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La scuola italiana funziona bene alle elementari, ma poi degrada, mettendo in crisi economia e società  

Sono bravi, i bambini e le bambine delle scuole elementari italiane. Bravi a leggere e capire bene quello che viene insegnato. Più dei loro coetanei tedeschi, francesi e spagnoli. Poi, però, man mano che si va avanti negli studi, le cose peggiorano. Sino ad arrivare a una situazione drammatica: uno studente su due arriva alla fine delle scuole superiori senza avere le competenze base in italiano, matematica e inglese.

Per dirla in sintesi: crescendo, si disimpara. Sino ad arrivare al paradosso per cui l’analfabetismo di ritorno (unito all’analfabetismo funzionale e cioè all’incapacità di usare in modo efficace le competenze di base – lettura, scrittura, calcolo – per muoversi autonomamente nella società contemporanea) tocca il 47%: quasi un italiano su due.

Eccola, la fotografia della crisi dell’istruzione e, dunque, della cittadinanza consapevole e della partecipazione democratica, dello sviluppo economico e della responsabilità sociale. La fotografia della crisi profonda dell’Italia.

Guardiamo i dati, innanzitutto. Secondo l’indagine Iea Pirls 2021, coordinata dal Boston College e presentata nei giorni scorsi all’Accademia dei Lincei a Roma, il 97% dei bambini italiani di nove anni sa leggere correttamente un testo e capirne il senso. L’indagine è stata condotta in 57 paesi al mondo, coinvolgendo 400mila studenti, 380mila genitori e 20mila insegnanti. I primi paesi sono, nell’ordine, Singapore (573 punti), Hong Kong, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia. Poi, ecco l’Italia, con un punteggio di 537, superiore a quello dei bambini di Germania (524), Spagna (521), Francia (514) e così via continuando. La media Ue è 527.

Per i bambini italiani, insomma, è un buon risultato. E a tenere alta la media contribuiscono anche in Italia più le bambine, con una differenza di 7 punti rispetto ai bambini (un dato su cui riflettere, insistendo su queste attitudini anche man mano che si va avanti negli studi, insistendo sulle materie Stem, quelle scientifiche, in cui le ragazze si ritrovano svantaggiate, per sgradevole eredità di disattenzioni e pregiudizi contro di loro).

A guardare meglio, comunque, si scopre che i problemi non mancano. C’è un arretramento di 11 punti rispetto a cinque anni fa (anche come conseguenza del “vuoto” d’apprendimento determinato dal Covid). E cresce ancora il peso dei divari territoriali, con il Mezzogiorno in affanno (36 punti di differenza con il Nord, in grave aumento rispetto ai 12 del 2006).

Bisogna insistere sulla qualità e la diffusione dell’istruzione, dunque. Spendendo bene i fondi del Pnrr destinati appunto, principalmente, ai giovani e alla loro formazione (“Next Generation”, si chiama appunto il Recovery Plan della Ue). E considerando la scuola, la ricerca scientifica, la cultura come cardini fondamentali della qualità della vita civile e sociale dell’Italia e del suo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, in una stagione dominata dalla “economia della conoscenza”.

Ecco un punto chiave: la competitività del sistema Paese è strettamente legata alla nostra capacità di innovazione. E l’innovazione, al tempo dell’Intelligenza Artificiale, comunque declinata, ha bisogno di formazione. Scolastica, naturalmente, dalle elementari all’università (e che le scuole elementari funzionino bene, come abbiamo visto, è un’ottima notizia). E post scolastica: una formazione che durerà tutta la vita (life long learning, si dice in gergo economico). “In un mondo in cui le competenze invecchiano rapidamente, la sfida per il mondo dell’educazione è insegnare a imparare”, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione e dell’Università e adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Imparare cosa? Recuperare la migliore tradizione italiana e insistere sulle sinergie tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, passione per la bellezza e gusto per l’innovazione tecnologica. La lezione greca e latina, aperta e dialettica. E l’intelligenza progettuale e critica di Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Leonardo, Galileo Galilei. Attenzione alla tradizione non come “custodia delle ceneri”ma come cardine per il cambiamento. Un sapere “politecnico”. Rileggere Primo Levi e i suoi straordinari “La chiave a stella” sulla meccanica e “Il sistema periodico” sulla chimica per averne riprova.

Un’indicazione di grande interesse, in questa direzione, arriva da Napoli, al centro di un progetto curato dalla Fondazione Agnelli, dal Politecnico di Torino e dalla Lego Foundation per insegnare matematica nelle scuole elementari, usando come stimolo il gioco con i mattoncini di Lego. E’ il progetto Matabì (matematica e abilità, appunto), con il coinvolgimento di 88 classi elementari in tutta Italia, 30 delle quali a Napoli. L’obiettivo: fare crescere la conoscenza scientifica e matematica, guardando soprattutto alle bambine, per cercare di evitare fin da subito i rischi del divario di genere (i laureati in discipline scientifiche, per mille abitanti tra i 20 e 29 anni, sono 13,3 ragazze e 19,4 ragazzi in Italia, contro una media Ue rispettivamente di 14,9 e 27,9 e una condizione della Germania di 13,2 e 34,7).

Un divario di conoscenza e di genere che incide profondamente sulla produttività dell’Italia. Un divario da ridurre drasticamente, proprio per rafforzare lo sviluppo economico e sociale del Paese, fondato su un “made in Italy” fatto da innovazione, tecnologie sofisticate, qualità e sostenibilità dei prodotti e servizi (meccatronica, automotive, chimica, farmaceutica, aerospazio, nautica, automazione industriale, robotica, gomma, oltre che i tradizionali settori dell’agroindustria, dell’abbigliamento e dell’arredo). E che ha nelle filiere specializzate e nelle imprese medie e medio-grandi (le nostre “multinazionali tascabili”) i propri asset di crescita. Asset che chiedono intraprendenza e creatività. Insomma, conoscenza.

(Foto Getty Images)

Sono bravi, i bambini e le bambine delle scuole elementari italiane. Bravi a leggere e capire bene quello che viene insegnato. Più dei loro coetanei tedeschi, francesi e spagnoli. Poi, però, man mano che si va avanti negli studi, le cose peggiorano. Sino ad arrivare a una situazione drammatica: uno studente su due arriva alla fine delle scuole superiori senza avere le competenze base in italiano, matematica e inglese.

Per dirla in sintesi: crescendo, si disimpara. Sino ad arrivare al paradosso per cui l’analfabetismo di ritorno (unito all’analfabetismo funzionale e cioè all’incapacità di usare in modo efficace le competenze di base – lettura, scrittura, calcolo – per muoversi autonomamente nella società contemporanea) tocca il 47%: quasi un italiano su due.

Eccola, la fotografia della crisi dell’istruzione e, dunque, della cittadinanza consapevole e della partecipazione democratica, dello sviluppo economico e della responsabilità sociale. La fotografia della crisi profonda dell’Italia.

Guardiamo i dati, innanzitutto. Secondo l’indagine Iea Pirls 2021, coordinata dal Boston College e presentata nei giorni scorsi all’Accademia dei Lincei a Roma, il 97% dei bambini italiani di nove anni sa leggere correttamente un testo e capirne il senso. L’indagine è stata condotta in 57 paesi al mondo, coinvolgendo 400mila studenti, 380mila genitori e 20mila insegnanti. I primi paesi sono, nell’ordine, Singapore (573 punti), Hong Kong, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia. Poi, ecco l’Italia, con un punteggio di 537, superiore a quello dei bambini di Germania (524), Spagna (521), Francia (514) e così via continuando. La media Ue è 527.

Per i bambini italiani, insomma, è un buon risultato. E a tenere alta la media contribuiscono anche in Italia più le bambine, con una differenza di 7 punti rispetto ai bambini (un dato su cui riflettere, insistendo su queste attitudini anche man mano che si va avanti negli studi, insistendo sulle materie Stem, quelle scientifiche, in cui le ragazze si ritrovano svantaggiate, per sgradevole eredità di disattenzioni e pregiudizi contro di loro).

A guardare meglio, comunque, si scopre che i problemi non mancano. C’è un arretramento di 11 punti rispetto a cinque anni fa (anche come conseguenza del “vuoto” d’apprendimento determinato dal Covid). E cresce ancora il peso dei divari territoriali, con il Mezzogiorno in affanno (36 punti di differenza con il Nord, in grave aumento rispetto ai 12 del 2006).

Bisogna insistere sulla qualità e la diffusione dell’istruzione, dunque. Spendendo bene i fondi del Pnrr destinati appunto, principalmente, ai giovani e alla loro formazione (“Next Generation”, si chiama appunto il Recovery Plan della Ue). E considerando la scuola, la ricerca scientifica, la cultura come cardini fondamentali della qualità della vita civile e sociale dell’Italia e del suo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, in una stagione dominata dalla “economia della conoscenza”.

Ecco un punto chiave: la competitività del sistema Paese è strettamente legata alla nostra capacità di innovazione. E l’innovazione, al tempo dell’Intelligenza Artificiale, comunque declinata, ha bisogno di formazione. Scolastica, naturalmente, dalle elementari all’università (e che le scuole elementari funzionino bene, come abbiamo visto, è un’ottima notizia). E post scolastica: una formazione che durerà tutta la vita (life long learning, si dice in gergo economico). “In un mondo in cui le competenze invecchiano rapidamente, la sfida per il mondo dell’educazione è insegnare a imparare”, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione e dell’Università e adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Imparare cosa? Recuperare la migliore tradizione italiana e insistere sulle sinergie tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, passione per la bellezza e gusto per l’innovazione tecnologica. La lezione greca e latina, aperta e dialettica. E l’intelligenza progettuale e critica di Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Leonardo, Galileo Galilei. Attenzione alla tradizione non come “custodia delle ceneri”ma come cardine per il cambiamento. Un sapere “politecnico”. Rileggere Primo Levi e i suoi straordinari “La chiave a stella” sulla meccanica e “Il sistema periodico” sulla chimica per averne riprova.

Un’indicazione di grande interesse, in questa direzione, arriva da Napoli, al centro di un progetto curato dalla Fondazione Agnelli, dal Politecnico di Torino e dalla Lego Foundation per insegnare matematica nelle scuole elementari, usando come stimolo il gioco con i mattoncini di Lego. E’ il progetto Matabì (matematica e abilità, appunto), con il coinvolgimento di 88 classi elementari in tutta Italia, 30 delle quali a Napoli. L’obiettivo: fare crescere la conoscenza scientifica e matematica, guardando soprattutto alle bambine, per cercare di evitare fin da subito i rischi del divario di genere (i laureati in discipline scientifiche, per mille abitanti tra i 20 e 29 anni, sono 13,3 ragazze e 19,4 ragazzi in Italia, contro una media Ue rispettivamente di 14,9 e 27,9 e una condizione della Germania di 13,2 e 34,7).

Un divario di conoscenza e di genere che incide profondamente sulla produttività dell’Italia. Un divario da ridurre drasticamente, proprio per rafforzare lo sviluppo economico e sociale del Paese, fondato su un “made in Italy” fatto da innovazione, tecnologie sofisticate, qualità e sostenibilità dei prodotti e servizi (meccatronica, automotive, chimica, farmaceutica, aerospazio, nautica, automazione industriale, robotica, gomma, oltre che i tradizionali settori dell’agroindustria, dell’abbigliamento e dell’arredo). E che ha nelle filiere specializzate e nelle imprese medie e medio-grandi (le nostre “multinazionali tascabili”) i propri asset di crescita. Asset che chiedono intraprendenza e creatività. Insomma, conoscenza.

(Foto Getty Images)

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