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Le diversità come leve di competitività: puntare su inclusione e innovazione

Inclusione e innovazione, un binomio che garantisce alle imprese migliore produttività e maggiore competitività. Le diversità (di genere e orientamento sessuale, valori religiosi, appartenenze etniche, culture) sono un formidabile carburante per la crescita, strumenti di confronto, creatività  e definizione di nuove idee, di migliore cultura d’impresa. E il diversity management è oramai una leva essenziale di sviluppo, soprattutto per chi si trova a operare su mercati internazionali, nella costruzione di difficili eppur ricchissime sintesi di global e local. L’indicazione viene da una ricerca di Catalyst (una grande società di consulenza americana, con sedi anche in Europa, Giappone, Canada, india, Australia, etc.) e dalla McKinsey.

Secondo Catalyst (ne scrive Paolo Bricco su “IlSole24Ore”, 25 settembre) negli ultimi dieci anni le 50 imprese globali Usa, punti di riferimento nella gestione delle diversità, hanno ottenuto rendimenti, in termini di andamento dei titoli in Borsa, più alti del 22% rispetto all’indice Dow Jones Industrial Average e del 28% rispetto al Nasdaq. In altri termini, i mercati finanziari apprezzano e premiano la vivacità di imprese capaci di fare i conti e valorizzare differenti e anche conflittuali approcci al business (la buona impresa che piace agli investitori, insomma, non è una caserma né un tempio dell’omogeneità, dell’obbedienza acritica, della rigidità organizzativa e del conformismo). McKinsey ha allargato il campione all’Europa, costruendo un panel di imprese americane, inglesi, francesi e tedesche e ha accertato che le società che hanno board composti in misura rilevante anche da donne valgono, in termini di efficienza rilevata contabilmente dal Roe e dalla crescita, un quarto in più rispetto alle altre ma soprattutto ha verificato il miglioramento della fisiologia interna delle aziende che adottano in generale politiche di inclusione. Secondo McKinsey, insomma, una forza lavoro diversificata e inclusiva genera risultati superiori per livello di collaborazione nel lavoro in team (+57% rispetto allo standard), nella produttività dei singoli (+12%) e nella capacità di costruire un rapporto solido e duraturo con la clientela (+19%).

Taylorismo e fordismo, tecnocrazie rigide, processi di gestione seriali hanno fatto dunque il loro tempo. “L’obbedienza non è più una virtù” (la bella e coraggiosa scelta d’un maestro cattolico come don Lorenzo Milani, finalmente riscoperto dopo l’oblio post ’68) è una frase che ricorre anche nella migliore cultura d’impresa. Il pensiero critico (e perfino eretico) trova giusto spazio in quelle imprese che lavorano sulle frontiere complesse dell’innovazione. Le dichiarazioni sul “primato della persona” (e se rileggessimo Emmanuel Mounier o alcune pagine de “La condizione operaia” di Simone Weil?) e sulla valorizzazione delle risorse umane, essenziali soprattutto nelle stagioni dell’”economia della conoscenza” hanno bisogno di tradursi in strutture organizzative e regole di governance in cui la diversità sia una chiave di scelte e una leva di comportamenti e strategie. Un lavoro da portare avanti.

La nuova razionalità economica è costituita dalla valorizzazione delle differenze”, sostiene Bricco. E Andrea Notarnicola, sociologo del lavoro, autore di “Global Inclusion” (un saggio appena pubblicato da Franco Angeli) nota che “il paradigma fondato sull’inclusione rappresenta l’evoluzione delle politiche per le pari opportunità, fondate sulle quote rosa, e della responsabilità sociale d’impresa. E’ un approccio complessivo, un orientamento globale che porta ogni azienda, al suo interno e al suo esterno, a considerare le ragioni della diversità come la nuova, fondamentale leva competitiva”.

Più facile a dirsi, meno a realizzarsi. Le resistenze, nelle imprese, naturalmente non mancano. Tra le dichiarazioni di volontà e le pratiche inclusive coerentemente seguite, c’è ancora molto cammino da fare. L’importante, comunque, è che il processo sia in corso, forte anche di una robusta cornice teorica e del sostegno dei dati di successo. Ancora una conferma: secondo un’indagine dell’European Business Test Panel, effettuata su 188 imprese europee che hanno un’agenda di diversity, tutte le funzioni vengono valorizzate. Gli imprenditori e i manager consultati – nota sempre “Il Sole24Ore” – hanno evidenziato miglioramenti delle performances per il reclutamento nel 61% dei casi, per il servizio clienti nel 58%, per lo sviluppo di nuovi prodotti nel 49%, per la formazione del 45%, per l’ingresso su nuovi mercati nel 42%, per i processi manageriali nel 40% e per il coinvolgimento degli stakeholders nel 30%. Il risultato? Migliori nuove idee efficaci, maggiori efficienze organizzative, maggiori profitti. La diversity, insomma, conviene.

Anche in Italia si va avanti su questa strada. Tanto per fare solo un esempio, la Barilla ha costituito un Diversity & Inclusion Board di esperti esterni indipendenti e un Operating Committee interno, lavorando in partnership con Catalyst, Human Right Campaign e Parks. E Mariapaola Vetrucci, chief strategy officer di Barilla, sostiene: “La multiculturalità è un valore indispensabile per una multinazionale. Promuovere diversità e inclusione non significa solo ‘fare la cosa giusta’ ma anche sostenere la nostra strategia di crescita. Una forza lavoro diversa e una cultura d’impresa inclusiva accrescono l’impegno e tengono conti di una comprensione più profonda della società, indispensabile per chi come noi serve consumatori in tutto in mondo”.

Valorti e valore economico in sinergia, dunque. E’ la strada su cui lavora “Parks – Liberi e uguali”, una società fondata da Ivan Scalfarotto (parlamentare Pd e adesso sottosegretario alle Riforme nel governo Renzi), presieduta da Dario Longo e diretta da Igor Suran. Il nome viene da Rosa Parks, attività dei diritti civili negli Usa, la donna che nel 1955, a Montgomery in Alabama, aveva cominciato la protesta contro le discriminazioni contro i neri sugli autobus. La visione di fondo è chiara: “Lavorare è un gesto semplice e importante della vita come quello di prendere l’autobus, e il rifiuto di Rosa Parks di lasciare il suo posto a un’altra persona soltanto perché aveva la pelle di un altro colore ci insegna ancora oggi che il mondo può essere scosso e cambiato anche soltanto dicendo un “no” cortese ma irremovibile alla discriminazione”. Oggi di Parks sono socie imprese come Microsoft, Johnson & Johnson, Roche, Ikea, Telecom, Ibm, Barilla, Deutsche Bank e altre ancora: “La valorizzazione di ogni aspetto dell’identità individuale è un tassello indispensabile per una piena espressione del capitale umano”. Identità, diversità, competitività, appunto. Un circuito virtuoso da rafforzare.

Inclusione e innovazione, un binomio che garantisce alle imprese migliore produttività e maggiore competitività. Le diversità (di genere e orientamento sessuale, valori religiosi, appartenenze etniche, culture) sono un formidabile carburante per la crescita, strumenti di confronto, creatività  e definizione di nuove idee, di migliore cultura d’impresa. E il diversity management è oramai una leva essenziale di sviluppo, soprattutto per chi si trova a operare su mercati internazionali, nella costruzione di difficili eppur ricchissime sintesi di global e local. L’indicazione viene da una ricerca di Catalyst (una grande società di consulenza americana, con sedi anche in Europa, Giappone, Canada, india, Australia, etc.) e dalla McKinsey.

Secondo Catalyst (ne scrive Paolo Bricco su “IlSole24Ore”, 25 settembre) negli ultimi dieci anni le 50 imprese globali Usa, punti di riferimento nella gestione delle diversità, hanno ottenuto rendimenti, in termini di andamento dei titoli in Borsa, più alti del 22% rispetto all’indice Dow Jones Industrial Average e del 28% rispetto al Nasdaq. In altri termini, i mercati finanziari apprezzano e premiano la vivacità di imprese capaci di fare i conti e valorizzare differenti e anche conflittuali approcci al business (la buona impresa che piace agli investitori, insomma, non è una caserma né un tempio dell’omogeneità, dell’obbedienza acritica, della rigidità organizzativa e del conformismo). McKinsey ha allargato il campione all’Europa, costruendo un panel di imprese americane, inglesi, francesi e tedesche e ha accertato che le società che hanno board composti in misura rilevante anche da donne valgono, in termini di efficienza rilevata contabilmente dal Roe e dalla crescita, un quarto in più rispetto alle altre ma soprattutto ha verificato il miglioramento della fisiologia interna delle aziende che adottano in generale politiche di inclusione. Secondo McKinsey, insomma, una forza lavoro diversificata e inclusiva genera risultati superiori per livello di collaborazione nel lavoro in team (+57% rispetto allo standard), nella produttività dei singoli (+12%) e nella capacità di costruire un rapporto solido e duraturo con la clientela (+19%).

Taylorismo e fordismo, tecnocrazie rigide, processi di gestione seriali hanno fatto dunque il loro tempo. “L’obbedienza non è più una virtù” (la bella e coraggiosa scelta d’un maestro cattolico come don Lorenzo Milani, finalmente riscoperto dopo l’oblio post ’68) è una frase che ricorre anche nella migliore cultura d’impresa. Il pensiero critico (e perfino eretico) trova giusto spazio in quelle imprese che lavorano sulle frontiere complesse dell’innovazione. Le dichiarazioni sul “primato della persona” (e se rileggessimo Emmanuel Mounier o alcune pagine de “La condizione operaia” di Simone Weil?) e sulla valorizzazione delle risorse umane, essenziali soprattutto nelle stagioni dell’”economia della conoscenza” hanno bisogno di tradursi in strutture organizzative e regole di governance in cui la diversità sia una chiave di scelte e una leva di comportamenti e strategie. Un lavoro da portare avanti.

La nuova razionalità economica è costituita dalla valorizzazione delle differenze”, sostiene Bricco. E Andrea Notarnicola, sociologo del lavoro, autore di “Global Inclusion” (un saggio appena pubblicato da Franco Angeli) nota che “il paradigma fondato sull’inclusione rappresenta l’evoluzione delle politiche per le pari opportunità, fondate sulle quote rosa, e della responsabilità sociale d’impresa. E’ un approccio complessivo, un orientamento globale che porta ogni azienda, al suo interno e al suo esterno, a considerare le ragioni della diversità come la nuova, fondamentale leva competitiva”.

Più facile a dirsi, meno a realizzarsi. Le resistenze, nelle imprese, naturalmente non mancano. Tra le dichiarazioni di volontà e le pratiche inclusive coerentemente seguite, c’è ancora molto cammino da fare. L’importante, comunque, è che il processo sia in corso, forte anche di una robusta cornice teorica e del sostegno dei dati di successo. Ancora una conferma: secondo un’indagine dell’European Business Test Panel, effettuata su 188 imprese europee che hanno un’agenda di diversity, tutte le funzioni vengono valorizzate. Gli imprenditori e i manager consultati – nota sempre “Il Sole24Ore” – hanno evidenziato miglioramenti delle performances per il reclutamento nel 61% dei casi, per il servizio clienti nel 58%, per lo sviluppo di nuovi prodotti nel 49%, per la formazione del 45%, per l’ingresso su nuovi mercati nel 42%, per i processi manageriali nel 40% e per il coinvolgimento degli stakeholders nel 30%. Il risultato? Migliori nuove idee efficaci, maggiori efficienze organizzative, maggiori profitti. La diversity, insomma, conviene.

Anche in Italia si va avanti su questa strada. Tanto per fare solo un esempio, la Barilla ha costituito un Diversity & Inclusion Board di esperti esterni indipendenti e un Operating Committee interno, lavorando in partnership con Catalyst, Human Right Campaign e Parks. E Mariapaola Vetrucci, chief strategy officer di Barilla, sostiene: “La multiculturalità è un valore indispensabile per una multinazionale. Promuovere diversità e inclusione non significa solo ‘fare la cosa giusta’ ma anche sostenere la nostra strategia di crescita. Una forza lavoro diversa e una cultura d’impresa inclusiva accrescono l’impegno e tengono conti di una comprensione più profonda della società, indispensabile per chi come noi serve consumatori in tutto in mondo”.

Valorti e valore economico in sinergia, dunque. E’ la strada su cui lavora “Parks – Liberi e uguali”, una società fondata da Ivan Scalfarotto (parlamentare Pd e adesso sottosegretario alle Riforme nel governo Renzi), presieduta da Dario Longo e diretta da Igor Suran. Il nome viene da Rosa Parks, attività dei diritti civili negli Usa, la donna che nel 1955, a Montgomery in Alabama, aveva cominciato la protesta contro le discriminazioni contro i neri sugli autobus. La visione di fondo è chiara: “Lavorare è un gesto semplice e importante della vita come quello di prendere l’autobus, e il rifiuto di Rosa Parks di lasciare il suo posto a un’altra persona soltanto perché aveva la pelle di un altro colore ci insegna ancora oggi che il mondo può essere scosso e cambiato anche soltanto dicendo un “no” cortese ma irremovibile alla discriminazione”. Oggi di Parks sono socie imprese come Microsoft, Johnson & Johnson, Roche, Ikea, Telecom, Ibm, Barilla, Deutsche Bank e altre ancora: “La valorizzazione di ogni aspetto dell’identità individuale è un tassello indispensabile per una piena espressione del capitale umano”. Identità, diversità, competitività, appunto. Un circuito virtuoso da rafforzare.

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