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Le parole forti, seducenti e ambigue svelano il senso di crisi e pandemia

“Adesso si comincia. Ci mutiamo”, prescrive seria l’organizzatrice del dibattito su Zoom, d’un webinar, come s’usa dire. “Ci mutiamo? In cosa?”, ribatte il partecipante anziano, con acidula ironia. Qualcuno sorride, mentre tutti comunque cliccano sull’icona del mute.

Dettagli della quotidianità di questi tempi difficili di pandemia, con le cautele, i distanziamenti e le clausure (tutti dicono lockdown), di vita digitale e di legami che comunque siamo riusciti a mantenere, tra riunioni a distanza, lezioni in video e lavoro da casa (tutti dicono smart working, anche se di smart molto spesso questo modo di lavorare ha ben poco). Ma perché, proprio nel tempo della malattia, della recessione, del dolore dei lutti e della paura per l’occupazione e i redditi, vale la pena di occuparsi delle parole? Perché ragionare sul mute ma anche sui mutamenti?

Viviamo di parole. Siamo fatti delle nostre stesse parole che pronunciamo, leggiamo, scriviamo, ascoltiamo, ricordiamo. Le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino delle donne e degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Nominando, danno un senso ai fatti e alle cose.

Nomina sunt consequentia rerum, dicevano i romani, gente pratica. Ma sono anche altro, al di là della denotazione della realtà. Lo strumento del potere, soprattutto, con una forza straordinaria. La leva della politica. “Churchill ha mobilitato la lingua inglese e l’ha mandata in battaglia”, dice lord Halifax, l’avversario più tenace dello statista britannico, dopo il discorso che trascina i parlamentari a bocciare ogni idea di trattativa con i nazisti di Hitler, ne “L’ora più buia” d’una Londra ferita dai bombardamenti tedeschi e minacciata dall’invasione (“L’ora più buia” è appunto il titolo d’un gran bel film di Joe Wright, interpretato da uno straordinario Gary Oldman).

Le parole abitano “La voce delle sirene”, per usare il titolo d’un arguto libro di Laura Pepe, professoressa all’Università Statale di Milano su “i greci e l’arte della persuasione”, Laterza: “Secondo una celebre e fortunata espressione omerica, le parole sono alate: non tanto come gli uccelli, ma piuttosto come le frecce, che tagliano l’aria veloci per andare dritte al bersaglio e fare breccia nel cuore di chi le ascolta”.

I greci costruiscono la lingua dei filosofi e dei poeti, degli scienziati e dei grandi narratori. Fanno vivere, in parole, concetti astratti e formidabili miti che fondano civiltà di cui ancora oggi, per fortuna, portiamo il segno. E la loro sapienza ci aiuta a vivere, a progettare, a fare e a raccontare. Insiste Laura Pepe: “Da sempre i Greci sanno che la parola serve a convincere, a mostrare che cosa è vero e che cosa è giusto. Ma sanno anche che essa ha in sé una forza magica: può trasformarsi in incantesimo, capace di dominare e trascinare l’animo di chi ascolta; di ammaliare come la musica e di curare come una medicina; ma soprattutto, di ingannare e di illudere”.

Le parole sono pietre, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma sono pure ambigue, duttili, scivolose. Tagliano, lasciando il segno. E distraggono, sviano, tradiscono. Ulisse, che di quest’attitudine è astuto maestro, si fa legare all’albero della nave, per non cedere alla malia delle Sirene.

Le parole, insomma, sono salvifiche, divine. E pericolose. Vanno dunque usate con cautela. E con conoscenza. La parole vanno rispettate.

Ecco perché, proprio in tempi incerti e sdrucciolevoli, è necessario anche concentrarsi sulle parole. E imparare a usarle. Una questione di civiltà. E, in fin dei conti, di buon uso della Retorica, come sapevano bene Aristotele e poi Cicerone. E cioè di democrazia (ai dittatori e agli impostori, le parole libere e critiche non piacciono affatto). Una questione di responsabilità.

“Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”, sostiene Octavio Paz, scrittore messicano, premio Nobel per la Letteratura nel 1990. E, ancora più netto: “Un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”. La sua è una lezione culturale e civile che ancora risuona.

Le parole, è vero, risentono dei cambiamenti del tempo. E la lingua è un meccanismo mobile, che si evolve, come ci hanno insegnato Antonio Gramsci, don Lorenzo Milani, Pier Paolo Pasolini e Tullio De Mauro. Ma l’evoluzione è tutt’altro che il degrado d’una lingua e la sua riduzione a stereotipi e banalità.

La lingua è un prodotto meticcio, risente di altre lingue, ne incorpora vocaboli e strutture sintattiche, costruisce così forme espressive nuove. Ha una natura open source. E contemporaneamente ha un’identità forte, radicata ma anche mobile e molteplice, come tutte le identità aperte e fertili, peraltro. Quell’identità va dunque conosciuta, studiata, seguita con accortezza. Tra la modifica e la corruzione d’una lingua, c’è differenza.

Nell’anno del settimo centenario di Dante, rileggerlo significa vale ragionare sulla lingua (proprio lui ne era stato uno straordinario innovatore) e sulle evoluzioni, ma stando attenti a non cadere nella trappola banale degli adattamenti scarsi di senso e funzione. Meglio il racconto, d’uno storytelling. Meglio consegnare, che “deliverare”.

Mario Draghi, uomo d’esperienza e di cultura internazionale, un ottimo ed elegante uso dell’inglese, ha ammonito anche lui sull’ossessione linguistica di far finta di parlare inglese, soprattutto nei gerghi delle tecnologie digitali e dell’economia, adulterando l’italiano.

Così, vale davvero la pena provare a stare in silenzio, senza “mutarsi”. E imparare a costruire e nominare meglio i cambiamenti.

“Adesso si comincia. Ci mutiamo”, prescrive seria l’organizzatrice del dibattito su Zoom, d’un webinar, come s’usa dire. “Ci mutiamo? In cosa?”, ribatte il partecipante anziano, con acidula ironia. Qualcuno sorride, mentre tutti comunque cliccano sull’icona del mute.

Dettagli della quotidianità di questi tempi difficili di pandemia, con le cautele, i distanziamenti e le clausure (tutti dicono lockdown), di vita digitale e di legami che comunque siamo riusciti a mantenere, tra riunioni a distanza, lezioni in video e lavoro da casa (tutti dicono smart working, anche se di smart molto spesso questo modo di lavorare ha ben poco). Ma perché, proprio nel tempo della malattia, della recessione, del dolore dei lutti e della paura per l’occupazione e i redditi, vale la pena di occuparsi delle parole? Perché ragionare sul mute ma anche sui mutamenti?

Viviamo di parole. Siamo fatti delle nostre stesse parole che pronunciamo, leggiamo, scriviamo, ascoltiamo, ricordiamo. Le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino delle donne e degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Nominando, danno un senso ai fatti e alle cose.

Nomina sunt consequentia rerum, dicevano i romani, gente pratica. Ma sono anche altro, al di là della denotazione della realtà. Lo strumento del potere, soprattutto, con una forza straordinaria. La leva della politica. “Churchill ha mobilitato la lingua inglese e l’ha mandata in battaglia”, dice lord Halifax, l’avversario più tenace dello statista britannico, dopo il discorso che trascina i parlamentari a bocciare ogni idea di trattativa con i nazisti di Hitler, ne “L’ora più buia” d’una Londra ferita dai bombardamenti tedeschi e minacciata dall’invasione (“L’ora più buia” è appunto il titolo d’un gran bel film di Joe Wright, interpretato da uno straordinario Gary Oldman).

Le parole abitano “La voce delle sirene”, per usare il titolo d’un arguto libro di Laura Pepe, professoressa all’Università Statale di Milano su “i greci e l’arte della persuasione”, Laterza: “Secondo una celebre e fortunata espressione omerica, le parole sono alate: non tanto come gli uccelli, ma piuttosto come le frecce, che tagliano l’aria veloci per andare dritte al bersaglio e fare breccia nel cuore di chi le ascolta”.

I greci costruiscono la lingua dei filosofi e dei poeti, degli scienziati e dei grandi narratori. Fanno vivere, in parole, concetti astratti e formidabili miti che fondano civiltà di cui ancora oggi, per fortuna, portiamo il segno. E la loro sapienza ci aiuta a vivere, a progettare, a fare e a raccontare. Insiste Laura Pepe: “Da sempre i Greci sanno che la parola serve a convincere, a mostrare che cosa è vero e che cosa è giusto. Ma sanno anche che essa ha in sé una forza magica: può trasformarsi in incantesimo, capace di dominare e trascinare l’animo di chi ascolta; di ammaliare come la musica e di curare come una medicina; ma soprattutto, di ingannare e di illudere”.

Le parole sono pietre, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma sono pure ambigue, duttili, scivolose. Tagliano, lasciando il segno. E distraggono, sviano, tradiscono. Ulisse, che di quest’attitudine è astuto maestro, si fa legare all’albero della nave, per non cedere alla malia delle Sirene.

Le parole, insomma, sono salvifiche, divine. E pericolose. Vanno dunque usate con cautela. E con conoscenza. La parole vanno rispettate.

Ecco perché, proprio in tempi incerti e sdrucciolevoli, è necessario anche concentrarsi sulle parole. E imparare a usarle. Una questione di civiltà. E, in fin dei conti, di buon uso della Retorica, come sapevano bene Aristotele e poi Cicerone. E cioè di democrazia (ai dittatori e agli impostori, le parole libere e critiche non piacciono affatto). Una questione di responsabilità.

“Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”, sostiene Octavio Paz, scrittore messicano, premio Nobel per la Letteratura nel 1990. E, ancora più netto: “Un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”. La sua è una lezione culturale e civile che ancora risuona.

Le parole, è vero, risentono dei cambiamenti del tempo. E la lingua è un meccanismo mobile, che si evolve, come ci hanno insegnato Antonio Gramsci, don Lorenzo Milani, Pier Paolo Pasolini e Tullio De Mauro. Ma l’evoluzione è tutt’altro che il degrado d’una lingua e la sua riduzione a stereotipi e banalità.

La lingua è un prodotto meticcio, risente di altre lingue, ne incorpora vocaboli e strutture sintattiche, costruisce così forme espressive nuove. Ha una natura open source. E contemporaneamente ha un’identità forte, radicata ma anche mobile e molteplice, come tutte le identità aperte e fertili, peraltro. Quell’identità va dunque conosciuta, studiata, seguita con accortezza. Tra la modifica e la corruzione d’una lingua, c’è differenza.

Nell’anno del settimo centenario di Dante, rileggerlo significa vale ragionare sulla lingua (proprio lui ne era stato uno straordinario innovatore) e sulle evoluzioni, ma stando attenti a non cadere nella trappola banale degli adattamenti scarsi di senso e funzione. Meglio il racconto, d’uno storytelling. Meglio consegnare, che “deliverare”.

Mario Draghi, uomo d’esperienza e di cultura internazionale, un ottimo ed elegante uso dell’inglese, ha ammonito anche lui sull’ossessione linguistica di far finta di parlare inglese, soprattutto nei gerghi delle tecnologie digitali e dell’economia, adulterando l’italiano.

Così, vale davvero la pena provare a stare in silenzio, senza “mutarsi”. E imparare a costruire e nominare meglio i cambiamenti.

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