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La parità di genere è essenziale per uno sviluppo sostenibile. Il buon esempio dell’Università Bicocca e del risparmio Usa

Parità di genere, il buon esempio viene da un’università, Milano Bicocca: qui c’è un “equilibrio perfetto” di uomini e donne tra le “figure di comando” dell’ateneo, ma anche una forte e crescente presenza femminile tra i docenti e gli studenti. Lo dimostra il primo “Bilancio di genere”, presentato alla fine del gennaio scorso, che documenta come le donne rappresentino il 44% del corpo docente, il 60% del personale tecnico amministrativo e il 62% degli iscritti. Parità in Consiglio d’Amministrazione e nel Senato Accademico. Sei donne alla guida dei dipartimenti, in tutto quattordici. Una donna Rettore, Cristina Messa. Una donna direttore generale, Loredana Luzzi. Una condizione migliore della media nazionale, in un mondo, quello universitario, in cui comunque la presenza femminile è maggiore e più equilibrata che in altri settori della vita sociale e civile, in quello economico, per esempio. “Il nostro primo Bilancio di genere ha evidenziato le azioni trasversali messe in atto dall’Università. E gli indicatori mostrano come Milano Bicocca, ateneo giovane, appena vent’anni di vita, abbia investito in misura più equa, rispetto alla media nazionale, sulla professionalità della comunità accademica, anche grazie alla presenza di donne ai vertici dell’Università”, commenta Francesca Zaiczyk, professore ordinario di Sociologia urbana e coordinatrice del Bilancio di genere in Bicocca.

Il buon lavoro fatto a Milano indica quale strada seguire per provare ad allineare l’Italia alle migliori condizioni degli altri paesi europei, per la parità di genere, uscendo dalla mediocre situazione dell’essere fanalino di coda (IlSole24Ore, 3 marzo). Guardando alle classifiche del Global Gender Gap Report 2018 del World Economic Forum sui 147 paesi che ne fanno parte, l’Italia è al 70° posto, con un voto globale appena sopra la media: l’ultima delle grandi economie Ue, appena sopra la Grecia (78°) ma molto distante da Francia (12°), Germania (14°), Svizzera (20°) ma anche Spagna (29°). Ci penalizza la presenza relativamente bassa delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto nelle posizioni di vertice aziendale, la differenza nel salario medio, la scarsa possibilità di conciliare lavoro e vita privata se si hanno figli (anche per le carenze di servizi sociali efficienti). La posizione, è vero, migliora un po’ dall’82° posto del 2017. Ma restiamo sempre in una condizione negativa, che incide sulla soddisfazione sociale e sulle aspettative, ma anche sulle possibilità di insistere sulle dinamiche positive dello sviluppo sostenibile: non c’è sostenibilità, sulla strada di una crescita dell’economia “giusta” e “civile” senza una reale ed equa partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Lo confermano parecchie iniziative dedicate appunto a questa dimensione, da “Valore D” a “Steamiamoci”, promossa da Assolombarda alcuni anni fa e rilanciata nel tempo.

Più donne al lavoro significa anche più crescita: se le partecipazione femminile italiana fosse del 60% (la percentuale della ricca e dinamica Lombardia, allineata alla media Ue e maggiore della media nazionale del 47%), il Pil del Paese crescerebbe del 7%.

Vale la pena ricordare anche alcuni altri dati. Le donne al vertice di grandi imprese sono ancora poche, pure in Italia. Ma il loro numero sta aumentano. La legge Golfo-Mosca del 2011 sull’obbligo di avere almeno un quinto di donne nelle società quotate in Borsa (le cosiddette “quote rosa”) ha fatto crescere la loro presenza (erano il 2% nel 2003, sono il 35% nel 2017). Ma resta molta strada da fare, nel mondo aziendale in generale: sono donne solo il 19% del top management nel complesso delle imprese italiane (dati Luiss Business School 2018). E la legge Golfo-Mosca, in scadenza, va aggiornata in modo da stimolare una maggiore presenza non solo nei Consigli, ma direttamente nella gestione delle attività aziendali, partendo dalle imprese quotate e penetrando più ampiamente nel vasto mondo delle imprese, anche quelle medie e piccole. Sono proprio le nostre “multinazionali tascabili”, in gran parte d’origine familiare ma oramai ampiamente managerializzate e presenti sui mercati globali, ad avere bisogno di quella “intelligenza del cuore” e di quella sapiente flessibilità culturale e sociale che una presenza femminile può assicurare in modo particolarmente rilevante.

Nel “cambio di paradigma” imposto all’economia dalla Grande Crisi, in cerca di uno sviluppo di qualità, proprio questa è una dimensione essenziale.

Un’indicazione interessante arriva da uno dei mondi tradizionalmente maschili, quello della finanza. C’è un poker di donne, al vertice delle principali società americane del risparmio gestito, che governano un portafoglio di 6.700 miliardi di dollari (l’equivalente del Pil di Italia e Giappone). Ecco i loro nomi: Anne Richards di Fidelity International, Abigail Johnson di Fidelity, Mary Callahan Erdoes di JP Morgan Chiase e Michelle Scrimgeour, appena nominata amministratore delegato di Legal & General Investment Management, la società dell’omonimo gruppo assicurativo inglese con un patrimonio di 1,3 trilioni di dollari in gestione.

Una così potente e qualificata presenza femminile, raccontata da “L’Economia” del Corriere della Sera (4 marzo) è appunto una novità rilevante. E siccome nella grande finanza nulla succede se non rispondendo a robusti interessi, si scopre che proprio nella gestione del risparmio le donne si sono dimostrate più affidabili, acute, lungimiranti, abili nel capire e nel costruire futuri sicuri: proprio quel che chiedono le famiglie che ai fondi affidano i loro soldi, garanzia d’un migliore avvenire per i figli o d’una vecchiaia più tranquilla.

Parità di genere, il buon esempio viene da un’università, Milano Bicocca: qui c’è un “equilibrio perfetto” di uomini e donne tra le “figure di comando” dell’ateneo, ma anche una forte e crescente presenza femminile tra i docenti e gli studenti. Lo dimostra il primo “Bilancio di genere”, presentato alla fine del gennaio scorso, che documenta come le donne rappresentino il 44% del corpo docente, il 60% del personale tecnico amministrativo e il 62% degli iscritti. Parità in Consiglio d’Amministrazione e nel Senato Accademico. Sei donne alla guida dei dipartimenti, in tutto quattordici. Una donna Rettore, Cristina Messa. Una donna direttore generale, Loredana Luzzi. Una condizione migliore della media nazionale, in un mondo, quello universitario, in cui comunque la presenza femminile è maggiore e più equilibrata che in altri settori della vita sociale e civile, in quello economico, per esempio. “Il nostro primo Bilancio di genere ha evidenziato le azioni trasversali messe in atto dall’Università. E gli indicatori mostrano come Milano Bicocca, ateneo giovane, appena vent’anni di vita, abbia investito in misura più equa, rispetto alla media nazionale, sulla professionalità della comunità accademica, anche grazie alla presenza di donne ai vertici dell’Università”, commenta Francesca Zaiczyk, professore ordinario di Sociologia urbana e coordinatrice del Bilancio di genere in Bicocca.

Il buon lavoro fatto a Milano indica quale strada seguire per provare ad allineare l’Italia alle migliori condizioni degli altri paesi europei, per la parità di genere, uscendo dalla mediocre situazione dell’essere fanalino di coda (IlSole24Ore, 3 marzo). Guardando alle classifiche del Global Gender Gap Report 2018 del World Economic Forum sui 147 paesi che ne fanno parte, l’Italia è al 70° posto, con un voto globale appena sopra la media: l’ultima delle grandi economie Ue, appena sopra la Grecia (78°) ma molto distante da Francia (12°), Germania (14°), Svizzera (20°) ma anche Spagna (29°). Ci penalizza la presenza relativamente bassa delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto nelle posizioni di vertice aziendale, la differenza nel salario medio, la scarsa possibilità di conciliare lavoro e vita privata se si hanno figli (anche per le carenze di servizi sociali efficienti). La posizione, è vero, migliora un po’ dall’82° posto del 2017. Ma restiamo sempre in una condizione negativa, che incide sulla soddisfazione sociale e sulle aspettative, ma anche sulle possibilità di insistere sulle dinamiche positive dello sviluppo sostenibile: non c’è sostenibilità, sulla strada di una crescita dell’economia “giusta” e “civile” senza una reale ed equa partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Lo confermano parecchie iniziative dedicate appunto a questa dimensione, da “Valore D” a “Steamiamoci”, promossa da Assolombarda alcuni anni fa e rilanciata nel tempo.

Più donne al lavoro significa anche più crescita: se le partecipazione femminile italiana fosse del 60% (la percentuale della ricca e dinamica Lombardia, allineata alla media Ue e maggiore della media nazionale del 47%), il Pil del Paese crescerebbe del 7%.

Vale la pena ricordare anche alcuni altri dati. Le donne al vertice di grandi imprese sono ancora poche, pure in Italia. Ma il loro numero sta aumentano. La legge Golfo-Mosca del 2011 sull’obbligo di avere almeno un quinto di donne nelle società quotate in Borsa (le cosiddette “quote rosa”) ha fatto crescere la loro presenza (erano il 2% nel 2003, sono il 35% nel 2017). Ma resta molta strada da fare, nel mondo aziendale in generale: sono donne solo il 19% del top management nel complesso delle imprese italiane (dati Luiss Business School 2018). E la legge Golfo-Mosca, in scadenza, va aggiornata in modo da stimolare una maggiore presenza non solo nei Consigli, ma direttamente nella gestione delle attività aziendali, partendo dalle imprese quotate e penetrando più ampiamente nel vasto mondo delle imprese, anche quelle medie e piccole. Sono proprio le nostre “multinazionali tascabili”, in gran parte d’origine familiare ma oramai ampiamente managerializzate e presenti sui mercati globali, ad avere bisogno di quella “intelligenza del cuore” e di quella sapiente flessibilità culturale e sociale che una presenza femminile può assicurare in modo particolarmente rilevante.

Nel “cambio di paradigma” imposto all’economia dalla Grande Crisi, in cerca di uno sviluppo di qualità, proprio questa è una dimensione essenziale.

Un’indicazione interessante arriva da uno dei mondi tradizionalmente maschili, quello della finanza. C’è un poker di donne, al vertice delle principali società americane del risparmio gestito, che governano un portafoglio di 6.700 miliardi di dollari (l’equivalente del Pil di Italia e Giappone). Ecco i loro nomi: Anne Richards di Fidelity International, Abigail Johnson di Fidelity, Mary Callahan Erdoes di JP Morgan Chiase e Michelle Scrimgeour, appena nominata amministratore delegato di Legal & General Investment Management, la società dell’omonimo gruppo assicurativo inglese con un patrimonio di 1,3 trilioni di dollari in gestione.

Una così potente e qualificata presenza femminile, raccontata da “L’Economia” del Corriere della Sera (4 marzo) è appunto una novità rilevante. E siccome nella grande finanza nulla succede se non rispondendo a robusti interessi, si scopre che proprio nella gestione del risparmio le donne si sono dimostrate più affidabili, acute, lungimiranti, abili nel capire e nel costruire futuri sicuri: proprio quel che chiedono le famiglie che ai fondi affidano i loro soldi, garanzia d’un migliore avvenire per i figli o d’una vecchiaia più tranquilla.

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