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Le “corporate university”, istruzione e innovazione per migliorare il lavoro

Le imprese cercano competenze che pochi lavoratori hanno. E dunque, per colmare il gap, con grande pragmatismo, la formazione la fanno al loro interno. Anche con le “corporate university”, una tendenza già molto diffusa negli Usa e da tempo in crescita pure in Italia.

A ribadire  la distanza tra formazione (nelle scuole professionali e nelle università) e lavoro sono arrivate di recente (Il Sole24Ore, 21 gennaio) anche le statistiche del Rapporto 2014 dell’Ilo, l’Istituto Internazionale del Lavoro, che documenta come la ripresa economica in corso  non stia creando rapidamente nuova occupazione. Il titolo è chiaro: “Rischio di ripresa senza lavoro”, con un aumento dei numero dei disoccupati in tutto il mondo. In Italia, in particolare, il fenomeno resterà a lungo grave: il tasso di disoccupazione dal 10,7% del 2012 è salito al 12,2% nel 2013 e andrà al 12,6% nel 2014 e al 12,7% nel 2015. Il tasso di disoccupazione era del 6,1%, nel 2007, prima che esplodesse la Grande Crisi. Posti di lavoro cancellati, dunque. Competenze bruciate, man mano che chiudevano imprese industriali e dei servizi. Opportunità azzerate per parte larga delle nuove generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro. Anche perché proprio nel corso degli anni Duemila, sono radicalmente cambiati molti paradigmi di produzioni e prodotti (secondo la mutazione di stili di vita e di consumi legati appunto alla crisi) ma non si sono adeguatamente modificate le politiche di formazione e di adeguamento al lavoro. Carenze culturali. Ma anche scarsità di investimenti. Secondo l’Ilo, i paesi Ocse dovrebbero destinare almeno  l’1,1% del loro Pil a finanziare attività per migliorare l’incontro tra domanda e offerta, mentre si fermano allo 0,6% (tranne parecchie  nazioni del Nord Europa e cioè Germania e Olanda, Francia, Austria, Belgio, Finlandia  e Danimarca, che superano la soglia minima indicata dall’Ilo). La sintesi: poca formazione, basse competenze,  zero lavoro.

I dati dell’Ilo confermano una tendenza evidente, in Italia, anche secondo una ricerca presentata dalla McKinsey a metà gennaio a Bruxelles, “Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione”, in cui emerge, proprio per il nostro Paese, un dato allarmante, il peggiore tra i paesi Ue esaminati: il 47% di chi cerca personale dichiara di non trovare le competenze richieste. Quel 47% significa che un’impresa su due vede frustrati i suoi programmi di crescita per carenze di mano d’opera, per limiti culturali e professionali specifici, per assenza di strumenti utili alle aziende pronte ad assumere (un altro dato: solo il 23% degli aspiranti dipendenti ha una conoscenza dell’inglese tale da soddisfare le esigenze dell’impresa interessata).

Handicap Italia, dunque. Gravissimo proprio in una stagione in cui il principale asset competitivo è legato al capitale umano, alle competenze evolute necessarie all’”economia della conoscenza” . I provvedimenti messi a punto dal governo, secondo indicazioni Ue, per favorire formazione professionale e stage, cercano di dare prime risposte al divario. Lentamente, purtroppo.

Le imprese, intanto, si danno da fare. Con le “corporate university”, appunto. Istruzione e innovazione per creare e migliorare il lavoro. Rispondendo a due esigenze. La formazione dei neo-assunti. E la “formazione continua” di quadri e manager, per tenere il passo con le trasformazioni che investono processi, prodotti, mercati. Il fenomeno, diffuso negli Usa (erano più di mille nel 1997, si prevede arrivino a 4mila nel 2015), sta prendendo piede anche in Italia, dove (racconta “La Stampa”, 20 gennaio) la Assoknowledge Confindustria ha già contate 39 “corporate university”, dalle grandi imprese (Eni, Enel, Pirelli, Ferrero, Barilla, Generali, etc. alle medie, come la Landi Renzo e la Lombardini, gioielli dell’automotive e della metalmeccanica).

Cosa vi si insegna? Materie tecniche, legate strettamente alla produzione. E temi generali, dalla leadership al problem solving, dall’economia  al team building, dalla comunicazione alle regole che riguardano l’ambiente e la sicurezza. Strategia di miglioramento della cultura d’impresa. E costruzione di una mano d’opera qualificata non solo sui processi produttivi, ma soprattutto sulle capacità adatte ad affrontare e gestire mondi in rapido mutamento. Una formazione alla complessità e alla prontezza a trasformare le scelte in operatività nei vari processi aziendali. Nelle “professional academies” e nella “school of management” di Pirelli (in cui buona parte della formazione cammina per linee interne, dopo aver “formato i formatori”), sia per i “blue collars” qualificati che per i quadri e i giovani manager, si insiste sulla qualità e la sicurezza, sui processi produttivi e sui prodotti, sulla supply chain, su finanza e gestione, ma anche sul “driving the change”, sulla leadership, sul “diversity management” (essenziale in una grande multinazionale), sulla creazione di valore e sulla riaffermazione e lo sviluppo dei valori tipici dell’esperienza Pirelli, maturata nel corso di una lunga storia e via via adattata ai cambiamenti. Una impostazione originale, rispetto ad altre corporate university. E tale da essere uno dei punti di riferimento per un dibattito aperto in Confindustria su come innovare anche i percorsi universitari, per venire incontro ai bisogni formativi delle imprese.

La sintesi è chiara. Memoria. E attenzione costante per l’innovazione, tecnologica e culturale. Formare persone. E dotarle di strumenti per operare nei tempi nuovi.  D’altronde, non è proprio così che si fa scuola?

Le imprese cercano competenze che pochi lavoratori hanno. E dunque, per colmare il gap, con grande pragmatismo, la formazione la fanno al loro interno. Anche con le “corporate university”, una tendenza già molto diffusa negli Usa e da tempo in crescita pure in Italia.

A ribadire  la distanza tra formazione (nelle scuole professionali e nelle università) e lavoro sono arrivate di recente (Il Sole24Ore, 21 gennaio) anche le statistiche del Rapporto 2014 dell’Ilo, l’Istituto Internazionale del Lavoro, che documenta come la ripresa economica in corso  non stia creando rapidamente nuova occupazione. Il titolo è chiaro: “Rischio di ripresa senza lavoro”, con un aumento dei numero dei disoccupati in tutto il mondo. In Italia, in particolare, il fenomeno resterà a lungo grave: il tasso di disoccupazione dal 10,7% del 2012 è salito al 12,2% nel 2013 e andrà al 12,6% nel 2014 e al 12,7% nel 2015. Il tasso di disoccupazione era del 6,1%, nel 2007, prima che esplodesse la Grande Crisi. Posti di lavoro cancellati, dunque. Competenze bruciate, man mano che chiudevano imprese industriali e dei servizi. Opportunità azzerate per parte larga delle nuove generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro. Anche perché proprio nel corso degli anni Duemila, sono radicalmente cambiati molti paradigmi di produzioni e prodotti (secondo la mutazione di stili di vita e di consumi legati appunto alla crisi) ma non si sono adeguatamente modificate le politiche di formazione e di adeguamento al lavoro. Carenze culturali. Ma anche scarsità di investimenti. Secondo l’Ilo, i paesi Ocse dovrebbero destinare almeno  l’1,1% del loro Pil a finanziare attività per migliorare l’incontro tra domanda e offerta, mentre si fermano allo 0,6% (tranne parecchie  nazioni del Nord Europa e cioè Germania e Olanda, Francia, Austria, Belgio, Finlandia  e Danimarca, che superano la soglia minima indicata dall’Ilo). La sintesi: poca formazione, basse competenze,  zero lavoro.

I dati dell’Ilo confermano una tendenza evidente, in Italia, anche secondo una ricerca presentata dalla McKinsey a metà gennaio a Bruxelles, “Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione”, in cui emerge, proprio per il nostro Paese, un dato allarmante, il peggiore tra i paesi Ue esaminati: il 47% di chi cerca personale dichiara di non trovare le competenze richieste. Quel 47% significa che un’impresa su due vede frustrati i suoi programmi di crescita per carenze di mano d’opera, per limiti culturali e professionali specifici, per assenza di strumenti utili alle aziende pronte ad assumere (un altro dato: solo il 23% degli aspiranti dipendenti ha una conoscenza dell’inglese tale da soddisfare le esigenze dell’impresa interessata).

Handicap Italia, dunque. Gravissimo proprio in una stagione in cui il principale asset competitivo è legato al capitale umano, alle competenze evolute necessarie all’”economia della conoscenza” . I provvedimenti messi a punto dal governo, secondo indicazioni Ue, per favorire formazione professionale e stage, cercano di dare prime risposte al divario. Lentamente, purtroppo.

Le imprese, intanto, si danno da fare. Con le “corporate university”, appunto. Istruzione e innovazione per creare e migliorare il lavoro. Rispondendo a due esigenze. La formazione dei neo-assunti. E la “formazione continua” di quadri e manager, per tenere il passo con le trasformazioni che investono processi, prodotti, mercati. Il fenomeno, diffuso negli Usa (erano più di mille nel 1997, si prevede arrivino a 4mila nel 2015), sta prendendo piede anche in Italia, dove (racconta “La Stampa”, 20 gennaio) la Assoknowledge Confindustria ha già contate 39 “corporate university”, dalle grandi imprese (Eni, Enel, Pirelli, Ferrero, Barilla, Generali, etc. alle medie, come la Landi Renzo e la Lombardini, gioielli dell’automotive e della metalmeccanica).

Cosa vi si insegna? Materie tecniche, legate strettamente alla produzione. E temi generali, dalla leadership al problem solving, dall’economia  al team building, dalla comunicazione alle regole che riguardano l’ambiente e la sicurezza. Strategia di miglioramento della cultura d’impresa. E costruzione di una mano d’opera qualificata non solo sui processi produttivi, ma soprattutto sulle capacità adatte ad affrontare e gestire mondi in rapido mutamento. Una formazione alla complessità e alla prontezza a trasformare le scelte in operatività nei vari processi aziendali. Nelle “professional academies” e nella “school of management” di Pirelli (in cui buona parte della formazione cammina per linee interne, dopo aver “formato i formatori”), sia per i “blue collars” qualificati che per i quadri e i giovani manager, si insiste sulla qualità e la sicurezza, sui processi produttivi e sui prodotti, sulla supply chain, su finanza e gestione, ma anche sul “driving the change”, sulla leadership, sul “diversity management” (essenziale in una grande multinazionale), sulla creazione di valore e sulla riaffermazione e lo sviluppo dei valori tipici dell’esperienza Pirelli, maturata nel corso di una lunga storia e via via adattata ai cambiamenti. Una impostazione originale, rispetto ad altre corporate university. E tale da essere uno dei punti di riferimento per un dibattito aperto in Confindustria su come innovare anche i percorsi universitari, per venire incontro ai bisogni formativi delle imprese.

La sintesi è chiara. Memoria. E attenzione costante per l’innovazione, tecnologica e culturale. Formare persone. E dotarle di strumenti per operare nei tempi nuovi.  D’altronde, non è proprio così che si fa scuola?

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