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L’appello per salvare l’umanesimo sta a cuore alle imprese

Umanesimo da difendere, contro i rischi della “crescente tecnicizzazione dell’insegnamento” e delle “visioni aziendalistiche” dell’università. “L’appello per le scienze umane”, firmato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, è pubblicato sull’ultimo numero della prestigiosa rivista “Il Mulino”, diretta da Michele Salvati e appena arrivata in edicola. E pone la questione delle radici “classiche” della cultura nazionale, facendo leva anche sulla forza delle firma di tre grandi intellettuali, molto diversi per competenze (un letterato, un filosofo e uno storico) e per orientamenti politici e culturali, ma in piena sintonia sui valori  dell’identità nazionale e dunque del futuro del Paese. E’ un appello essenziale. Che rivendica l’importanza della lunga condivisione della cultura storica, letteraria e filosofica, da Dante a Manzoni, da Machiavelli a Vico, come base stessa della coesione nazionale e come patrimonio su cui si fonda la relazione tra cultura e società, tra cittadinanza e impegno politico, tra presente e futuro, senza il quale “un Paese è condannato alla regressione”. I tre studiosi temono “la disintegrazione dei saperi dell’uomo così come sono stati elaborati in secoli di storia italiana e non solo”, i tecnicismi in cui l’unico metro di giudizio del merito è “l’utile”, l’indebolimento “dello sguardo critico sulla realtà” e l’asservimento a modeli sociali fondati sulla “omologazione ai parametri globalizzati dell’attuale idolatria ideologica del mercato”.

L’appello dei tre studiosi va preso in seria considerazione, anche da chi si occupa di cultura d’impresa ed è convinto che nel contesto delle attività culturali vadano perfettamente comprese scienza e tecnologia (vedi le riflessioni su “tecnica ed etica” secondo la lezione di Karl Popper, nel blog della scorsa settimana) , manifattura e sapienza artigiana, ricerca libera e ricerca applicata. Cultura “politecnica”, appunto. Proprio secondo la lezione dell’umanesimo che non separava culture ma sapeva fare vivere in piena sintonia la bellezza della pittura di Piero della Francesca con la sua sofisticata sapienza di matematico.

Umanesimo come sintesi. Una attitudine tipicamente italiana, un nostro “classico”, da valorizzare e rivendicare.

La polemica dei tre studiosi sembra prendere di mira, semmai, una deriva tecnicistica che nulla ha a che fare con l’essenzialità della scienza e dell’approfondimento, nei vari gradi della scuola italiana, di una solida, robusta e documentata cultura scientifica. La deriva, cioè, di chi superficialmente pensava che i valori della scuola italiana dovessero essere riassunti nelle “tre I” (inglese, informatica, imprese) senza capire né i valori dell’originalità della lingua né l’importanza di una educazione che, tra materie umanistiche e materie scientifiche, educhi innanzitutto al pensiero approfondito, critico, libero e responsabile.

Si torna dunque all’umanesimo. Anche per quel che riguarda i tratti specifici dell’interesse delle imprese e dei valori del mercato. La Grande Crisi ha insegnato a  diffidare del cosiddetto “mercatismo” (il predominio ideologico del mercato) e a dare invece peso ai valori e alle regole (e dunque ai controlli e alle sanzioni) senza le quali il mercato degrada in far west. E d’altronde proprio di buone relazioni  è intessuto il mercato, come luogo degli scambi, non solo di merci e servizi, ma anche di culture, di sguardi del mondo e sul mondo, di prodotti che riassumono in sé, come tratto originale e distintivo e quindi competitivo, le caratteristiche e i valori di chi li ha immaginati, progettati, prodotti, messi in commercio.

Nei politecnici italiani e francesi, scuole di alta qualità, oltre alle materie legate a scienze e tecnologie, si insegna ad avere dimestichezza con la filosofia, il teatro, la scrittura. E un bravo ingegnere, di cui l’impresa ha bisogno, deve sapere fare i conti con le tecniche, ma anche con gli strumenti culturali più sofisticati per decrittare tutte le complessità che un mondo mobile e cangiante fa arrivare alla ribalta dell’attualità.

Benvenuto, insomma, il dibattito sui pericoli che corre l’umanesimo. E sulle risposte da dare. Non solo dai fautori delle scienze umane. Ma da chiunque abbia a cuore le questioni della civiltà, della libertà, dello sviluppo ben equilibrato. Uno sviluppo, insomma, umano.

Umanesimo da difendere, contro i rischi della “crescente tecnicizzazione dell’insegnamento” e delle “visioni aziendalistiche” dell’università. “L’appello per le scienze umane”, firmato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, è pubblicato sull’ultimo numero della prestigiosa rivista “Il Mulino”, diretta da Michele Salvati e appena arrivata in edicola. E pone la questione delle radici “classiche” della cultura nazionale, facendo leva anche sulla forza delle firma di tre grandi intellettuali, molto diversi per competenze (un letterato, un filosofo e uno storico) e per orientamenti politici e culturali, ma in piena sintonia sui valori  dell’identità nazionale e dunque del futuro del Paese. E’ un appello essenziale. Che rivendica l’importanza della lunga condivisione della cultura storica, letteraria e filosofica, da Dante a Manzoni, da Machiavelli a Vico, come base stessa della coesione nazionale e come patrimonio su cui si fonda la relazione tra cultura e società, tra cittadinanza e impegno politico, tra presente e futuro, senza il quale “un Paese è condannato alla regressione”. I tre studiosi temono “la disintegrazione dei saperi dell’uomo così come sono stati elaborati in secoli di storia italiana e non solo”, i tecnicismi in cui l’unico metro di giudizio del merito è “l’utile”, l’indebolimento “dello sguardo critico sulla realtà” e l’asservimento a modeli sociali fondati sulla “omologazione ai parametri globalizzati dell’attuale idolatria ideologica del mercato”.

L’appello dei tre studiosi va preso in seria considerazione, anche da chi si occupa di cultura d’impresa ed è convinto che nel contesto delle attività culturali vadano perfettamente comprese scienza e tecnologia (vedi le riflessioni su “tecnica ed etica” secondo la lezione di Karl Popper, nel blog della scorsa settimana) , manifattura e sapienza artigiana, ricerca libera e ricerca applicata. Cultura “politecnica”, appunto. Proprio secondo la lezione dell’umanesimo che non separava culture ma sapeva fare vivere in piena sintonia la bellezza della pittura di Piero della Francesca con la sua sofisticata sapienza di matematico.

Umanesimo come sintesi. Una attitudine tipicamente italiana, un nostro “classico”, da valorizzare e rivendicare.

La polemica dei tre studiosi sembra prendere di mira, semmai, una deriva tecnicistica che nulla ha a che fare con l’essenzialità della scienza e dell’approfondimento, nei vari gradi della scuola italiana, di una solida, robusta e documentata cultura scientifica. La deriva, cioè, di chi superficialmente pensava che i valori della scuola italiana dovessero essere riassunti nelle “tre I” (inglese, informatica, imprese) senza capire né i valori dell’originalità della lingua né l’importanza di una educazione che, tra materie umanistiche e materie scientifiche, educhi innanzitutto al pensiero approfondito, critico, libero e responsabile.

Si torna dunque all’umanesimo. Anche per quel che riguarda i tratti specifici dell’interesse delle imprese e dei valori del mercato. La Grande Crisi ha insegnato a  diffidare del cosiddetto “mercatismo” (il predominio ideologico del mercato) e a dare invece peso ai valori e alle regole (e dunque ai controlli e alle sanzioni) senza le quali il mercato degrada in far west. E d’altronde proprio di buone relazioni  è intessuto il mercato, come luogo degli scambi, non solo di merci e servizi, ma anche di culture, di sguardi del mondo e sul mondo, di prodotti che riassumono in sé, come tratto originale e distintivo e quindi competitivo, le caratteristiche e i valori di chi li ha immaginati, progettati, prodotti, messi in commercio.

Nei politecnici italiani e francesi, scuole di alta qualità, oltre alle materie legate a scienze e tecnologie, si insegna ad avere dimestichezza con la filosofia, il teatro, la scrittura. E un bravo ingegnere, di cui l’impresa ha bisogno, deve sapere fare i conti con le tecniche, ma anche con gli strumenti culturali più sofisticati per decrittare tutte le complessità che un mondo mobile e cangiante fa arrivare alla ribalta dell’attualità.

Benvenuto, insomma, il dibattito sui pericoli che corre l’umanesimo. E sulle risposte da dare. Non solo dai fautori delle scienze umane. Ma da chiunque abbia a cuore le questioni della civiltà, della libertà, dello sviluppo ben equilibrato. Uno sviluppo, insomma, umano.

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