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Le previsioni di un anno difficile tra crisi e mediocre legge di bilancio, con alti costi per imprese e consumatori

Un anno difficile, il 2019. Economia internazionale in affanno, per il continuare dei conflitti commerciali e strategici tra Usa e Cina, soprattutto, ma anche tra gli Usa di Trump e la Ue. Insicurezza diffusa, per i focolai di terrorismo che continuano a coinvolgere le nostre città. Gravi disagi sociali, di cui i flussi migratori sono contemporaneamente una conseguenza e una causa di nuove tensioni. E preoccupazioni crescenti sui temi dell’ambiente e del clima: “2019, fermiamo l’Apocalisse”, sintetizza in copertina “L’Espresso”, nell’ultimo numero del 2018, parlando di “riscaldamento globale, dissesti, inquinamento”, tutte questioni di grande impatto economico e sociale su cui “i grandi del mondo ostentano indifferenza”, pur essendo “una sfida decisiva per il futuro”. “L’anno della resa dei conti”, sostiene Maurizio Molinari, direttore de “La Stampa”, in un editoriale (30 dicembre) in cui enumera i nodi di politica ed economia internazionali per le democrazie in Gran Bretagna, Nord America ed Europa continentale “ferite dalle disuguaglianze, teatro della rivolta dei ceti medi e intimorite dal rischio di stagnazione finanziaria”.

Brexit, crisi di Trump sotto i colpi del “Russiagate” e della sua sempre più criticata incapacità di governo equilibrato e lungimirante, difficoltà dei partiti tradizionali nella Germania del tramonto della Merkel, appannamento delle istituzioni Ue e contestazioni dei partiti nazionalisti e sovranisti, dall’Europa centrale e orientale all’Italia, sono tutti nodi d’attualità, che in un modo o nell’altro si scioglieranno nel 2019. Come, non si sa. Ci sono timori di involuzione della democrazia liberale, come l’abbiamo finora conosciuta e apprezzata. Ma anche possibilità positive di riforma. Insomma, “l’Occidente resta il più vivace laboratorio di novità del Pianeta ma è atteso da una spietata resa dei conti con le sue profonde crisi politiche. L’economia ne è profondamente condizionata. In negativo.

“The next recession. How bad will it be?”, titolava in copertina “The Economist” già nell’ottobre 2018. “L’economia globale sta frenando. E non sarà una locomotiva a salvarci”, sostiene Klaus Schwab, economista tedesco, fondatore, cinquant’anni fa, del World Economic Forum di Davos che ogni anno, a fine gennaio, riunisce sulle montagne svizzere i principali esponenti mondiali dell’economia e delle imprese. Dunque? “Le riforme hanno fallito. Il duello è tra chi le accetta e chi le rifiuta per paura. E dobbiamo compiere tutti gli sforzi per dare una migliore alternativa alle persone che cercano rifugio nel populismo”.

Ecco il punto di crisi: si va avanti tra turbolenze e crisi e si intravvede una nuova recessione, mentre tutta l’economia è coinvolta in un gigantesco, radicale processo di trasformazione che mette in discussione equilibri sociali, culture economiche, scelte produttive, consumi. Una crisi congiunturale si inserisce in una metamorfosi strutturale. E il disagio generale è crescente.

Anche in Italia, naturalmente. Con una duplice aggravante: un’economia più fragile e lenta che nel resto dei grandi paesi della Ue (crescita negativa già negli ultimi mesi del 2018, avvertita anche nelle aree più dinamiche del paese, a cominciare da Milano e dalla Lombardia e nei settori trainanti, come l’auto, in calo di vendite) e un governo che, di fronte alla crisi, muove paure e genera aspettative di “risposte facili” ma non sa costruire politiche di lungo respiro. “A corpo sociale caldo, testa di governo fredda”, ha insegnato il Censis di Giuseppe De Rita, come regola di buon governo. Tutto il contrario di quel che succede.

Del disagio italiano s’è fatto buon interprete il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel tradizionale discorso di fine d’anno, la sera del 31 gennaio 2018. “Sicurezza c’è se tutti si sentono rispettati”, ha detto Mattarella. E ha usato una parola carica di valori, “comunità”: “Sentirsi comunità significa essere consapevoli degli elementi che ci uniscono”, rifiutando “l’astio, l’insulto, l’intolleranza che creano ostilità e timore”. La “sicurezza si realizza garantendo i valori positivi della convivenza”. E sicurezza è anche “lavoro e più equa distribuzione delle opportunità”. Un discorso rapido (dodici minuti) ed essenziale. In cui hanno trovato posto pure i valori dell’Europa, della centralità del Parlamento messo in ombra dalla compressione dei tempi per approvare la legge di bilancio, della solidarietà, con una critica esplicita alla “tassa sulla bontà” e cioè alla scelta della legge di Bilancio di tagliare gli sgravi sull’Ires per le organizzazioni del “terzo settore” e le società no profit (provvedimento contestatissimo, da tutte le istituzioni di assistenza, dalle fondazioni benefiche e dalla Chiesa, tanto da costringere il governo a promettere di fare rapidamente marcia indietro). Un’Italia che ricuce, nelle parole di Mattarella, tutt’altro che intollerante e volgare.

Il discorso del presidente è stato un successo anche mediatico. Sui social (oltre tre milioni di visualizzazioni). E in Tv (oltre dieci milioni di italiani davanti agli schermi televisivi). Sono numeri che la dicono lunga sul bisogno diffuso di autorevolezza responsabile e di istituzioni che rassicurino e indichino prospettive reali di buona vita comune, non paura e allarme sociale. Perché sono davvero preoccupati, gli italiani. Sul futuro. E soprattutto sul lavoro e dunque sull’avvenire dei figli e dei nipoti. Un altro segno di bisogno di prospettive e di spirito positivo di comunità.

Lo mostrano con chiarezza anche i dati del sondaggio dell’Ipsos guidato da Nando Pagnoncelli sulle “priorità degli italiani” (Corriere della Sera, 4 gennaio). Per il 75%, cioè tre italiani su quattro, “l’economia va male” e “il lavoro” è la priorità (la percentuale sul lavoro tocca l’82% nel Mezzogiorno). Welfare e assistenza sono priorità per una minoranza, anche se robusta, il 38% (sono i temi su cui il governo ha centrato la legge di Bilancio: reddito di cittadinanza e pensioni). E l’immigrazione si ferma al 37%, è considerata cioè questione essenziale solo da poco più di un italiano su tre. La sicurezza sta in cima ai pensieri di un italiano su quattro, l’ambiente appena dell’8%, meno di un italiano su dieci.

C’è un secondo elemento di fondo, rilevato dall’Ipsos: i pareri sulla crisi e sulle emergenze sono molto più positivi quando riguardano le zone in cui gli intervistati vivono: a casa si sta tutto sommato bene ma si è allarmati per l’Italia in generale (l’indice positivo passa da 70 nel Nord Est a 47 nel Centro Sud). C’è una questione di comunicazione e di percezione, dunque.

In generale, il 39% degli intervistati ritiene che l’Italia stia andando nella direzione sbagliata, il 35% crede invece che si sia imboccata la strada giusta. Guardando ai dati dello scorso anno, i pessimisti (“la direzione sbagliata”) erano il 66%, contro il 20% di ottimisti. Commenta Pagnoncelli: “L’analisi del clima sociale ci offre il ritratto di un Paese in bilico tra speranza e disillusione e conferma la divaricazione profonda tra la dimensione locale e quella nazionale: il legame con il territorio e il rapporto diretto con la realtà quotidiana restituiscono un quadro nel complesso positivo, sebbene disomogeneo. La realtà nazionale, viceversa, è caratterizzata dall’attitudine ad amplificare la portata di alcuni problemi e a svalutare le condizioni di un paese in cui permangono sicuramente diverse criticità, ma rappresenta pur sempre la seconda realtà manifatturiera europea, anche se solo una minoranza ne è a conoscenza”.

Se il lavoro è in cima ai pensieri degli italiani, proprio l’impresa che lo crea dovrebbe essere al primo posto dell’agenda di un buon governo responsabile. Tutto il contrario di quel che è successo con la legge di Bilancio, più o meno rispettosa delle regole e dei vincoli Ue nei saldi contabili (dopo mesi di inutili e costose polemiche con le autorità di Bruxelles) ma fortemente squilibrata su due misure elettorali: il reddito di cittadinanza caro all’assistenzialismo dei 5Stelle e “quota 100” per le pensioni in linea con le scelte dalla Lega contro la “riforma Fornero” (a discapito, però, delle pensioni medie e medio-alte: quelle di milioni di cittadini anziani, cioè). Per il lavoro e le imprese, nulla. Anzi, peggio: più tasse.

Lo ha documentato l’Upb, l’Autorità di controllo sui conti pubblici, nell’audizione del suo presidente Giuseppe Pisauro alla Camera, il 27 dicembre: la pressione fiscale aumenterà, dopo cinque anni, e salirà nel 2019 al 42,4% rispetto al 42% del 2018 e poi ancora al 42,8% nel 2020, sottraendo risorse al circuito produttivo e ai consumi, con effetti dunque “recessivi” sull’economia.

Un conto analogo arriva dall’Ufficio Studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, che stima un saldo netto di 12,9 miliardi di maggiori imposte nel triennio 2019-2021: a fronte di tagli per 6,8 miliardi sulle partite Iva individuali sino a 100mila euro e di 1,8 miliardi per il settore immobiliare, ci saranno 12,4 miliardi di maggiori tasse: 5,6 su banche e assicurazioni (con effetti negativi sulle imprese e le famiglie, per prestiti e mutui), 2,4 miliardi sulle imprese in generale, 1,3 miliardi sulle aziende digitali e 2,1 miliardi sui gruppi del gioco d’azzardo e 1 altro miliardo per provvedimenti vari ai danni di consumatori e imprese no profit. Previsti anche 7,3 miliardi di maggiori introiti da contribuenti che si metteranno in regola con il fisco, con le numerose forme di condono previste.

A parte l’effetto distorsivo dell’ennesimo condono per le imprese abitualmente in regola con le misure fiscali, il conto è facile: il carico della manovra è tutto a danno di imprese produttive e consumatori. L’effetto recessivo è, anche da questo punto di vista, evidente. Aggravato dallo sblocco, sempre nella legge di Bilancio, delle tassi locali: Comuni e Regioni potranno aumentare le aliquote Irap, Imu, Tasi e le addizionali Irpef. “Ci aspettano più tasse locali. E’ la spia più evidente di quanto taglio della pressione fiscale, crescita e lavoro siano priorità sfumate per il governo. Ed è un errore, che gli italiani stanno cogliendo”, commenta Francesco Giavazzi, economista autorevole, in un editoriale sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio. “L’anno dei rincari”, sottolinea Sandro Neri, direttore de “Il Giorno”: “Un fardello” per le imprese “che si sono trascinate nel 2019 come retaggio dell’anno passato l’incertezza”, che frena investimenti e crescita, con conseguenze negative per tutta l’Italia.

Un anno difficile, il 2019. Economia internazionale in affanno, per il continuare dei conflitti commerciali e strategici tra Usa e Cina, soprattutto, ma anche tra gli Usa di Trump e la Ue. Insicurezza diffusa, per i focolai di terrorismo che continuano a coinvolgere le nostre città. Gravi disagi sociali, di cui i flussi migratori sono contemporaneamente una conseguenza e una causa di nuove tensioni. E preoccupazioni crescenti sui temi dell’ambiente e del clima: “2019, fermiamo l’Apocalisse”, sintetizza in copertina “L’Espresso”, nell’ultimo numero del 2018, parlando di “riscaldamento globale, dissesti, inquinamento”, tutte questioni di grande impatto economico e sociale su cui “i grandi del mondo ostentano indifferenza”, pur essendo “una sfida decisiva per il futuro”. “L’anno della resa dei conti”, sostiene Maurizio Molinari, direttore de “La Stampa”, in un editoriale (30 dicembre) in cui enumera i nodi di politica ed economia internazionali per le democrazie in Gran Bretagna, Nord America ed Europa continentale “ferite dalle disuguaglianze, teatro della rivolta dei ceti medi e intimorite dal rischio di stagnazione finanziaria”.

Brexit, crisi di Trump sotto i colpi del “Russiagate” e della sua sempre più criticata incapacità di governo equilibrato e lungimirante, difficoltà dei partiti tradizionali nella Germania del tramonto della Merkel, appannamento delle istituzioni Ue e contestazioni dei partiti nazionalisti e sovranisti, dall’Europa centrale e orientale all’Italia, sono tutti nodi d’attualità, che in un modo o nell’altro si scioglieranno nel 2019. Come, non si sa. Ci sono timori di involuzione della democrazia liberale, come l’abbiamo finora conosciuta e apprezzata. Ma anche possibilità positive di riforma. Insomma, “l’Occidente resta il più vivace laboratorio di novità del Pianeta ma è atteso da una spietata resa dei conti con le sue profonde crisi politiche. L’economia ne è profondamente condizionata. In negativo.

“The next recession. How bad will it be?”, titolava in copertina “The Economist” già nell’ottobre 2018. “L’economia globale sta frenando. E non sarà una locomotiva a salvarci”, sostiene Klaus Schwab, economista tedesco, fondatore, cinquant’anni fa, del World Economic Forum di Davos che ogni anno, a fine gennaio, riunisce sulle montagne svizzere i principali esponenti mondiali dell’economia e delle imprese. Dunque? “Le riforme hanno fallito. Il duello è tra chi le accetta e chi le rifiuta per paura. E dobbiamo compiere tutti gli sforzi per dare una migliore alternativa alle persone che cercano rifugio nel populismo”.

Ecco il punto di crisi: si va avanti tra turbolenze e crisi e si intravvede una nuova recessione, mentre tutta l’economia è coinvolta in un gigantesco, radicale processo di trasformazione che mette in discussione equilibri sociali, culture economiche, scelte produttive, consumi. Una crisi congiunturale si inserisce in una metamorfosi strutturale. E il disagio generale è crescente.

Anche in Italia, naturalmente. Con una duplice aggravante: un’economia più fragile e lenta che nel resto dei grandi paesi della Ue (crescita negativa già negli ultimi mesi del 2018, avvertita anche nelle aree più dinamiche del paese, a cominciare da Milano e dalla Lombardia e nei settori trainanti, come l’auto, in calo di vendite) e un governo che, di fronte alla crisi, muove paure e genera aspettative di “risposte facili” ma non sa costruire politiche di lungo respiro. “A corpo sociale caldo, testa di governo fredda”, ha insegnato il Censis di Giuseppe De Rita, come regola di buon governo. Tutto il contrario di quel che succede.

Del disagio italiano s’è fatto buon interprete il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel tradizionale discorso di fine d’anno, la sera del 31 gennaio 2018. “Sicurezza c’è se tutti si sentono rispettati”, ha detto Mattarella. E ha usato una parola carica di valori, “comunità”: “Sentirsi comunità significa essere consapevoli degli elementi che ci uniscono”, rifiutando “l’astio, l’insulto, l’intolleranza che creano ostilità e timore”. La “sicurezza si realizza garantendo i valori positivi della convivenza”. E sicurezza è anche “lavoro e più equa distribuzione delle opportunità”. Un discorso rapido (dodici minuti) ed essenziale. In cui hanno trovato posto pure i valori dell’Europa, della centralità del Parlamento messo in ombra dalla compressione dei tempi per approvare la legge di bilancio, della solidarietà, con una critica esplicita alla “tassa sulla bontà” e cioè alla scelta della legge di Bilancio di tagliare gli sgravi sull’Ires per le organizzazioni del “terzo settore” e le società no profit (provvedimento contestatissimo, da tutte le istituzioni di assistenza, dalle fondazioni benefiche e dalla Chiesa, tanto da costringere il governo a promettere di fare rapidamente marcia indietro). Un’Italia che ricuce, nelle parole di Mattarella, tutt’altro che intollerante e volgare.

Il discorso del presidente è stato un successo anche mediatico. Sui social (oltre tre milioni di visualizzazioni). E in Tv (oltre dieci milioni di italiani davanti agli schermi televisivi). Sono numeri che la dicono lunga sul bisogno diffuso di autorevolezza responsabile e di istituzioni che rassicurino e indichino prospettive reali di buona vita comune, non paura e allarme sociale. Perché sono davvero preoccupati, gli italiani. Sul futuro. E soprattutto sul lavoro e dunque sull’avvenire dei figli e dei nipoti. Un altro segno di bisogno di prospettive e di spirito positivo di comunità.

Lo mostrano con chiarezza anche i dati del sondaggio dell’Ipsos guidato da Nando Pagnoncelli sulle “priorità degli italiani” (Corriere della Sera, 4 gennaio). Per il 75%, cioè tre italiani su quattro, “l’economia va male” e “il lavoro” è la priorità (la percentuale sul lavoro tocca l’82% nel Mezzogiorno). Welfare e assistenza sono priorità per una minoranza, anche se robusta, il 38% (sono i temi su cui il governo ha centrato la legge di Bilancio: reddito di cittadinanza e pensioni). E l’immigrazione si ferma al 37%, è considerata cioè questione essenziale solo da poco più di un italiano su tre. La sicurezza sta in cima ai pensieri di un italiano su quattro, l’ambiente appena dell’8%, meno di un italiano su dieci.

C’è un secondo elemento di fondo, rilevato dall’Ipsos: i pareri sulla crisi e sulle emergenze sono molto più positivi quando riguardano le zone in cui gli intervistati vivono: a casa si sta tutto sommato bene ma si è allarmati per l’Italia in generale (l’indice positivo passa da 70 nel Nord Est a 47 nel Centro Sud). C’è una questione di comunicazione e di percezione, dunque.

In generale, il 39% degli intervistati ritiene che l’Italia stia andando nella direzione sbagliata, il 35% crede invece che si sia imboccata la strada giusta. Guardando ai dati dello scorso anno, i pessimisti (“la direzione sbagliata”) erano il 66%, contro il 20% di ottimisti. Commenta Pagnoncelli: “L’analisi del clima sociale ci offre il ritratto di un Paese in bilico tra speranza e disillusione e conferma la divaricazione profonda tra la dimensione locale e quella nazionale: il legame con il territorio e il rapporto diretto con la realtà quotidiana restituiscono un quadro nel complesso positivo, sebbene disomogeneo. La realtà nazionale, viceversa, è caratterizzata dall’attitudine ad amplificare la portata di alcuni problemi e a svalutare le condizioni di un paese in cui permangono sicuramente diverse criticità, ma rappresenta pur sempre la seconda realtà manifatturiera europea, anche se solo una minoranza ne è a conoscenza”.

Se il lavoro è in cima ai pensieri degli italiani, proprio l’impresa che lo crea dovrebbe essere al primo posto dell’agenda di un buon governo responsabile. Tutto il contrario di quel che è successo con la legge di Bilancio, più o meno rispettosa delle regole e dei vincoli Ue nei saldi contabili (dopo mesi di inutili e costose polemiche con le autorità di Bruxelles) ma fortemente squilibrata su due misure elettorali: il reddito di cittadinanza caro all’assistenzialismo dei 5Stelle e “quota 100” per le pensioni in linea con le scelte dalla Lega contro la “riforma Fornero” (a discapito, però, delle pensioni medie e medio-alte: quelle di milioni di cittadini anziani, cioè). Per il lavoro e le imprese, nulla. Anzi, peggio: più tasse.

Lo ha documentato l’Upb, l’Autorità di controllo sui conti pubblici, nell’audizione del suo presidente Giuseppe Pisauro alla Camera, il 27 dicembre: la pressione fiscale aumenterà, dopo cinque anni, e salirà nel 2019 al 42,4% rispetto al 42% del 2018 e poi ancora al 42,8% nel 2020, sottraendo risorse al circuito produttivo e ai consumi, con effetti dunque “recessivi” sull’economia.

Un conto analogo arriva dall’Ufficio Studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, che stima un saldo netto di 12,9 miliardi di maggiori imposte nel triennio 2019-2021: a fronte di tagli per 6,8 miliardi sulle partite Iva individuali sino a 100mila euro e di 1,8 miliardi per il settore immobiliare, ci saranno 12,4 miliardi di maggiori tasse: 5,6 su banche e assicurazioni (con effetti negativi sulle imprese e le famiglie, per prestiti e mutui), 2,4 miliardi sulle imprese in generale, 1,3 miliardi sulle aziende digitali e 2,1 miliardi sui gruppi del gioco d’azzardo e 1 altro miliardo per provvedimenti vari ai danni di consumatori e imprese no profit. Previsti anche 7,3 miliardi di maggiori introiti da contribuenti che si metteranno in regola con il fisco, con le numerose forme di condono previste.

A parte l’effetto distorsivo dell’ennesimo condono per le imprese abitualmente in regola con le misure fiscali, il conto è facile: il carico della manovra è tutto a danno di imprese produttive e consumatori. L’effetto recessivo è, anche da questo punto di vista, evidente. Aggravato dallo sblocco, sempre nella legge di Bilancio, delle tassi locali: Comuni e Regioni potranno aumentare le aliquote Irap, Imu, Tasi e le addizionali Irpef. “Ci aspettano più tasse locali. E’ la spia più evidente di quanto taglio della pressione fiscale, crescita e lavoro siano priorità sfumate per il governo. Ed è un errore, che gli italiani stanno cogliendo”, commenta Francesco Giavazzi, economista autorevole, in un editoriale sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio. “L’anno dei rincari”, sottolinea Sandro Neri, direttore de “Il Giorno”: “Un fardello” per le imprese “che si sono trascinate nel 2019 come retaggio dell’anno passato l’incertezza”, che frena investimenti e crescita, con conseguenze negative per tutta l’Italia.

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