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Le priorità del lavoro come dignità e futuro nell’incontro tra il Papa e gli imprenditori

“Siamo nati e cresciuti in mezzo agli operai, alle macchine e agli sviluppi dell’impresa e abbiamo imparato ben presto ad amare il lavoro, i lavoratori e questa nostra Azienda a cui è legato il meglio della nostra vita”. Sono parole di Alberto Pirelli, scritte nell’aprile del 1946, proprio mentre l’Italia, appena uscita dai disastri della guerra e della dittatura fascista, prova a scrivere, con la Costituzione, le nuove regole della democrazia e del patto civile e a costruire nuove e più solide fondamenta di sviluppo economico e sociale. Sono tempi dolorosi e difficili. Ma anche di speranza e di fiducia in un futuro migliore. Il presidente della Confindustria Angelo Costa e il segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio, due uomini quanto mai diversi per posizione politica, radici culturali e progetti di società, scrivono un patto che, in vista della ricostruzione, dice “prima le fabbriche e poi le case”, privilegiando dunque il lavoro. E appunto sul “lavoro” la Costituzione pone le fondamenta dell’Italia nuova.

Il lavoro, dunque. E l’impresa che lo crea. La dignità della persona, nel lavoro. E lo sviluppo. I valori economici e il patto sociale per la crescita. Parole simili a quelle di Alberto Pirelli, nel loro significato di fondo, si ritrovano anche nei discorsi che motivano le scelte di Enrico Mattei all’Eni, di Oscar Sinigaglia all’Iri, di Adriano Olivetti (nell’impresa di famiglia che diventa rapidamente paradigma di relazioni positive tra industria e comunità) e di una lunga serie di altri imprenditori che nelle grandi città industriali e nell’operosa provincia manifatturiera pongono le fondamenta del boom economico italiano. La tendenza di fondo, antica e contemporanea, sta nella nota sintesi di un grande storico, Carlo Maria Cipolla: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Lavoro, creatività, bellezza (ecco il design, un nostro primato culturale), manifattura di qualità, radici e futuro nei territori produttivi. Produttività e inclusione sociale, nelle fabbriche in cui, all’incrocio tra diritti e doveri, si impara anche a essere cittadini.

C’è un lungo filo culturale e sociale e, perché no?, etico (una vera e propria “morale del tornio”), quello centrato appunto sul lavoro, che lega la storia dell’impresa italiana alla scelta attuale di Confindustria di celebrare lunedì scorso la propria Assemblea nella solenne Sala Nervi in Vaticano, con una udienza di Papa Francesco a cinquemila persone (imprenditori, esponenti del sistema confindustriale e i loro familiari). Sul lavoro, la dignità e il futuro mette l’accento il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Sul lavoro, con particolare attenzione per le donne e i giovani, interviene Papa Francesco, entrando anche con severità nel merito delle responsabilità dell’impresa: condividere la ricchezza “creando lavoro”, tutelare i diritti delle donne madri lavoratrici, evitare eccessive disparità retributive. Con un’insistenza chiara proprio su questo tema: “Esistono gerarchie e funzioni differenti, ma i salari non possono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale e presto si ammala la società”. E, allargando il senso del discorso: “Oggi la quota di valore che va al lavoro è troppo piccola” soprattutto a confronto “con quella che va alle rendite finanziarie e alle rendite del top manager”.

Tornare al cuore dei valori dell’impresa, dunque. Papa Francesco lo esemplifica con efficacia simbolica: “Noi, nella Chiesa, siamo pastori. Se perdiamo l’odore delle pecore, non saremo più pastori. E così gli imprenditori, se perdono contatto con l’odore del lavoro..”. L’odore del fare, della manifattura, della fabbrica, della condivisione di impegno, fatica, fiducia, speranza.

C’è ancora un punto, su cui il Papa sollecita le imprese a fare la loro parte, sulla strada necessaria della “condivisione”: le tasse. “Il patto fiscale è il cuore del patto sociale”, dice. E dunque pagare le tasse, “che devono essere “giuste” ed “eque”, come prescrive la Costituzione, non è “un’usurpazione” ma “un’altra forma di condivisione dei beni”.

La sensibilità del Papa incontra qui una questione su cui la comunità economica discute da tempo: i guasti provocati dalla rapacità della speculazione finanziaria ai danni dell’economia produttiva e degli equilibri sociali messi in crisi dal crescere della disuguaglianze. Si rafforza, anche tra gli attori economici, la consapevolezza di dover privilegiare un’economia fondata sugli stakeholders values (quelli delle comunità, dei dipendenti, dei consumatori, dei fornitori) e non più sul primato assoluto dello shareholder value (i profitti e i corsi di Borsa per gli azionisti) e dunque di dovere costruire modelli e meccanismi economici centrati sulla sostenibilità ambientale e sociale. Il richiamo di Papa Francesco può accelerare e consolidare questo processo di ricerca e di intervento.

La forza del dialogo sta proprio in tali sinergie. Chiesa e imprese sono mondi diversi, ma in relazione. Nelle Sacre Scritture –  ricorda il Papa agli imprenditori – ci sono i trenta denari di Giuda, ma anche i due denari del Buon Samaritano. I talenti ben impiegati. La vigna coltivata con saggezza e sapienza. I mercati scacciati da Gesù dal tempio. E i ricchi misericordiosi. Si tratta di scegliere la capacità di fare, fare bene e fare del bene (un’attitudine peraltro diffusa proprio tra le imprese italiane). E pensare che l’impresa non si limita al confine dell’attività e degli interessi dell’imprenditore ma è “una comunità” di persone che collaborano per “il bene comune”.

Bonomi, facendo leva sulla migliore cultura d’impresa diffusa nel mondo produttivo, parla di “umanesimo industriale” ed evoca i temi della sostenibilità. E d’altronde il Manifesto di Assisi, presentato nel gennaio 2020, promosso da Symbola e dal Francescani della Basilica e firmato da personalità del mondo sociale, culturale ed economico (comprese Confindustria ed Assolombarda) riflette molte delle elaborazioni che vedono in relazione dialettica, profonda e proficua, mondo cattolico e imprenditoria. “L’economia giusta” sollecitata dalle Encicliche del Papa e il pensiero degli economisti che rileggono e rielaborano la lezione di John Maynard Keynes, per un rilancio di un liberalismo responsabile con forte sensibilità sociale camminano su sentieri convergenti. La qualità dello sviluppo sostenibile è un orizzonte comune. Pensando soprattutto alle ragazze e ai ragazzi della Next Generation di cui, nelle indicazioni di strategia politica, si occupa l’Europa.

Ancora un passo avanti può essere fatto approfondendo i temi delle radici comuni tra pensiero religioso e attività economiche. Come suggeriscono anche alcuni recenti buoni libri. Per esempio, “Tra cielo e terra. Economia e finanza nella Bibbia” di Carlo Bellavite Pellegrini, pubblicato da Egea. E soprattutto “Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto” di Luigino Bruni, Il Mulino: dopo la stagione medioevale del “grande codice dell’economia di mercato”, la strada s’è biforcata, con la Riforma protestante che ha animato “il capitalismo nordico” influenzato dalle lezioni di Lutero e Calvino (quell’etica protestante spirito del capitalismo analizzata da Max Weber), mentre la cultura dei mercatores toscani e dei francescani ha fatto da fondamento di un originale “capitalismo meridiano”, appunto. Un patrimonio di idee e di pratiche oggi quanto mai utile per ripensare ruoli e futuro dell’impresa, come soggetto di valori, benessere, inclusione sociale. Attraverso il lavoro, appunto. Con un’avvertenza, su cui Bruni insiste: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci. E se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.

“Siamo nati e cresciuti in mezzo agli operai, alle macchine e agli sviluppi dell’impresa e abbiamo imparato ben presto ad amare il lavoro, i lavoratori e questa nostra Azienda a cui è legato il meglio della nostra vita”. Sono parole di Alberto Pirelli, scritte nell’aprile del 1946, proprio mentre l’Italia, appena uscita dai disastri della guerra e della dittatura fascista, prova a scrivere, con la Costituzione, le nuove regole della democrazia e del patto civile e a costruire nuove e più solide fondamenta di sviluppo economico e sociale. Sono tempi dolorosi e difficili. Ma anche di speranza e di fiducia in un futuro migliore. Il presidente della Confindustria Angelo Costa e il segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio, due uomini quanto mai diversi per posizione politica, radici culturali e progetti di società, scrivono un patto che, in vista della ricostruzione, dice “prima le fabbriche e poi le case”, privilegiando dunque il lavoro. E appunto sul “lavoro” la Costituzione pone le fondamenta dell’Italia nuova.

Il lavoro, dunque. E l’impresa che lo crea. La dignità della persona, nel lavoro. E lo sviluppo. I valori economici e il patto sociale per la crescita. Parole simili a quelle di Alberto Pirelli, nel loro significato di fondo, si ritrovano anche nei discorsi che motivano le scelte di Enrico Mattei all’Eni, di Oscar Sinigaglia all’Iri, di Adriano Olivetti (nell’impresa di famiglia che diventa rapidamente paradigma di relazioni positive tra industria e comunità) e di una lunga serie di altri imprenditori che nelle grandi città industriali e nell’operosa provincia manifatturiera pongono le fondamenta del boom economico italiano. La tendenza di fondo, antica e contemporanea, sta nella nota sintesi di un grande storico, Carlo Maria Cipolla: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Lavoro, creatività, bellezza (ecco il design, un nostro primato culturale), manifattura di qualità, radici e futuro nei territori produttivi. Produttività e inclusione sociale, nelle fabbriche in cui, all’incrocio tra diritti e doveri, si impara anche a essere cittadini.

C’è un lungo filo culturale e sociale e, perché no?, etico (una vera e propria “morale del tornio”), quello centrato appunto sul lavoro, che lega la storia dell’impresa italiana alla scelta attuale di Confindustria di celebrare lunedì scorso la propria Assemblea nella solenne Sala Nervi in Vaticano, con una udienza di Papa Francesco a cinquemila persone (imprenditori, esponenti del sistema confindustriale e i loro familiari). Sul lavoro, la dignità e il futuro mette l’accento il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Sul lavoro, con particolare attenzione per le donne e i giovani, interviene Papa Francesco, entrando anche con severità nel merito delle responsabilità dell’impresa: condividere la ricchezza “creando lavoro”, tutelare i diritti delle donne madri lavoratrici, evitare eccessive disparità retributive. Con un’insistenza chiara proprio su questo tema: “Esistono gerarchie e funzioni differenti, ma i salari non possono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale e presto si ammala la società”. E, allargando il senso del discorso: “Oggi la quota di valore che va al lavoro è troppo piccola” soprattutto a confronto “con quella che va alle rendite finanziarie e alle rendite del top manager”.

Tornare al cuore dei valori dell’impresa, dunque. Papa Francesco lo esemplifica con efficacia simbolica: “Noi, nella Chiesa, siamo pastori. Se perdiamo l’odore delle pecore, non saremo più pastori. E così gli imprenditori, se perdono contatto con l’odore del lavoro..”. L’odore del fare, della manifattura, della fabbrica, della condivisione di impegno, fatica, fiducia, speranza.

C’è ancora un punto, su cui il Papa sollecita le imprese a fare la loro parte, sulla strada necessaria della “condivisione”: le tasse. “Il patto fiscale è il cuore del patto sociale”, dice. E dunque pagare le tasse, “che devono essere “giuste” ed “eque”, come prescrive la Costituzione, non è “un’usurpazione” ma “un’altra forma di condivisione dei beni”.

La sensibilità del Papa incontra qui una questione su cui la comunità economica discute da tempo: i guasti provocati dalla rapacità della speculazione finanziaria ai danni dell’economia produttiva e degli equilibri sociali messi in crisi dal crescere della disuguaglianze. Si rafforza, anche tra gli attori economici, la consapevolezza di dover privilegiare un’economia fondata sugli stakeholders values (quelli delle comunità, dei dipendenti, dei consumatori, dei fornitori) e non più sul primato assoluto dello shareholder value (i profitti e i corsi di Borsa per gli azionisti) e dunque di dovere costruire modelli e meccanismi economici centrati sulla sostenibilità ambientale e sociale. Il richiamo di Papa Francesco può accelerare e consolidare questo processo di ricerca e di intervento.

La forza del dialogo sta proprio in tali sinergie. Chiesa e imprese sono mondi diversi, ma in relazione. Nelle Sacre Scritture –  ricorda il Papa agli imprenditori – ci sono i trenta denari di Giuda, ma anche i due denari del Buon Samaritano. I talenti ben impiegati. La vigna coltivata con saggezza e sapienza. I mercati scacciati da Gesù dal tempio. E i ricchi misericordiosi. Si tratta di scegliere la capacità di fare, fare bene e fare del bene (un’attitudine peraltro diffusa proprio tra le imprese italiane). E pensare che l’impresa non si limita al confine dell’attività e degli interessi dell’imprenditore ma è “una comunità” di persone che collaborano per “il bene comune”.

Bonomi, facendo leva sulla migliore cultura d’impresa diffusa nel mondo produttivo, parla di “umanesimo industriale” ed evoca i temi della sostenibilità. E d’altronde il Manifesto di Assisi, presentato nel gennaio 2020, promosso da Symbola e dal Francescani della Basilica e firmato da personalità del mondo sociale, culturale ed economico (comprese Confindustria ed Assolombarda) riflette molte delle elaborazioni che vedono in relazione dialettica, profonda e proficua, mondo cattolico e imprenditoria. “L’economia giusta” sollecitata dalle Encicliche del Papa e il pensiero degli economisti che rileggono e rielaborano la lezione di John Maynard Keynes, per un rilancio di un liberalismo responsabile con forte sensibilità sociale camminano su sentieri convergenti. La qualità dello sviluppo sostenibile è un orizzonte comune. Pensando soprattutto alle ragazze e ai ragazzi della Next Generation di cui, nelle indicazioni di strategia politica, si occupa l’Europa.

Ancora un passo avanti può essere fatto approfondendo i temi delle radici comuni tra pensiero religioso e attività economiche. Come suggeriscono anche alcuni recenti buoni libri. Per esempio, “Tra cielo e terra. Economia e finanza nella Bibbia” di Carlo Bellavite Pellegrini, pubblicato da Egea. E soprattutto “Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto” di Luigino Bruni, Il Mulino: dopo la stagione medioevale del “grande codice dell’economia di mercato”, la strada s’è biforcata, con la Riforma protestante che ha animato “il capitalismo nordico” influenzato dalle lezioni di Lutero e Calvino (quell’etica protestante spirito del capitalismo analizzata da Max Weber), mentre la cultura dei mercatores toscani e dei francescani ha fatto da fondamento di un originale “capitalismo meridiano”, appunto. Un patrimonio di idee e di pratiche oggi quanto mai utile per ripensare ruoli e futuro dell’impresa, come soggetto di valori, benessere, inclusione sociale. Attraverso il lavoro, appunto. Con un’avvertenza, su cui Bruni insiste: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci. E se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.

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