La rigenerazione necessaria per imprese e società ascoltando la lezione dell’umanesimo di Morin
“Umanesimo rigenerato”, dice Edgar Morin, nelle pagine di “Lezioni di un secolo di vita”, l’autobiografia (uscita all’inizio di giugno in Francia e pronta per la pubblicazione italiana da Mimesis) di uno dei più grandi intellettuali contemporanei, cent’anni appena compiuti e un pensiero ancora fresco, severamente critico con “la nuova barbarie” e con l’ossessione della crescita priva di equilibrio. Un uomo di pensiero, dunque, lungimirante, progettuale, maestro da ascoltare, accanto ai Bauman, ai Beck, ai Sen, agli Stiglitz e ai Crouch, interpreti problematici del disagio dell’incertezza e sostenitori di un necessario “cambio di paradigma” economico e sociale.
“Rigenerazione”, è stata la parola chiave dell’assemblea di Assolombarda, la maggiore associazione territoriale di Confindustria, sotto le volte dell’ex laminatoio delle Acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, già in trasformazione per uno dei più impegnativi progetti di ricostruzione urbanistica ed economica d’Europa.
Ci sono interessanti coincidenze da indagare, in questi nostri tempi così ruvidi eppur carichi di speranza. Al di là delle somiglianze linguistiche, le indicazioni degli imprenditori dell’area più dinamica ed europea dell’Italia e quelle d’un uomo di cultura d’origine ebraiche, un po’ italiano (“per me l’Italia è una matrice”) e un po’ spagnolo, “figlio di Montaigne e di Spinoza”, profondamente mediterraneo e dunque cosmopolita, francese per scelta d’appartenenza ma semplicemente “un essere umano” per auto-definizione (su “7”, magazine del Corriere della Sera”, 2 luglio), quelle indicazioni – dicevamo – sulla rigenerazione indicano un percorso quanto mai stimolante.
Non una semplice “ripartenza” né una “ripresa” da dove ci eravamo fermarti, per colpa della pandemia e della recessione. Ma un lavorìo che tiene conto delle fratture e delle radici della fragilità e però insiste per creare qualcosa di nuovo, perché “dopo una crisi che ci ha messo di fronte ai nostri limiti ripartire non basta. Bisogna cambiare”, come sostiene Alessandro Spada, presidente di Assolombarda.
Rigenerazione, nella sintesi tra la memoria e il futuro, la consapevolezza della propria storia e la spinta creativa e critica all’innovazione. L’impresa come comunità progettuale e dialettica e la filosofia di Morin, da strade anche molto diverse, convergono sull’idea di una nuova dimensione di umanità, fondata sulla conoscenza e sulla responsabilità. E indicano una strada su cui l’attività economica, le riflessioni delle organizzazioni sociali e, perché no? un po’ tutto il pensiero europeo contemporaneo dovrebbero concentrare l’attenzione, facendo leva sulla crisi della stagione del primato dell’incompetenza e dell’esaurirsi del fascino delle scorciatoie populiste (la cronaca politica italiana ne offre interessanti indicazioni) e indicando nuove strade di conoscenza e di sviluppo.
Umanesimo industriale, dice la migliore cultura d’impresa italiana. Umanesimo digitale, sostengono gli imprenditori sensibili al valore e ai valori anche etici degli algoritmi e i filosofi come Luciano Floridi. Umanesimo rigenerato, insiste Morin, ricordando che “scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima” e rilanciando “la cultura umanista europea” per evitare “la degradazione del pianeta in balia di un incontrollato sviluppo tecnologico economico”.
Si apre un ragionamento, dunque, sui valori e sui fini, anche dell’attività economica e della responsabilità delle imprese. E tocca alla nostra cultura politecnica provare a disegnare uno sviluppo più equilibrato e sostenibile.
Ecco il punto: l’impresa, con il “tratto comunitario della manifattura” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul “Corriere della Sera”, 4 luglio) non è più soltanto il luogo – essenziale, comunque – dove si creano benessere e lavoro, innovazione e profitto, cambiamento di prodotti e servizi e migliore qualità della vita. Ma è un soggetto attivo negli equilibri della sostenibilità, ambientale e sociale. Una componente fondamentale di un capitale sociale positivo che intende contribuire in modo determinante a quella che sia Papa Francesco che la migliore letteratura economica chiamano “l’economia giusta”, l’economia “circolare” e “civile” (rileggere Antonio Genovesi, lungimirante illuminista napoletano, e i suoi creativi interpreti contemporanei, a cominciare da Stefano Zamagni). Impresa e lavoro. Impresa e promozione umana. Impresa e inclusione sociale, tra competitività e solidarietà. Impresa e cultura. Impresa e metamorfosi, per camminare ancora sulla strada della “rigenerazione”.
Per capire ancora meglio, vale la pena fermarsi a guardare i dati della ripresa. “Il made in Italy rialza la testa: metà del distretti oltre la crisi”, titola “Il Sole24Ore” (1 luglio), citando i risultati delle analisi periodiche del Monitor Intesa San Paolo. Il primo trimestre del 2021 è stato di “netto recupero per le aree a specializzazione manifatturiera” e “l’export di elettrodomestici, metallurgia, mobili, piastrelle e alimentari supera già i volumi dell’era pre Covid”. Va male la moda. Tengono bene anche la meccatronica, la nautica, le macchine agricole, la termomeccanica.
Ecco, appunto, i distretti come motore di ripresa. Forti di una intraprendenza diffusa, di un robusto rapporto con le competenze dei territori di riferimento, di un capitale sociale che ha i suoi punti di forza nel dinamismo sociale e nell’inclusione, negli scambi e nella solidarietà. Valori economici che innervano anche le relazioni industriali e che in luoghi particolari, la Motor Valley emiliana, per esempio (“16mila imprese, 66mila addetti, elevatissime abilità tecniche”, racconta “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 28 giugno) sono rafforzati dalla collaborazione proficua tra imprese, università e buon governo regionale e locale.
Un capitale sociale che si rinnova. “Il boom del made in Italy è figlio di Industria 4.0 e dei giovani imprenditori”, nota Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, ricordando come le imprese più dinamiche abbiano saputo mettere a buon frutto gli stimoli fiscali dei provvedimenti per l’innovazione varati dai governi nel 2015 e 2016 investendo sulle trasformazioni digitali e come, in questo quadro di riforme e scelte lungimiranti di politica industriale, siano ben emerse “le capacità dei giovani imprenditori insediatisi al comando delle aziende negli ultimi anni, a seguito dei passaggi generazionali, di interpretare con visione e coraggio la spinta di Industria 4.0, innovando profondamente l’organizzazione, i processi e i prodotti delle imprese”. Adesso, con la ripresa avviata, ne vediamo ancora meglio i risultati.
Una ripresa “equa e sostenibile” sta molto a cuore al presidente del Consiglio Mario Draghi, che considera “la coesione sociale” come “un dovere morale”, oltre che come una grande opportunità economica, riformando in modo efficace gli strumenti del welfare e gli ammortizzatori sociali, per fare fronte al problema del lavoro.
Anche da questo punto di vista le imprese hanno un ruolo fondamentale, come conferma l’ultimo Rapporto Symbola (ne abbiamo parlato nel blog del 22 giugno), documentando come “le imprese coesive” sono più efficienti, innovano ed esportano di più, colgono meglio le occasioni di crescita di qualità e di successo competitivo.
L’orizzonte è quello della migliore tenuta sociale del sistema Paese, della ricostruzione della fiducia, dell’attuazione di riforme nel segno della produttività e della sostenibilità. Sfida economica, sociale, culturale. E politica, naturalmente. Sapientemente, il presidente di Assolombarda Spada, nelle conclusioni del suo discorso all’assemblea degli imprenditori, ha parafrasato una delle indicazioni più incisive di Alcide De Gasperi, il presidente del Consiglio della ricostruzione e della ripresa dell’Italia, dopo i disastri del fascismo e della guerra: “Bisogna imparare a guardare più alle future generazioni che non alle prossime elezioni”. Rigenerazione, appunto.
“Umanesimo rigenerato”, dice Edgar Morin, nelle pagine di “Lezioni di un secolo di vita”, l’autobiografia (uscita all’inizio di giugno in Francia e pronta per la pubblicazione italiana da Mimesis) di uno dei più grandi intellettuali contemporanei, cent’anni appena compiuti e un pensiero ancora fresco, severamente critico con “la nuova barbarie” e con l’ossessione della crescita priva di equilibrio. Un uomo di pensiero, dunque, lungimirante, progettuale, maestro da ascoltare, accanto ai Bauman, ai Beck, ai Sen, agli Stiglitz e ai Crouch, interpreti problematici del disagio dell’incertezza e sostenitori di un necessario “cambio di paradigma” economico e sociale.
“Rigenerazione”, è stata la parola chiave dell’assemblea di Assolombarda, la maggiore associazione territoriale di Confindustria, sotto le volte dell’ex laminatoio delle Acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, già in trasformazione per uno dei più impegnativi progetti di ricostruzione urbanistica ed economica d’Europa.
Ci sono interessanti coincidenze da indagare, in questi nostri tempi così ruvidi eppur carichi di speranza. Al di là delle somiglianze linguistiche, le indicazioni degli imprenditori dell’area più dinamica ed europea dell’Italia e quelle d’un uomo di cultura d’origine ebraiche, un po’ italiano (“per me l’Italia è una matrice”) e un po’ spagnolo, “figlio di Montaigne e di Spinoza”, profondamente mediterraneo e dunque cosmopolita, francese per scelta d’appartenenza ma semplicemente “un essere umano” per auto-definizione (su “7”, magazine del Corriere della Sera”, 2 luglio), quelle indicazioni – dicevamo – sulla rigenerazione indicano un percorso quanto mai stimolante.
Non una semplice “ripartenza” né una “ripresa” da dove ci eravamo fermarti, per colpa della pandemia e della recessione. Ma un lavorìo che tiene conto delle fratture e delle radici della fragilità e però insiste per creare qualcosa di nuovo, perché “dopo una crisi che ci ha messo di fronte ai nostri limiti ripartire non basta. Bisogna cambiare”, come sostiene Alessandro Spada, presidente di Assolombarda.
Rigenerazione, nella sintesi tra la memoria e il futuro, la consapevolezza della propria storia e la spinta creativa e critica all’innovazione. L’impresa come comunità progettuale e dialettica e la filosofia di Morin, da strade anche molto diverse, convergono sull’idea di una nuova dimensione di umanità, fondata sulla conoscenza e sulla responsabilità. E indicano una strada su cui l’attività economica, le riflessioni delle organizzazioni sociali e, perché no? un po’ tutto il pensiero europeo contemporaneo dovrebbero concentrare l’attenzione, facendo leva sulla crisi della stagione del primato dell’incompetenza e dell’esaurirsi del fascino delle scorciatoie populiste (la cronaca politica italiana ne offre interessanti indicazioni) e indicando nuove strade di conoscenza e di sviluppo.
Umanesimo industriale, dice la migliore cultura d’impresa italiana. Umanesimo digitale, sostengono gli imprenditori sensibili al valore e ai valori anche etici degli algoritmi e i filosofi come Luciano Floridi. Umanesimo rigenerato, insiste Morin, ricordando che “scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima” e rilanciando “la cultura umanista europea” per evitare “la degradazione del pianeta in balia di un incontrollato sviluppo tecnologico economico”.
Si apre un ragionamento, dunque, sui valori e sui fini, anche dell’attività economica e della responsabilità delle imprese. E tocca alla nostra cultura politecnica provare a disegnare uno sviluppo più equilibrato e sostenibile.
Ecco il punto: l’impresa, con il “tratto comunitario della manifattura” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul “Corriere della Sera”, 4 luglio) non è più soltanto il luogo – essenziale, comunque – dove si creano benessere e lavoro, innovazione e profitto, cambiamento di prodotti e servizi e migliore qualità della vita. Ma è un soggetto attivo negli equilibri della sostenibilità, ambientale e sociale. Una componente fondamentale di un capitale sociale positivo che intende contribuire in modo determinante a quella che sia Papa Francesco che la migliore letteratura economica chiamano “l’economia giusta”, l’economia “circolare” e “civile” (rileggere Antonio Genovesi, lungimirante illuminista napoletano, e i suoi creativi interpreti contemporanei, a cominciare da Stefano Zamagni). Impresa e lavoro. Impresa e promozione umana. Impresa e inclusione sociale, tra competitività e solidarietà. Impresa e cultura. Impresa e metamorfosi, per camminare ancora sulla strada della “rigenerazione”.
Per capire ancora meglio, vale la pena fermarsi a guardare i dati della ripresa. “Il made in Italy rialza la testa: metà del distretti oltre la crisi”, titola “Il Sole24Ore” (1 luglio), citando i risultati delle analisi periodiche del Monitor Intesa San Paolo. Il primo trimestre del 2021 è stato di “netto recupero per le aree a specializzazione manifatturiera” e “l’export di elettrodomestici, metallurgia, mobili, piastrelle e alimentari supera già i volumi dell’era pre Covid”. Va male la moda. Tengono bene anche la meccatronica, la nautica, le macchine agricole, la termomeccanica.
Ecco, appunto, i distretti come motore di ripresa. Forti di una intraprendenza diffusa, di un robusto rapporto con le competenze dei territori di riferimento, di un capitale sociale che ha i suoi punti di forza nel dinamismo sociale e nell’inclusione, negli scambi e nella solidarietà. Valori economici che innervano anche le relazioni industriali e che in luoghi particolari, la Motor Valley emiliana, per esempio (“16mila imprese, 66mila addetti, elevatissime abilità tecniche”, racconta “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 28 giugno) sono rafforzati dalla collaborazione proficua tra imprese, università e buon governo regionale e locale.
Un capitale sociale che si rinnova. “Il boom del made in Italy è figlio di Industria 4.0 e dei giovani imprenditori”, nota Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, ricordando come le imprese più dinamiche abbiano saputo mettere a buon frutto gli stimoli fiscali dei provvedimenti per l’innovazione varati dai governi nel 2015 e 2016 investendo sulle trasformazioni digitali e come, in questo quadro di riforme e scelte lungimiranti di politica industriale, siano ben emerse “le capacità dei giovani imprenditori insediatisi al comando delle aziende negli ultimi anni, a seguito dei passaggi generazionali, di interpretare con visione e coraggio la spinta di Industria 4.0, innovando profondamente l’organizzazione, i processi e i prodotti delle imprese”. Adesso, con la ripresa avviata, ne vediamo ancora meglio i risultati.
Una ripresa “equa e sostenibile” sta molto a cuore al presidente del Consiglio Mario Draghi, che considera “la coesione sociale” come “un dovere morale”, oltre che come una grande opportunità economica, riformando in modo efficace gli strumenti del welfare e gli ammortizzatori sociali, per fare fronte al problema del lavoro.
Anche da questo punto di vista le imprese hanno un ruolo fondamentale, come conferma l’ultimo Rapporto Symbola (ne abbiamo parlato nel blog del 22 giugno), documentando come “le imprese coesive” sono più efficienti, innovano ed esportano di più, colgono meglio le occasioni di crescita di qualità e di successo competitivo.
L’orizzonte è quello della migliore tenuta sociale del sistema Paese, della ricostruzione della fiducia, dell’attuazione di riforme nel segno della produttività e della sostenibilità. Sfida economica, sociale, culturale. E politica, naturalmente. Sapientemente, il presidente di Assolombarda Spada, nelle conclusioni del suo discorso all’assemblea degli imprenditori, ha parafrasato una delle indicazioni più incisive di Alcide De Gasperi, il presidente del Consiglio della ricostruzione e della ripresa dell’Italia, dopo i disastri del fascismo e della guerra: “Bisogna imparare a guardare più alle future generazioni che non alle prossime elezioni”. Rigenerazione, appunto.