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Le disuguaglianze rallentano la crescita economica dopo i buoni libri finalmente se ne parla anche al G20

La parola è forte: disuguaglianza. E risuona sempre più spesso, nei summit politici mondiali e negli incontri elitari tra uomini di governo, economisti e capi d’impresa. Disuguaglianza come questione sociale. Ma anche come freno potente alla crescita dell’economia. Lo ha ricordato Christine Lagarde, direttrice generale del Fmi, al G20 di Hangzhou in Cina, aprendo un’importante finestra di riflessione accanto ai grandi temi della difesa dell’ambiente (facilitata dai nuovi impegni di Usa e Cina) e della ripresa degli scambi internazionali. E ne hanno parlato a lungo anche il ministro dell’Economia italiano Piercarlo Padoan, il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans e il ministro delle Finanze olandese e presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem al Forum Ambrosetti di Cernobbio, rilevando la relazione perversa tra malessere sociale crescente, disuguaglianze in aumento (tra redditi, opportunità di lavoro e qualità di vita, aspettative delle nuove generazioni, blocco dell’”ascensore sociale”, crisi di reddito e di ruolo dei ceti medi, etc.) e bassa crescita economica. Altro che trionfo delle politiche di rigore o turbocapitalismo o globalizzazione comunque benefica, i miti degli anni Novanta e primi Duemila. Adesso, si va in cerca, finalmente, di nuovi equilibri per una “economia più giusta”, equilibrata, sostenibile. Accogliendo, con spessore di analisi economiche e, si spera, di rapide, lungimiranti ed efficaci scelte politiche ed economiche, l’incitamento morale e civile di Papa Francesco. “Come combattere la stagnazione? Solo la lotta alle diseguaglianze porterà i paesi oltre questa crisi economica secolare” sostiene Michael Spence, premio Nobel per l’economia (Il Sole24Ore 4 settembre).

La novità di tendenza importante è che la questione della disuguaglianza, già messa da tempo in luce da economisti di gran livello, adesso comincia a trovare posto in cima alle agende economiche di organismi internazionali e di governo. Meglio tardi che mai. Purché non ci si fermi alle generiche raccomandazioni e alle buone intenzioni.

Varrebbe semmai che pena che “i potenti del mondo” dedicassero un po’ più di tempo ad andare in biblioteca e leggere attentamente quello che Sen e Stiglitz, Spence, Krugman, Fitoussi e tanti altri ancora hanno detto e documentato con grande chiarezza sul tema. “Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere le disuguaglianze per tornare a crescere”, ha scritto Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001 con il già citato Spence e con Akerlof, di cui parleremo tra poco, per i loro lavori sulle “asimmetrie informative, un esempio classico di diseguaglianza tra chi sa, investe e si arriccisce e chi non sa, non sa scegliere ed è vittima delle spceculazioni). Il libro è pubblicato in Italia da Il Saggiatore, è uno dei tanti scritti da Stiglitz sul tema (uno dei più chiari) e documenta la tesi che la “Grande Recessione” cominciata nel 2008 ha aggravato le disuguaglianze di reddito, ricchezza e opportunità in tutto l’Occidente. Stiglitz insiste sul fatto che la disuguaglianza è allo stesso tempo causa ed effetto della crisi. Gli Stati Uniti ne rappresentano il caso più indicativo. E il libro fornisce il quadro completo delle distorsioni ideologiche, delle deregolamentazioni e delle norme tributarie che hanno favorito il settore finanziario e arricchito i più ricchi a spese di tutti gli altri, strangolando la classe media e discriminando i lavoratori, in particolare le donne, gli afroamericani e gli immigrati. E portando l’economia al collasso. La disuguaglianza dipende da potenti forze globali, ma è in primo luogo una scelta deliberata, frutto – insiste Stiglitz – delle sconsiderate politiche neoliberiste affermatesi fin dagli anni Settanta. La piena applicazione di queste politiche ha ucciso il sogno americano, trasformando gli Stati Uniti – da proverbiale terra delle opportunità qual era – in un paese oligarchico dalla scarsissima mobilità sociale, in cui sanità, istruzione e casa di proprietà sono inaccessibili a una larga fetta della popolazione e un quinto dei bambini vive in povertà, mentre l’1 per cento più ricco è uscito persino rafforzato dalla crisi. Temi antichi. E d’attualità. Che infiammano, per esempio, la campagna elettorale Usa per il nuovo presidente ma sono anche stati al centro dell’attenzione delle attività di governo dell’amministrazione Obama.

Bisogna appunto ripensare l’economia. Le sue regole e le pratiche. I suoi valori. I suoi paradigmi, soprattutto quando diventano dogmi, elementi ideologici. Perché proprio in tempi di Grande Crisi, alla ricerca di quell’”economia giusta” sollecitata da Papa Francesco, ma anche dagli autorevoli economisti citate e da altri di cui diremo, è indispensabile che attori sociali, studiosi, politici riflettano criticamente su “mercato”, “produttività”, “consumo”, “benessere”. Sull’idea stessa di “crescita”, guardando un po’ meno alla quantità e un po’ di più alla qualità. Temi di fondo per il G20. Ma anche per la ridefinizione delle scelte dell’Ocse e delle nuove strategie Ue in chiave di crescita.

Ci sono altri buoni libri che aiutano a riflettere. Come “Ci prendono per fessi” ovvero “L’economia della manipolazione e dell’inganno”, Mondadori. Il titolo è provocatorio, brutale. Le firme degli autori, di grande prestigio: George A. Akerlof (già citato) e Robert J. Shiller, entrambi premi Nobel per l’economia. In copertina, l’immagine di un’esca con gli ami, per pescare. E “phishing” è la parola chiave del titolo americano, la pratica del raggiro. Idilliaco, il mercato teorizzato da Adam Smith, conciliando interesse personale e benessere generale. La realtà è tutt’altro. Disseminata da “trappole ed esche cui finiamo per abboccare” perché “ogni volta che c’è un profitto da ricavare, i venditori non esitano a sfruttare le nostre debolezze psicologiche, la nostra superficialità, la nostra ignoranza per manipolarci e piazzarci la loro merce al prezzo più alto”. Regole da rivedere, dunque. Consapevolezza e conoscenza da rafforzare, tra i consumatori e i cittadini. Ma anche criteri economici da ridiscutere, per sottrarsi “al paradosso per cui in un’epoca come la nostra, in cui la produzione di ricchezza ha raggiunto livelli senza precedenti, tanti continuano a condurre una vita di miseria e di silenziosa disperazione”. Come? “Circular economy – Dallo spreco al valore”, suggeriscono Peter Lacy, Jacob Rutqvist e Beatrice Lamonica in un brillante saggio pubblicato da Egea. Sempre più limitate, le risorse della Terra. Sempre più alti, i bisogni da soddisfare. E dunque vanno usate meno e meglio acqua, aria, territorio, va prodotta energia rinnovabile. Gli autori parlano di “modelli di business” per “la crescita circolare” e propongono idee e progetti “dal ridisegno delle filiere produttive a una diversa gestione degli scarti, dall’estensione del ciclo di vita dei prodotti alla sharing economy, dall’impiego di risorse sostenibili alla concezione del prodotto come servizio”. Equilibri di sviluppo, appunto. Con forte valore sociale. Non solo profitto, dunque. Come racconta Ina Praetorius, antropologa e teologa, in “L’economia è cura”, IOD Edizioni (a cura di Adriana Maestro, con acuta prefazione di Luisa Cavaliere): si va oltre l’idea che abbia valore economico solo ciò che è “produttivo” e oggetto di scambio, s’insiste sulle relazioni tra le persone che sono ben più che soggetti economici, si parla di “senso ampio di cura per il mondo” e “impegno per una trasformazione culturale”, si mette in primo piano il valore di “culture femminili” al di là della lettura riduttiva dello stesso Adam Smith come economista e non come filosofo morale. Economia “come soddisfazione del bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita”. Va proprio in questa direzione pure “Disuguaglianze – Quante sono, come combatterle” di Maurizio Franzini e Mario Pianta, Laterza: disparità di reddito, ricchezza, opportunità di lavoro e di migliore futuro. Le responsabilità stanno in “un capitalismo oligarchico”. Le chiavi di riforma, in una migliore cultura dello sviluppo e in una politica responsabile. Si torna alla “economia giusta”. Speriamo che lo capiscano presto, i governi.

La parola è forte: disuguaglianza. E risuona sempre più spesso, nei summit politici mondiali e negli incontri elitari tra uomini di governo, economisti e capi d’impresa. Disuguaglianza come questione sociale. Ma anche come freno potente alla crescita dell’economia. Lo ha ricordato Christine Lagarde, direttrice generale del Fmi, al G20 di Hangzhou in Cina, aprendo un’importante finestra di riflessione accanto ai grandi temi della difesa dell’ambiente (facilitata dai nuovi impegni di Usa e Cina) e della ripresa degli scambi internazionali. E ne hanno parlato a lungo anche il ministro dell’Economia italiano Piercarlo Padoan, il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans e il ministro delle Finanze olandese e presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem al Forum Ambrosetti di Cernobbio, rilevando la relazione perversa tra malessere sociale crescente, disuguaglianze in aumento (tra redditi, opportunità di lavoro e qualità di vita, aspettative delle nuove generazioni, blocco dell’”ascensore sociale”, crisi di reddito e di ruolo dei ceti medi, etc.) e bassa crescita economica. Altro che trionfo delle politiche di rigore o turbocapitalismo o globalizzazione comunque benefica, i miti degli anni Novanta e primi Duemila. Adesso, si va in cerca, finalmente, di nuovi equilibri per una “economia più giusta”, equilibrata, sostenibile. Accogliendo, con spessore di analisi economiche e, si spera, di rapide, lungimiranti ed efficaci scelte politiche ed economiche, l’incitamento morale e civile di Papa Francesco. “Come combattere la stagnazione? Solo la lotta alle diseguaglianze porterà i paesi oltre questa crisi economica secolare” sostiene Michael Spence, premio Nobel per l’economia (Il Sole24Ore 4 settembre).

La novità di tendenza importante è che la questione della disuguaglianza, già messa da tempo in luce da economisti di gran livello, adesso comincia a trovare posto in cima alle agende economiche di organismi internazionali e di governo. Meglio tardi che mai. Purché non ci si fermi alle generiche raccomandazioni e alle buone intenzioni.

Varrebbe semmai che pena che “i potenti del mondo” dedicassero un po’ più di tempo ad andare in biblioteca e leggere attentamente quello che Sen e Stiglitz, Spence, Krugman, Fitoussi e tanti altri ancora hanno detto e documentato con grande chiarezza sul tema. “Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere le disuguaglianze per tornare a crescere”, ha scritto Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001 con il già citato Spence e con Akerlof, di cui parleremo tra poco, per i loro lavori sulle “asimmetrie informative, un esempio classico di diseguaglianza tra chi sa, investe e si arriccisce e chi non sa, non sa scegliere ed è vittima delle spceculazioni). Il libro è pubblicato in Italia da Il Saggiatore, è uno dei tanti scritti da Stiglitz sul tema (uno dei più chiari) e documenta la tesi che la “Grande Recessione” cominciata nel 2008 ha aggravato le disuguaglianze di reddito, ricchezza e opportunità in tutto l’Occidente. Stiglitz insiste sul fatto che la disuguaglianza è allo stesso tempo causa ed effetto della crisi. Gli Stati Uniti ne rappresentano il caso più indicativo. E il libro fornisce il quadro completo delle distorsioni ideologiche, delle deregolamentazioni e delle norme tributarie che hanno favorito il settore finanziario e arricchito i più ricchi a spese di tutti gli altri, strangolando la classe media e discriminando i lavoratori, in particolare le donne, gli afroamericani e gli immigrati. E portando l’economia al collasso. La disuguaglianza dipende da potenti forze globali, ma è in primo luogo una scelta deliberata, frutto – insiste Stiglitz – delle sconsiderate politiche neoliberiste affermatesi fin dagli anni Settanta. La piena applicazione di queste politiche ha ucciso il sogno americano, trasformando gli Stati Uniti – da proverbiale terra delle opportunità qual era – in un paese oligarchico dalla scarsissima mobilità sociale, in cui sanità, istruzione e casa di proprietà sono inaccessibili a una larga fetta della popolazione e un quinto dei bambini vive in povertà, mentre l’1 per cento più ricco è uscito persino rafforzato dalla crisi. Temi antichi. E d’attualità. Che infiammano, per esempio, la campagna elettorale Usa per il nuovo presidente ma sono anche stati al centro dell’attenzione delle attività di governo dell’amministrazione Obama.

Bisogna appunto ripensare l’economia. Le sue regole e le pratiche. I suoi valori. I suoi paradigmi, soprattutto quando diventano dogmi, elementi ideologici. Perché proprio in tempi di Grande Crisi, alla ricerca di quell’”economia giusta” sollecitata da Papa Francesco, ma anche dagli autorevoli economisti citate e da altri di cui diremo, è indispensabile che attori sociali, studiosi, politici riflettano criticamente su “mercato”, “produttività”, “consumo”, “benessere”. Sull’idea stessa di “crescita”, guardando un po’ meno alla quantità e un po’ di più alla qualità. Temi di fondo per il G20. Ma anche per la ridefinizione delle scelte dell’Ocse e delle nuove strategie Ue in chiave di crescita.

Ci sono altri buoni libri che aiutano a riflettere. Come “Ci prendono per fessi” ovvero “L’economia della manipolazione e dell’inganno”, Mondadori. Il titolo è provocatorio, brutale. Le firme degli autori, di grande prestigio: George A. Akerlof (già citato) e Robert J. Shiller, entrambi premi Nobel per l’economia. In copertina, l’immagine di un’esca con gli ami, per pescare. E “phishing” è la parola chiave del titolo americano, la pratica del raggiro. Idilliaco, il mercato teorizzato da Adam Smith, conciliando interesse personale e benessere generale. La realtà è tutt’altro. Disseminata da “trappole ed esche cui finiamo per abboccare” perché “ogni volta che c’è un profitto da ricavare, i venditori non esitano a sfruttare le nostre debolezze psicologiche, la nostra superficialità, la nostra ignoranza per manipolarci e piazzarci la loro merce al prezzo più alto”. Regole da rivedere, dunque. Consapevolezza e conoscenza da rafforzare, tra i consumatori e i cittadini. Ma anche criteri economici da ridiscutere, per sottrarsi “al paradosso per cui in un’epoca come la nostra, in cui la produzione di ricchezza ha raggiunto livelli senza precedenti, tanti continuano a condurre una vita di miseria e di silenziosa disperazione”. Come? “Circular economy – Dallo spreco al valore”, suggeriscono Peter Lacy, Jacob Rutqvist e Beatrice Lamonica in un brillante saggio pubblicato da Egea. Sempre più limitate, le risorse della Terra. Sempre più alti, i bisogni da soddisfare. E dunque vanno usate meno e meglio acqua, aria, territorio, va prodotta energia rinnovabile. Gli autori parlano di “modelli di business” per “la crescita circolare” e propongono idee e progetti “dal ridisegno delle filiere produttive a una diversa gestione degli scarti, dall’estensione del ciclo di vita dei prodotti alla sharing economy, dall’impiego di risorse sostenibili alla concezione del prodotto come servizio”. Equilibri di sviluppo, appunto. Con forte valore sociale. Non solo profitto, dunque. Come racconta Ina Praetorius, antropologa e teologa, in “L’economia è cura”, IOD Edizioni (a cura di Adriana Maestro, con acuta prefazione di Luisa Cavaliere): si va oltre l’idea che abbia valore economico solo ciò che è “produttivo” e oggetto di scambio, s’insiste sulle relazioni tra le persone che sono ben più che soggetti economici, si parla di “senso ampio di cura per il mondo” e “impegno per una trasformazione culturale”, si mette in primo piano il valore di “culture femminili” al di là della lettura riduttiva dello stesso Adam Smith come economista e non come filosofo morale. Economia “come soddisfazione del bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita”. Va proprio in questa direzione pure “Disuguaglianze – Quante sono, come combatterle” di Maurizio Franzini e Mario Pianta, Laterza: disparità di reddito, ricchezza, opportunità di lavoro e di migliore futuro. Le responsabilità stanno in “un capitalismo oligarchico”. Le chiavi di riforma, in una migliore cultura dello sviluppo e in una politica responsabile. Si torna alla “economia giusta”. Speriamo che lo capiscano presto, i governi.

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