, tra servizi produttivi, edilizia, parchi).

È necessario, insomma, un ripensamento critico, dunque, come dicono Piano e Ratti. Con un ridisegno del territorio che tenga conto della particolare condizione italiana: poche metropoli (Milano, Roma, Napoli se si considera tutta l’affollata e intricata area vesuviana) e un fitto intreccio di città grandi, medie e piccole, paesi, borghi, campagne fortemente industrializzate e antropizzate, con altre aree (la dorsale appenninica, soprattutto) segnata invece da profondi fenomeni di abbandono.
In tempi di Recovery Plan “Next Generation Ue” ispirato a green e digital economy, sostenibilità ambientale e innovazione, cioè e di Pnrr, il Piano nazionale di resistenza e ripresa, che è la traduzione italiana da parte del buon governo Draghi, per spendere bene i 200 miliardi di stanziamenti a fondo perduto e prestiti (la maggior parte), Il territorio da mettere in sicurezza, riqualificare e considerare asset fondamentale di sviluppo e qualità della vita assume una radicale centralità.

Gli spazi urbani da ripensare. Ma anche gli spazi degli “interni”, di case, uffici, luoghi della comunità.

Sono utili, in questo senso, le riflessioni su una vera e propria “Filosofia della casa”, come indica Emanuele Coccia, professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ragionando, in un libro pubblicato da Einaudi, su “lo spazio domestico e la felicità” e notando che “sempre e solo grazie e dentro una casa abitiamo questo pianeta”.

Una casa intesa come “un artefatto psichico e materiale, che ci permette di essere al mondo meglio di quanto la nostra natura ci consentirebbe”. Stanze, arredi, oggetti, ma anche persone e animali, con cui intrecciamo “una relazione talmente intensa da rendere la felicità e il nostro respiro inseparabili”. Nel racconto di Coccia ci sono riflessioni rafforzate da esperienze personali (una trentina di traslochi in 45 anni di vita), gioie, dolori, equilibri infranti e ricostituiti. E analisi generali sull’ampliamento dell’abitudine a “fare casa” a tutto il pianeta, profondamente antropizzato. Intimità ed esteriorità trovano nuove relazioni, spesso in condizioni critiche. E adesso varrà davvero la pena sperimentare modi migliori di vivere e abitare il mondo.

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