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Le fragilità e i costi delle transizioni e la “seduzione del futuro” di Popper

Transizioni. Viviamo tempi controversi di profonde, radicali modifiche. La transizione ambientale, tra opportunità della green economy e sconvolgimenti carichi di costi economici e sociali. La transizione digitale, con le straordinarie possibilità e le inquietudini legate allo sviluppo pervasivo dell’intelligenza artificiale. La zoppicante transizione generazionale, con le fragilità degli anziani ma anche con la potenza della silver economy e con lo smarrimento dei giovani, in un’Italia che invecchia e si spopola, rivelando una preoccupante decrescita demografica (“In 50 anni saremo 12 milioni in meno”, calcola l’Istat – “Il Sole24Ore”, 27 novembre).

Non sono mai facili, le transizioni. Si sta nel mezzo del guado, con il rischio d’essere travolti dalla corrente, si subiscono tutte le tensioni del vecchio mondo che non è tramontato e del nuovo che deve ancora sorgere.

La lezione intellettuale di Antonio Gramsci ricorda che “in questo chiaroscuro nascono mostri”. E pur storicizzando quella sua cupa preoccupazione (gli anni Venti europei, tra crollo degli entusiasmi della Belle Époque, movimenti rivoluzionari e allarmanti ombre d’arrivo del fascismo), l’avvertimento sui “mostri” non va sottovalutato.

La fragilità della nostra stagione storica è evidente. La pandemia da Covid19, con tutte le sue inquietanti varianti, come l’ultima contagiosissima “Omicron”, ha dimostrato la forza travolgente di un’infezione letale che supera i confini e investe un elemento fondamentale della condizione umana, la salute (“In futuro arriveranno altre mutazioni e non è detto che questa sia la peggiore”, sostiene Ilaria Capua, autorevole virologa – “La Stampa”, 28 novembre). E proprio questa pandemia diventa metafora di un “mondo malato” da squilibri che dalla salute delle persone si allarga a quella dell’ambiente e delle condizioni sociali.

Altri e pesanti fattori di tensione sono le pressioni del Cyber crime su istituzioni e imprese ma anche gli inquinamenti pilotati delle fake news per stravolgere e fratturare le opinioni pubbliche dell’Europa e degli altri paesi democratici, che rivelano quanto siano a rischio mercati, politica e corpi sociali.

Le incompiutezze e le contraddizioni della globalizzazione mettono in crisi ambiente, commerci internazionali, benessere. E i conflitti politiche derivanti da un multilateralismo privo di efficace governance di interessi e valori contrastanti sottopongono a stress durissimi le volontà di pace e di costruzione di nuovi e migliori equilibri economici e sociali.

Stanno proprio in queste condizioni generale di incertezza, i “mostri”. E stanno invece nella volontà diffusa di ripresa le opportunità di ripartenza, di ricominciamento e, per usare una parola ricorrente, di “rigenerazione”. O, meglio ancora, di costruzione di un “nuovo inizio”, come consigliano i messaggi di Papa Francesco.

Vale la pena riprendere un mano, allora, un libro cardine del Novecento, “La peste” di Albert Camus, per ritrovare un possibile viatico del futuro: “Sulla terra ci sono flagelli e vittime e, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello”. Non è ottimismo, ma consapevolezza critica della fragilità. E, contemporaneamente, scelta per un avvenire meno incerto.

Tutta la grande letteratura europea, d’altronde, ne propone luminose testimonianze. Come questa, di sir Thomas More, uomo di Stato, persona di profonda fedeltà ai suoi principi morali: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare. Che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare. Che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”.

In questa stagione della storia e dell’anima così nuvolosa eppur altrettanto ricca di lampi di luce, ecco una virtù cui affidarsi: la lucidità della distinzione. Riportando alla memoria le parole scritte e lette che siano d’aiuto.

Parole come queste, per continuare a giocare con i buoni libri: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”. Sono parole di Martin Heidegger, uno dei più controversi filosofi del Novecento (ricordate da Umberto Galimberti in un libro scritto con Paolo Iacci, “Dialogo sul lavoro e la felicità” Egea). Insistono sulle potenzialità necessarie del pensiero critico, di fronte alle innovazioni scientifiche e alle conseguenze tecnologiche, con quei pericoli del “dominio della tecnica”. Evidenziano le possibilità purtroppo inespresse di comprensione e dunque di governo dei fenomeni complessi della contemporaneità. Sono quanto mai opportune di fronte alle sfide dell’Intelligenza Artificiale e alle ipotesi di autosufficienza del machine learning seguendo lo sviluppo di algoritmi fuori controllo. E ci dicono che, tutto sommato, anche per Heidegger, c’è una speranza.

Le transizioni digitali, ambientali e sociali, insomma, pretendono un maggiore impegno di ricerca, studio, comprensione, grazie anche al rafforzamento di una “cultura politecnica” che tenga insieme sapienza umanistica e conoscenze scientifiche e stimoli il pensiero critico degli “ingegneri-filosofi”. La scienza impone lo sviluppo di una consapevolezza dei criteri di fondo dell’andamento per trials and errors, seguendo la lezione di Karl Popper. La potenza che si esprime chiede controllo. Serve costruire capitale sociale positivo (le imprese, come attori responsabili, tra competitività e inclusione sociale, ne sono protagonisti fondamentali). E riscrivere mappe aggiornate per navigare, appunto, nella transizione contemporanea. L’orizzonte necessario è quello di una economia a misura d’uomo, in cui la costruzione di valore economico sia fondato sui valori umani, sociali, civili.

Serve, insomma, quel “pensiero meditante” di Heidegger. E il recupero della fiducia di fondo che ispira la scienza, rileggendo Popper: “E’ la seduzione del futuro che ci fa vivere”. Nonostante tutto.

Transizioni. Viviamo tempi controversi di profonde, radicali modifiche. La transizione ambientale, tra opportunità della green economy e sconvolgimenti carichi di costi economici e sociali. La transizione digitale, con le straordinarie possibilità e le inquietudini legate allo sviluppo pervasivo dell’intelligenza artificiale. La zoppicante transizione generazionale, con le fragilità degli anziani ma anche con la potenza della silver economy e con lo smarrimento dei giovani, in un’Italia che invecchia e si spopola, rivelando una preoccupante decrescita demografica (“In 50 anni saremo 12 milioni in meno”, calcola l’Istat – “Il Sole24Ore”, 27 novembre).

Non sono mai facili, le transizioni. Si sta nel mezzo del guado, con il rischio d’essere travolti dalla corrente, si subiscono tutte le tensioni del vecchio mondo che non è tramontato e del nuovo che deve ancora sorgere.

La lezione intellettuale di Antonio Gramsci ricorda che “in questo chiaroscuro nascono mostri”. E pur storicizzando quella sua cupa preoccupazione (gli anni Venti europei, tra crollo degli entusiasmi della Belle Époque, movimenti rivoluzionari e allarmanti ombre d’arrivo del fascismo), l’avvertimento sui “mostri” non va sottovalutato.

La fragilità della nostra stagione storica è evidente. La pandemia da Covid19, con tutte le sue inquietanti varianti, come l’ultima contagiosissima “Omicron”, ha dimostrato la forza travolgente di un’infezione letale che supera i confini e investe un elemento fondamentale della condizione umana, la salute (“In futuro arriveranno altre mutazioni e non è detto che questa sia la peggiore”, sostiene Ilaria Capua, autorevole virologa – “La Stampa”, 28 novembre). E proprio questa pandemia diventa metafora di un “mondo malato” da squilibri che dalla salute delle persone si allarga a quella dell’ambiente e delle condizioni sociali.

Altri e pesanti fattori di tensione sono le pressioni del Cyber crime su istituzioni e imprese ma anche gli inquinamenti pilotati delle fake news per stravolgere e fratturare le opinioni pubbliche dell’Europa e degli altri paesi democratici, che rivelano quanto siano a rischio mercati, politica e corpi sociali.

Le incompiutezze e le contraddizioni della globalizzazione mettono in crisi ambiente, commerci internazionali, benessere. E i conflitti politiche derivanti da un multilateralismo privo di efficace governance di interessi e valori contrastanti sottopongono a stress durissimi le volontà di pace e di costruzione di nuovi e migliori equilibri economici e sociali.

Stanno proprio in queste condizioni generale di incertezza, i “mostri”. E stanno invece nella volontà diffusa di ripresa le opportunità di ripartenza, di ricominciamento e, per usare una parola ricorrente, di “rigenerazione”. O, meglio ancora, di costruzione di un “nuovo inizio”, come consigliano i messaggi di Papa Francesco.

Vale la pena riprendere un mano, allora, un libro cardine del Novecento, “La peste” di Albert Camus, per ritrovare un possibile viatico del futuro: “Sulla terra ci sono flagelli e vittime e, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello”. Non è ottimismo, ma consapevolezza critica della fragilità. E, contemporaneamente, scelta per un avvenire meno incerto.

Tutta la grande letteratura europea, d’altronde, ne propone luminose testimonianze. Come questa, di sir Thomas More, uomo di Stato, persona di profonda fedeltà ai suoi principi morali: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare. Che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare. Che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”.

In questa stagione della storia e dell’anima così nuvolosa eppur altrettanto ricca di lampi di luce, ecco una virtù cui affidarsi: la lucidità della distinzione. Riportando alla memoria le parole scritte e lette che siano d’aiuto.

Parole come queste, per continuare a giocare con i buoni libri: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”. Sono parole di Martin Heidegger, uno dei più controversi filosofi del Novecento (ricordate da Umberto Galimberti in un libro scritto con Paolo Iacci, “Dialogo sul lavoro e la felicità” Egea). Insistono sulle potenzialità necessarie del pensiero critico, di fronte alle innovazioni scientifiche e alle conseguenze tecnologiche, con quei pericoli del “dominio della tecnica”. Evidenziano le possibilità purtroppo inespresse di comprensione e dunque di governo dei fenomeni complessi della contemporaneità. Sono quanto mai opportune di fronte alle sfide dell’Intelligenza Artificiale e alle ipotesi di autosufficienza del machine learning seguendo lo sviluppo di algoritmi fuori controllo. E ci dicono che, tutto sommato, anche per Heidegger, c’è una speranza.

Le transizioni digitali, ambientali e sociali, insomma, pretendono un maggiore impegno di ricerca, studio, comprensione, grazie anche al rafforzamento di una “cultura politecnica” che tenga insieme sapienza umanistica e conoscenze scientifiche e stimoli il pensiero critico degli “ingegneri-filosofi”. La scienza impone lo sviluppo di una consapevolezza dei criteri di fondo dell’andamento per trials and errors, seguendo la lezione di Karl Popper. La potenza che si esprime chiede controllo. Serve costruire capitale sociale positivo (le imprese, come attori responsabili, tra competitività e inclusione sociale, ne sono protagonisti fondamentali). E riscrivere mappe aggiornate per navigare, appunto, nella transizione contemporanea. L’orizzonte necessario è quello di una economia a misura d’uomo, in cui la costruzione di valore economico sia fondato sui valori umani, sociali, civili.

Serve, insomma, quel “pensiero meditante” di Heidegger. E il recupero della fiducia di fondo che ispira la scienza, rileggendo Popper: “E’ la seduzione del futuro che ci fa vivere”. Nonostante tutto.

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