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Le sfide per il nuovo governo: rilanciare la produttività ferma da vent’anni e creare più innovazione e lavoro

“Green new deal”, taglio del cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori, salario minimo ma “collegato alla contrattazione collettiva”, misure per l’innovazione delle imprese. Ci sono impegni per rimettere in moto l’economia italiana, nel programma di governo del presidente del Consiglio Conte, al suo bis. Nel contesto dei conti pubblici sotto controllo e del legame stretto con una Ue di cui, comunque, rivedere regole e vincoli (secondo il suggerimento che autorevolmente arriva dal Quirinale e che è condiviso anche dalla Commissione di Bruxelles, presieduta da Ursula von der Leyen, con l’italiano Paolo Gentiloni agli Affari Economici). Bene, dunque, dopo la stagione del precedente governo giallo-verde (sempre Conte al vertice, ma meno protagonista) tutto concentrato su assistenzialismo, pensioni anticipate e strapi alle regole Ue per fare spesa pubblica amplificando deficit e debito.

Eppure, a leggere attentamente discorsi, programmi e dichiarazioni dei vertici dei partiti neo-alleati (Pd, M5Stelle e Leu) risaltano le carenze programmatiche e l’assenza d’una vera e propria strategia di politica economica in grado di fare ripartire la crescita. Di una serie di scelte, cioè, capaci di affrontare uno dei nodi essenziali dell’economia: la bassa produttività, sia quella generale del sistema sia la produttività per ora lavorata.

Il punto di partenza è la presa d’atto d’essere un Paese in stagnazione (lo ha documentato l’Istat il 6 settembre, con “crescita zero” anche nel primo semestre 2019 e con “una debolezza dei ritmi produttivi che si è riflessa sull’andamento dell’occupazione). Siamo in coda ai paesi Ue, anche di quelli (Spagna, Portogallo) un tempo in crisi. Risentiamo fortemente delle difficoltà dell’economia tedesca e dei problemi del settore dell’auto, pagando anche un alto prezzo, come paese esportatore, per le tensioni commerciali e valutarie tra Ua e Cina. Ma subiamo anche profondi limiti nostri, interni, di qualità del sistema amministrativo e produttivo.

La produttività italiana – ecco il nodo – è ferma da vent’anni. Anzi, peggio, arretra. Eurostat documenta che la produttività per addetto nell’area dell’euro (19 paesi), facendo base 100 nel 2010, è salita a 105,1 nel 2018, mentre quella italiana è scesa a 98. Perdiamo competitività. Viviamo un invecchiamento e un peggioramento dell’apparato produttivo nrel suo complesso, proprio mentre stanno radicalmente cambiando le ragioni della competitività internazionale, sotto la spinta delle trasformazioni indotte dalla diffusione del “digitale” e dai grandi passi in avanti della cosiddetta “economia della conoscenza”.
Senza affrontare questi temi – produttività e competitività – non c’è crescita possibile, non ci sono opportunità per creare né benessere né lavoro. Gli stessi stimoli ai redditi e ai consumi e le politiche che portano a tassi bassi non possono avere effetti significativi in termini di sviluppo. L’esperienza di questi anni ne è riprova.

Serve dunque una politica economica orientata allo sviluppo. Come? Le indicazioni possibili sono note da tempo, ma inapplicate, soprattutto da chi ha preferito la propaganda della spesa “facile” e dell’assistenza alla ludicità lungimirante delle riforme. Infrastrutture immateriali (quelle hi tech, digitali) e materiali per comunicazione e servizi (ferrovie ad alta velocità, porti, aeroporti, la Gronda di Genova, le autostrade, etc: proprio quelle ostacolate da uno dei partiti che era ed è ancora al governo). Pubblica amministrazione efficiente (e comunque non “svuotata” e semiparalizzata da “quota 100” per le pensioni). Formazione diffusa, di qualità e per corsi lunghi oltre i normali cicli scolastici. Ricerca. Incentivi fiscali per le imprese che innovano e crescono, sulla scia di quanto di buono era stato già fatto dai governi Letta, Renzi e Gentiloni. Un ambizioso programma di investimenti pubblici e di stimolo agli investimenti privati, anche con gli “euro bond” per rinnovare e rafforzare, in quantità e qualità, l’apparato produttivo italiano (è questo, il “green new deal” annunciato da Conte?).
Un punto dev’essere chiaro: non c’è ripresa senza impresa. E non c’è crescita d’impresa se non in un orizzonte di fiducia, di sicurezza, di stabilità.

Negli anni, molte imprese italiane hanno fatto bene il loro mestiere, investendo per innovare, crescere, conquistare mercati nel mondo e creando benessere e lavoro. Sono la leva essenziale della politica economica per la crescita. In molti settori l’Italia continua a essere avanguardia europea: meccatronica, farmaceutica, chimica, gomma-plastica, ma anche le “tre A” della tradizione del made in Italy, alimentare, arredamento e abbigliamento. E ha ragione un economista competente come Marco Fortis quando (“Il Foglio”, 16 luglio) parla di un “Pil1” (quello privato e delle industrie del Nord) e di un “Pil2” (quello pubblico e del Mezzogiorno), d’una produttività dinamica e competitiva e, invece, d’una incapacità di produrre ricchezza e di continuare con “i fallimenti”. Non si tratta, naturalmente, di giocare con le contrapposizioni geografiche o di rivendicare spazi per “il partito del Nord” contro il Sud. Ma di parlare seriamente di sviluppo. Di definire politiche che, facendo leva sulla centralità delle imprese e di quelle manifatturiere soprattutto, riavvii il ciclo virtuoso di crescita e nuovo lavoro.

Le ragioni della scarsa produttività, insomma, stanno nell’apparato pubblico e anche in quell’industria privata (di dimensioni piccole e piccolissime) che non ha saputo innovare e crescere e chiede protezioni, sussidi, aiuti. Tutto quello che una buona politica economica per lo sviluppo non deve fare.

“Green new deal”, taglio del cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori, salario minimo ma “collegato alla contrattazione collettiva”, misure per l’innovazione delle imprese. Ci sono impegni per rimettere in moto l’economia italiana, nel programma di governo del presidente del Consiglio Conte, al suo bis. Nel contesto dei conti pubblici sotto controllo e del legame stretto con una Ue di cui, comunque, rivedere regole e vincoli (secondo il suggerimento che autorevolmente arriva dal Quirinale e che è condiviso anche dalla Commissione di Bruxelles, presieduta da Ursula von der Leyen, con l’italiano Paolo Gentiloni agli Affari Economici). Bene, dunque, dopo la stagione del precedente governo giallo-verde (sempre Conte al vertice, ma meno protagonista) tutto concentrato su assistenzialismo, pensioni anticipate e strapi alle regole Ue per fare spesa pubblica amplificando deficit e debito.

Eppure, a leggere attentamente discorsi, programmi e dichiarazioni dei vertici dei partiti neo-alleati (Pd, M5Stelle e Leu) risaltano le carenze programmatiche e l’assenza d’una vera e propria strategia di politica economica in grado di fare ripartire la crescita. Di una serie di scelte, cioè, capaci di affrontare uno dei nodi essenziali dell’economia: la bassa produttività, sia quella generale del sistema sia la produttività per ora lavorata.

Il punto di partenza è la presa d’atto d’essere un Paese in stagnazione (lo ha documentato l’Istat il 6 settembre, con “crescita zero” anche nel primo semestre 2019 e con “una debolezza dei ritmi produttivi che si è riflessa sull’andamento dell’occupazione). Siamo in coda ai paesi Ue, anche di quelli (Spagna, Portogallo) un tempo in crisi. Risentiamo fortemente delle difficoltà dell’economia tedesca e dei problemi del settore dell’auto, pagando anche un alto prezzo, come paese esportatore, per le tensioni commerciali e valutarie tra Ua e Cina. Ma subiamo anche profondi limiti nostri, interni, di qualità del sistema amministrativo e produttivo.

La produttività italiana – ecco il nodo – è ferma da vent’anni. Anzi, peggio, arretra. Eurostat documenta che la produttività per addetto nell’area dell’euro (19 paesi), facendo base 100 nel 2010, è salita a 105,1 nel 2018, mentre quella italiana è scesa a 98. Perdiamo competitività. Viviamo un invecchiamento e un peggioramento dell’apparato produttivo nrel suo complesso, proprio mentre stanno radicalmente cambiando le ragioni della competitività internazionale, sotto la spinta delle trasformazioni indotte dalla diffusione del “digitale” e dai grandi passi in avanti della cosiddetta “economia della conoscenza”.
Senza affrontare questi temi – produttività e competitività – non c’è crescita possibile, non ci sono opportunità per creare né benessere né lavoro. Gli stessi stimoli ai redditi e ai consumi e le politiche che portano a tassi bassi non possono avere effetti significativi in termini di sviluppo. L’esperienza di questi anni ne è riprova.

Serve dunque una politica economica orientata allo sviluppo. Come? Le indicazioni possibili sono note da tempo, ma inapplicate, soprattutto da chi ha preferito la propaganda della spesa “facile” e dell’assistenza alla ludicità lungimirante delle riforme. Infrastrutture immateriali (quelle hi tech, digitali) e materiali per comunicazione e servizi (ferrovie ad alta velocità, porti, aeroporti, la Gronda di Genova, le autostrade, etc: proprio quelle ostacolate da uno dei partiti che era ed è ancora al governo). Pubblica amministrazione efficiente (e comunque non “svuotata” e semiparalizzata da “quota 100” per le pensioni). Formazione diffusa, di qualità e per corsi lunghi oltre i normali cicli scolastici. Ricerca. Incentivi fiscali per le imprese che innovano e crescono, sulla scia di quanto di buono era stato già fatto dai governi Letta, Renzi e Gentiloni. Un ambizioso programma di investimenti pubblici e di stimolo agli investimenti privati, anche con gli “euro bond” per rinnovare e rafforzare, in quantità e qualità, l’apparato produttivo italiano (è questo, il “green new deal” annunciato da Conte?).
Un punto dev’essere chiaro: non c’è ripresa senza impresa. E non c’è crescita d’impresa se non in un orizzonte di fiducia, di sicurezza, di stabilità.

Negli anni, molte imprese italiane hanno fatto bene il loro mestiere, investendo per innovare, crescere, conquistare mercati nel mondo e creando benessere e lavoro. Sono la leva essenziale della politica economica per la crescita. In molti settori l’Italia continua a essere avanguardia europea: meccatronica, farmaceutica, chimica, gomma-plastica, ma anche le “tre A” della tradizione del made in Italy, alimentare, arredamento e abbigliamento. E ha ragione un economista competente come Marco Fortis quando (“Il Foglio”, 16 luglio) parla di un “Pil1” (quello privato e delle industrie del Nord) e di un “Pil2” (quello pubblico e del Mezzogiorno), d’una produttività dinamica e competitiva e, invece, d’una incapacità di produrre ricchezza e di continuare con “i fallimenti”. Non si tratta, naturalmente, di giocare con le contrapposizioni geografiche o di rivendicare spazi per “il partito del Nord” contro il Sud. Ma di parlare seriamente di sviluppo. Di definire politiche che, facendo leva sulla centralità delle imprese e di quelle manifatturiere soprattutto, riavvii il ciclo virtuoso di crescita e nuovo lavoro.

Le ragioni della scarsa produttività, insomma, stanno nell’apparato pubblico e anche in quell’industria privata (di dimensioni piccole e piccolissime) che non ha saputo innovare e crescere e chiede protezioni, sussidi, aiuti. Tutto quello che una buona politica economica per lo sviluppo non deve fare.

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