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Le clamorose promesse elettorali, le incompetenze e il fallimento storico dell’idea della cuoca di Lenin

E’ una campagna elettorale segnata da clamorose promesse, numeri buttati lì a casaccio, propaganda che fa disinvoltamente leva su pur legittimi stati d’animo di preoccupazione e paura. Ecco quel che c’è sotto gli occhi di tutti, in una condizione di discorso pubblico approssimativo e denso di incompetenze. Gli osservatori e i cronisti della politica sanno bene che proprio le campagne elettorali, segnate da affannose ricerche di consenso, non sono mai state tra le pagine migliori della struttura stessa della democrazia liberale. Ma, come sempre, c’è modo e modo… E sta nella responsabilità di chi è, o pretende di diventare, “classe dirigente” e forza di governo, non allontanare troppo il piano della propaganda e delle promesse da quello dei programmi di governo concreti e realizzabili. Pena la crisi, nel tempo, del cardine stesso della democrazia: la fiducia.

Ecco due parole chiave: senso di responsabilità e costruzione di fiducia. Senza, c’è solo crisi.

L’incompetenza di chi vota è “l’inevitabile tributo da pagare per avere la democrazia e godere dei suoi vantaggi”, ha ben spiegato un lucido studioso della politica, Angelo Panebianco (“Corriere della Sera”, 18 gennaio). L’incompetenza del votato, invece, è “una iattura”. E’ vero, Lenin aveva teorizzato, al momento della nascita dell’Urss, giusto un secolo fa, che il governo dei Soviet era per sua natura così efficiente e perfetto che avrebbe potuto essere presieduto anche da una cuoca. Ma la storia non gli ha proprio dato ragione. Né una cuoca ha mai governato né quel governo ha ben funzionato. Guardarsene, dunque, dall’idea di tornare all’incompetenza della cuoca di Lenin.

Meglio, invece, provare a discutere con intelligenza e lungimiranza sulle questioni economiche vere che ci sono sul tappeto. Sul ruolo dell’Italia in Europa, per esempio, in tempi in cui l’asse tra Francia e Germania prova a ridefinire gli equilibri di guida della Ue, con una strategia a “due velocità”. L’Italia starà dentro o si ritroverà ai margini? E quali ne sarebbero le conseguenze? Nazionalismi, sovranismi e propaganda anti-euro dove ci portano?

Una delle partite politiche essenziali, in questo scenario, riguarda il debito pubblico da ridurre, come ci chiede giustamente la Commissione Ue (il Pil cresce, ma le politiche di contenimento e rientro dal debito, anche durante un ciclo economico favorevole, non fanno sufficienti passi avanti). E le riforme da avviare o rafforzare: meno spesa pubblica corrente, maggiori investimenti in infrastrutture, innovazione, sviluppo.

Di debito pubblico, però, in campagna elettorale si parla pochissimo (nonostante le autorevoli sollecitazioni di Carlo Cottarelli, un economista di rilievo internazionale che conosce bene il tema: ha costituito un “Osservatorio” all’Università Cattolica di Milano e ha appena pubblicato “I sette peccati capitali dell’economia italiana”, Feltrinelli: evasione fiscale, corruzione, eccesso di burocrazia, lentezza della giustizia, crollo demografico, divario tra Nord e Sud, difficoltà a convivere con l’euro). Ma quel debito è un macigno sul futuro, un freno alla crescita, una ferita per il destino delle giovani generazioni.

Non se ne parla, appunto. Abbondano, invece, le promesse di pensioni più alte e facili (abolendo la riforma Fornero), di redditi di cittadinanza, di finanziamenti e incentivi e di generici e generali tagli di tasse, senza però mai spiegare bene, agli elettori, i costi degli interventi e i modi per trovare le risorse finanziarie per farvi fronte. Forse aumentando il deficit e il debito pubblico?

Si parla poco anche di impresa, innovazione, lavoro produttivo, trasformazione digitale della manifattura, anche se è proprio dall’impresa che nascono ricchezza e lavoro, non certo dalla sovrabbondanza della spesa pubblica. “L’impresa rimossa dai partiti”, nota Dario Di Vico, che conosce bene attitudini e fragilità delle impese italiane (“Corriere della Sera”, 13 febbraio). E aggiunge: “La maggiore responsabilità di questa rimozione ricade sui segretari che, confezionando le liste, si sono ben guardati di inserire, in quantità consistente, personalità competenti dell’industria e del lavoro”. Dunque “il tasso di conoscenza dei problemi dell’economia moderna di cui potrà godere il prossimo Parlamento si prevede ai minimi storici”.

Scarsa competenza, troppa propaganda. E, di propaganda in propaganda, c’è chi propone di abolire il Jobs Act, che ha migliorato il funzionamento del mercato del lavoro e stimolato occupazione. E chi, per “proteggere” le piccole imprese in crisi, parla di “dazi” sulle merci in ingresso sul nostro mercato, senza pensare però ai danni rilevanti per un’industria italiana fortemente orientata all’export e che morirebbe non di concorrenza a basso costo ma di chiusura sul povero mercato nazionale. E c’è ancora chi annuncia una “tassa sui robot”, idea bizzarra nata tempo fa da una battuta infelice di Bill Gates, ripresa da un paio di studiosi in vena di popolarità e adesso appunto rilanciata in campagna elettorale e giustamente condannata da Carlo Calenda, competente ministro dello Sviluppo economico: un’idea “suicida”.

L’Italia, per tenere in piedi e rendere competitiva la sua industria manifatturiera (con tutto il sistema dei servizi collegati) ha bisogno di stimolare, anche fiscalmente, l’innovazione e la trasformazione digital verso “Industria4.0”, come stanno facendo da qualche tempo i governi. Altro, appunto, che “tassare robot” (discorso ben diverso è affrontare i cambiamenti radicali nel mondo del lavoro, con seri provvedimenti di formazione e sostegno sociale su mercati professionali in trasformazione).

Vanità, nel senso di parole vaghe che sfidano l’aria. E incompetenze. Tutto ciò di cui l’economia, in tempi di fragile ripresa, non ha alcun bisogno. Confindustria, per riportare al centro dell’attenzione le questioni della crescita economica, più dinamica e inclusiva, ha convocato, per venerdì 16, le “Assise Generali” a Verona su temi come “Italia più semplice ed efficiente; scuola, formazione, lavoro e inclusione dei giovani; investimenti e sostenibilità ambientale e sociale; stimoli all’impresa che cambia; fisco a supporto di investimenti e crescita; Europa come miglior luogo per fare impresa”. Analisi, dati, fatti, progetti. Su cui chiamare i politici a prendere impegni con senso di responsabilità, a indicare prospettive. Con chiarezza e, si spera, credibilità e competenza.

E’ una campagna elettorale segnata da clamorose promesse, numeri buttati lì a casaccio, propaganda che fa disinvoltamente leva su pur legittimi stati d’animo di preoccupazione e paura. Ecco quel che c’è sotto gli occhi di tutti, in una condizione di discorso pubblico approssimativo e denso di incompetenze. Gli osservatori e i cronisti della politica sanno bene che proprio le campagne elettorali, segnate da affannose ricerche di consenso, non sono mai state tra le pagine migliori della struttura stessa della democrazia liberale. Ma, come sempre, c’è modo e modo… E sta nella responsabilità di chi è, o pretende di diventare, “classe dirigente” e forza di governo, non allontanare troppo il piano della propaganda e delle promesse da quello dei programmi di governo concreti e realizzabili. Pena la crisi, nel tempo, del cardine stesso della democrazia: la fiducia.

Ecco due parole chiave: senso di responsabilità e costruzione di fiducia. Senza, c’è solo crisi.

L’incompetenza di chi vota è “l’inevitabile tributo da pagare per avere la democrazia e godere dei suoi vantaggi”, ha ben spiegato un lucido studioso della politica, Angelo Panebianco (“Corriere della Sera”, 18 gennaio). L’incompetenza del votato, invece, è “una iattura”. E’ vero, Lenin aveva teorizzato, al momento della nascita dell’Urss, giusto un secolo fa, che il governo dei Soviet era per sua natura così efficiente e perfetto che avrebbe potuto essere presieduto anche da una cuoca. Ma la storia non gli ha proprio dato ragione. Né una cuoca ha mai governato né quel governo ha ben funzionato. Guardarsene, dunque, dall’idea di tornare all’incompetenza della cuoca di Lenin.

Meglio, invece, provare a discutere con intelligenza e lungimiranza sulle questioni economiche vere che ci sono sul tappeto. Sul ruolo dell’Italia in Europa, per esempio, in tempi in cui l’asse tra Francia e Germania prova a ridefinire gli equilibri di guida della Ue, con una strategia a “due velocità”. L’Italia starà dentro o si ritroverà ai margini? E quali ne sarebbero le conseguenze? Nazionalismi, sovranismi e propaganda anti-euro dove ci portano?

Una delle partite politiche essenziali, in questo scenario, riguarda il debito pubblico da ridurre, come ci chiede giustamente la Commissione Ue (il Pil cresce, ma le politiche di contenimento e rientro dal debito, anche durante un ciclo economico favorevole, non fanno sufficienti passi avanti). E le riforme da avviare o rafforzare: meno spesa pubblica corrente, maggiori investimenti in infrastrutture, innovazione, sviluppo.

Di debito pubblico, però, in campagna elettorale si parla pochissimo (nonostante le autorevoli sollecitazioni di Carlo Cottarelli, un economista di rilievo internazionale che conosce bene il tema: ha costituito un “Osservatorio” all’Università Cattolica di Milano e ha appena pubblicato “I sette peccati capitali dell’economia italiana”, Feltrinelli: evasione fiscale, corruzione, eccesso di burocrazia, lentezza della giustizia, crollo demografico, divario tra Nord e Sud, difficoltà a convivere con l’euro). Ma quel debito è un macigno sul futuro, un freno alla crescita, una ferita per il destino delle giovani generazioni.

Non se ne parla, appunto. Abbondano, invece, le promesse di pensioni più alte e facili (abolendo la riforma Fornero), di redditi di cittadinanza, di finanziamenti e incentivi e di generici e generali tagli di tasse, senza però mai spiegare bene, agli elettori, i costi degli interventi e i modi per trovare le risorse finanziarie per farvi fronte. Forse aumentando il deficit e il debito pubblico?

Si parla poco anche di impresa, innovazione, lavoro produttivo, trasformazione digitale della manifattura, anche se è proprio dall’impresa che nascono ricchezza e lavoro, non certo dalla sovrabbondanza della spesa pubblica. “L’impresa rimossa dai partiti”, nota Dario Di Vico, che conosce bene attitudini e fragilità delle impese italiane (“Corriere della Sera”, 13 febbraio). E aggiunge: “La maggiore responsabilità di questa rimozione ricade sui segretari che, confezionando le liste, si sono ben guardati di inserire, in quantità consistente, personalità competenti dell’industria e del lavoro”. Dunque “il tasso di conoscenza dei problemi dell’economia moderna di cui potrà godere il prossimo Parlamento si prevede ai minimi storici”.

Scarsa competenza, troppa propaganda. E, di propaganda in propaganda, c’è chi propone di abolire il Jobs Act, che ha migliorato il funzionamento del mercato del lavoro e stimolato occupazione. E chi, per “proteggere” le piccole imprese in crisi, parla di “dazi” sulle merci in ingresso sul nostro mercato, senza pensare però ai danni rilevanti per un’industria italiana fortemente orientata all’export e che morirebbe non di concorrenza a basso costo ma di chiusura sul povero mercato nazionale. E c’è ancora chi annuncia una “tassa sui robot”, idea bizzarra nata tempo fa da una battuta infelice di Bill Gates, ripresa da un paio di studiosi in vena di popolarità e adesso appunto rilanciata in campagna elettorale e giustamente condannata da Carlo Calenda, competente ministro dello Sviluppo economico: un’idea “suicida”.

L’Italia, per tenere in piedi e rendere competitiva la sua industria manifatturiera (con tutto il sistema dei servizi collegati) ha bisogno di stimolare, anche fiscalmente, l’innovazione e la trasformazione digital verso “Industria4.0”, come stanno facendo da qualche tempo i governi. Altro, appunto, che “tassare robot” (discorso ben diverso è affrontare i cambiamenti radicali nel mondo del lavoro, con seri provvedimenti di formazione e sostegno sociale su mercati professionali in trasformazione).

Vanità, nel senso di parole vaghe che sfidano l’aria. E incompetenze. Tutto ciò di cui l’economia, in tempi di fragile ripresa, non ha alcun bisogno. Confindustria, per riportare al centro dell’attenzione le questioni della crescita economica, più dinamica e inclusiva, ha convocato, per venerdì 16, le “Assise Generali” a Verona su temi come “Italia più semplice ed efficiente; scuola, formazione, lavoro e inclusione dei giovani; investimenti e sostenibilità ambientale e sociale; stimoli all’impresa che cambia; fisco a supporto di investimenti e crescita; Europa come miglior luogo per fare impresa”. Analisi, dati, fatti, progetti. Su cui chiamare i politici a prendere impegni con senso di responsabilità, a indicare prospettive. Con chiarezza e, si spera, credibilità e competenza.

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