La sfida del Recovery Plan, per avviare lo sviluppo e rifare i conti con produttività e debito pubblico
Ecco un racconto attuale dell’Italia condensato in quattro numeri. Il primo numero è una percentuale, -10%, che indica la crescita negativa del Pil, il prodotto interno lordo, prevista per quest’anno (una media tra il -9% previsto dal governo, il -9.9% calcolato dalla Commissione Ue e il -10,6% indicato dal Fondo Monetario Internazionale). Il secondo è 209 miliardi, ovvero l’insieme della risorse che il nostro Paese potrebbe investire usando bene i fondi del Recovery Plan dell’Unione Europea. Il terzo numero è, di nuovo, una percentuale: 155,7% , e cioè il rapporto tra debito pubblico e Pil, raggiunto, secondo il governo, per recuperare i fondi per le misure utili a fronteggiare le emergenze economiche e sociali, tra pandemia e recessione (era al 135,7% nel 2019). Il quarto numero è -0,5% e cioè il calo della produttività dell’Italia nel 2019, un dato particolarmente grave, perché viene dopo un ventennio di produttività stagnante, mentre quella media degli altri paesi Ue cresce. Si segnala, ancora una volta, una pesante debolezza della nostra economia, che la crisi attuale amplifica e aggrava.
Vale la pena tenere guardare insieme questi quattro numeri nel momento in cui si ragiona sulle scelte necessarie per uscire dalla crisi e sulle riforme indispensabili da avviare per poter parlare di sviluppo e di miglioramento della condizione dei conti pubblici.
Siamo di fronte a una recessione senza precedenti, un po’ in tutto il mondo. In Italia, più pesante che altrove. E allarmante proprio nelle regioni del Nord in cui le dinamiche produttive (tra industria, servizi e turismo) trainavano in buona parte il resto del paese. La risposta non può stare né nell’illusione di tornare al “come eravamo” né nella continuazione all’infinito delle logiche del sussidio. Logiche indispensabili, ma solo nell’emergenza: assicurare reddito alle famiglie e alle persone più in difficoltà ed evitare il tracollo delle imprese. Ma, che a lungo andare, dannose, perché deprimono l’intraprendenza, comprimono le aspettative di miglioramento e abbattono la fiducia.
C’è, semmai, da puntare le risorse disponibili sull’innovazione, sul recupero radicale di produttività e sulle riforme in grado, finalmente, di modernizzare il sistema Paese. Rieccoci, dunque, alla sfida della produttività.
“Produttività, l’Italia scivola sotto zero”, titolava in prima pagina “Il Sole24Ore, pubblicando i dati resi noti dall’Istat ai primi di novembre. Per circa vent’anni, la produttività del Paese è stata vicina allo zero, mentre quella media europea cresceva dell’1,6%. Adesso, nel 2019, si va ancora più giù, calcolando sia la produttività del lavoro (valore aggiunto creato per ora lavorata) con un -0,4%, sia quella del capitale, -0,8%, sia la produttività totale dei fattori, -0,5%. Tra i motivi della stentata crescita del Paese, insomma, c’è il fatto che tutto ciò che facciamo non fa crescere la nostra ricchezza, deprimendo dunque redditi, occupazione, benessere. I dati Istat si fermano al 2019, prima della pandemia da Covid19 e della recessione. E dunque per quel che riguarda questo 2020, avremo una condizione ancora peggiore.
A guardare bene i dati, si scoprono fatti molto interessanti. Per esempio, che la produttività dell’industria è nettamente in crescita, in conseguenza degli investimenti in nuove tecnologie, macchinari, formazione delle persone in linea con la svolta hi tech e digitale. Resta invece molto bassa, tendente a zero o negativa, nel settore terziario, soprattutto nei servizi poco esposti alla concorrenza internazionale e in quelli del commercio minuto e dei servizi alla persona, con imprese molto piccole, poco e male organizzate, sottocapitalizzate e dunque fragili. Bassissima pure la produttività della pubblica amministrazione, che ostacola e deprime gli sforzi e i tentativi di crescita delle imprese migliori.
“La nostra produttività non cresce da vent’anni. Ed è il dato che riassume, impietosamente, tutti i nostri ritardi. Il valore aggiunto aumenta – e con esso salari e stipendi – se ci sono investimenti, tecnologie, innovazione e, soprattutto, un capitale umano meglio preparato”, scrive Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo libro, “Le cose che non ci diciamo”, Garzanti, una analisi lucida e un severo compendio delle scelte da fare e delle riforme indispensabili per rimettere in moto l’Italia ferita.
La ricetta su come uscire dalla crisi, appunto, è nota da tempo, ma purtroppo ancora inapplicata: investimenti massicci in innovazione, conoscenza, ricerca, trasferimento tecnologico. Scuola e formazione, dunque, in primo piano, per un capitale umano in grado di reggere e anzi guidare la sfida dell’innovazione. E poi apertura dei mercati a una maggiore concorrenza, che stimola la crescita. Riforma della pubblica amministrazione, nazionale e locale e delle struture fiscali e giudiziarie (“Per attrarre capitali dall’estero servono riforme, a cominciare dalla giustizia: con processi più veloci potrebbero arrivare fino a 170 miliardi”, nota “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 23 gennaio). E ancora: diffusione di una cultura d’impresa legata alla competizione, al premio al merito, al “bello e ben fatto”. All’innovazione, appunto.
Eccoci, allora, al Recovery Plan. Servono pochi, grandi progetti di investimento dei fondi europei su green economy e digital economy, sostenibilità e innovazione, cioé (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana). Le imprese innovative da fare crescere, il lavoro qualificato da stimolare, la formazione di lungo periodo da provuovere. E le infrastrutture, materiali e immateriali, per la qualità della vita e del lavoro. Pochi grandi progetti, ben costruiti, concordati con i vertici di Bruxelles e definiti negli strumenti, nel tempi, nei controlli di attuazione.
Una straordinaria scommessa politica, sociale, culturale e imprenditoriale, per una ripartenza che abbia il sapore di una vera e propria “rinascita”, un radicale cambio di paradigma segnato dalle scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Non un disperdersi di risorse in mille rivoli, accontentando nel breve periodo corporazioni e clientelke (un taglio dell’Iva di qua, un reddito di cittadinanza di là, un’assunzione di giù, un appalto di su e così via sgovernando). Ma una strategia di crescita, lungimirante, ambiziosa. Coivolgendo le forze sociali. Bem disponibili a una seria assunzione di responsabilità.
La risposta al tema del debito pubblico sta qui. Nella crescita. Senza pensare a improbabili “cancellazioni”. Ma sapendo bene che la Bce vigila ancora, tenendo bassi i tassi e assorbendo parte delle nuove emissioni nelle sua pancia capace e che la Ue potrà ridiscutere i paramenti delle convergenze economiche, ma solo di fronte a economie in ripresa e a conti pubblici in via di riequilibrio.
C’è, insomma, un nesso di lungo periodo tra conti pubblici in ordine e crescita stabile nei suoi fondamenti. Senza visioni ideologiche. Ma con senso di responsabilità. Verso chi? Soprattutto verso i nostri figli e nipoti, cui guardare con generosa intelligenza, visto che il debito è, appunto, sulle loro spalle. Next Generation Eu, dice appunto il Recovery Plan.
Ecco un racconto attuale dell’Italia condensato in quattro numeri. Il primo numero è una percentuale, -10%, che indica la crescita negativa del Pil, il prodotto interno lordo, prevista per quest’anno (una media tra il -9% previsto dal governo, il -9.9% calcolato dalla Commissione Ue e il -10,6% indicato dal Fondo Monetario Internazionale). Il secondo è 209 miliardi, ovvero l’insieme della risorse che il nostro Paese potrebbe investire usando bene i fondi del Recovery Plan dell’Unione Europea. Il terzo numero è, di nuovo, una percentuale: 155,7% , e cioè il rapporto tra debito pubblico e Pil, raggiunto, secondo il governo, per recuperare i fondi per le misure utili a fronteggiare le emergenze economiche e sociali, tra pandemia e recessione (era al 135,7% nel 2019). Il quarto numero è -0,5% e cioè il calo della produttività dell’Italia nel 2019, un dato particolarmente grave, perché viene dopo un ventennio di produttività stagnante, mentre quella media degli altri paesi Ue cresce. Si segnala, ancora una volta, una pesante debolezza della nostra economia, che la crisi attuale amplifica e aggrava.
Vale la pena tenere guardare insieme questi quattro numeri nel momento in cui si ragiona sulle scelte necessarie per uscire dalla crisi e sulle riforme indispensabili da avviare per poter parlare di sviluppo e di miglioramento della condizione dei conti pubblici.
Siamo di fronte a una recessione senza precedenti, un po’ in tutto il mondo. In Italia, più pesante che altrove. E allarmante proprio nelle regioni del Nord in cui le dinamiche produttive (tra industria, servizi e turismo) trainavano in buona parte il resto del paese. La risposta non può stare né nell’illusione di tornare al “come eravamo” né nella continuazione all’infinito delle logiche del sussidio. Logiche indispensabili, ma solo nell’emergenza: assicurare reddito alle famiglie e alle persone più in difficoltà ed evitare il tracollo delle imprese. Ma, che a lungo andare, dannose, perché deprimono l’intraprendenza, comprimono le aspettative di miglioramento e abbattono la fiducia.
C’è, semmai, da puntare le risorse disponibili sull’innovazione, sul recupero radicale di produttività e sulle riforme in grado, finalmente, di modernizzare il sistema Paese. Rieccoci, dunque, alla sfida della produttività.
“Produttività, l’Italia scivola sotto zero”, titolava in prima pagina “Il Sole24Ore, pubblicando i dati resi noti dall’Istat ai primi di novembre. Per circa vent’anni, la produttività del Paese è stata vicina allo zero, mentre quella media europea cresceva dell’1,6%. Adesso, nel 2019, si va ancora più giù, calcolando sia la produttività del lavoro (valore aggiunto creato per ora lavorata) con un -0,4%, sia quella del capitale, -0,8%, sia la produttività totale dei fattori, -0,5%. Tra i motivi della stentata crescita del Paese, insomma, c’è il fatto che tutto ciò che facciamo non fa crescere la nostra ricchezza, deprimendo dunque redditi, occupazione, benessere. I dati Istat si fermano al 2019, prima della pandemia da Covid19 e della recessione. E dunque per quel che riguarda questo 2020, avremo una condizione ancora peggiore.
A guardare bene i dati, si scoprono fatti molto interessanti. Per esempio, che la produttività dell’industria è nettamente in crescita, in conseguenza degli investimenti in nuove tecnologie, macchinari, formazione delle persone in linea con la svolta hi tech e digitale. Resta invece molto bassa, tendente a zero o negativa, nel settore terziario, soprattutto nei servizi poco esposti alla concorrenza internazionale e in quelli del commercio minuto e dei servizi alla persona, con imprese molto piccole, poco e male organizzate, sottocapitalizzate e dunque fragili. Bassissima pure la produttività della pubblica amministrazione, che ostacola e deprime gli sforzi e i tentativi di crescita delle imprese migliori.
“La nostra produttività non cresce da vent’anni. Ed è il dato che riassume, impietosamente, tutti i nostri ritardi. Il valore aggiunto aumenta – e con esso salari e stipendi – se ci sono investimenti, tecnologie, innovazione e, soprattutto, un capitale umano meglio preparato”, scrive Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo libro, “Le cose che non ci diciamo”, Garzanti, una analisi lucida e un severo compendio delle scelte da fare e delle riforme indispensabili per rimettere in moto l’Italia ferita.
La ricetta su come uscire dalla crisi, appunto, è nota da tempo, ma purtroppo ancora inapplicata: investimenti massicci in innovazione, conoscenza, ricerca, trasferimento tecnologico. Scuola e formazione, dunque, in primo piano, per un capitale umano in grado di reggere e anzi guidare la sfida dell’innovazione. E poi apertura dei mercati a una maggiore concorrenza, che stimola la crescita. Riforma della pubblica amministrazione, nazionale e locale e delle struture fiscali e giudiziarie (“Per attrarre capitali dall’estero servono riforme, a cominciare dalla giustizia: con processi più veloci potrebbero arrivare fino a 170 miliardi”, nota “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 23 gennaio). E ancora: diffusione di una cultura d’impresa legata alla competizione, al premio al merito, al “bello e ben fatto”. All’innovazione, appunto.
Eccoci, allora, al Recovery Plan. Servono pochi, grandi progetti di investimento dei fondi europei su green economy e digital economy, sostenibilità e innovazione, cioé (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana). Le imprese innovative da fare crescere, il lavoro qualificato da stimolare, la formazione di lungo periodo da provuovere. E le infrastrutture, materiali e immateriali, per la qualità della vita e del lavoro. Pochi grandi progetti, ben costruiti, concordati con i vertici di Bruxelles e definiti negli strumenti, nel tempi, nei controlli di attuazione.
Una straordinaria scommessa politica, sociale, culturale e imprenditoriale, per una ripartenza che abbia il sapore di una vera e propria “rinascita”, un radicale cambio di paradigma segnato dalle scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Non un disperdersi di risorse in mille rivoli, accontentando nel breve periodo corporazioni e clientelke (un taglio dell’Iva di qua, un reddito di cittadinanza di là, un’assunzione di giù, un appalto di su e così via sgovernando). Ma una strategia di crescita, lungimirante, ambiziosa. Coivolgendo le forze sociali. Bem disponibili a una seria assunzione di responsabilità.
La risposta al tema del debito pubblico sta qui. Nella crescita. Senza pensare a improbabili “cancellazioni”. Ma sapendo bene che la Bce vigila ancora, tenendo bassi i tassi e assorbendo parte delle nuove emissioni nelle sua pancia capace e che la Ue potrà ridiscutere i paramenti delle convergenze economiche, ma solo di fronte a economie in ripresa e a conti pubblici in via di riequilibrio.
C’è, insomma, un nesso di lungo periodo tra conti pubblici in ordine e crescita stabile nei suoi fondamenti. Senza visioni ideologiche. Ma con senso di responsabilità. Verso chi? Soprattutto verso i nostri figli e nipoti, cui guardare con generosa intelligenza, visto che il debito è, appunto, sulle loro spalle. Next Generation Eu, dice appunto il Recovery Plan.