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Le troppe cose che gli italiani non si dicono e il bisogno d’una nuova stagione di responsabilità

“L’Italia come una ruota quadrata che non gira e avanza a fatica”, sentenzia il Censis, ancora una volta abile creatore di immagini suggestive, nel rapporto annuale presentato venerdì 4 dicembre. Spaccata in due dalla pandemia, tra gli impiegati pubblici con i posti di lavoro e gli stipendi al sicuro e i dipendenti delle imprese private in gravi difficoltà economiche, tra attività bloccate, cassa integrazione, licenziamenti striscianti e 5 milioni di precari scomparsi. Un’Italia comunque impaurita e incerta, con il futuro incupito, la fiducia in frantumi, il risparmio (per chi ancora può) in crescita clamorosa perché, nell’insicurezza del domani, non si consuma e non si investe. Un’Italia lusingata da chi governa (ma anche da chi sta all’opposizione) con la bonus economy (un sussidio, un aiuto, una pensione anzitempo, un reddito di cittadinanza che invita a non lavorare, una promessa di sostegno, un rinvio delle tasse, tutto a debito, comunque) ma sinora poco e male coinvolta in serie progetti di investimenti per la ripresa e il rilancio.

Un “paese senza”, per riprendere l’efficace titolo di un saggio di Alberto Arbasino del 1980, giusto quarant’anni fa. Un paese che vive spesso di trucchi, inganni, illusioni e dunque di laceranti delusioni che si tramutano in rabbia e rancore. Un paese avvilito da “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)”, come recita il titolo dell’ultimo libro di Ferruccio de Bortoli per Garzanti, denso e appassionato catalogo ben documentato dei giochi delle mezze verità e delle infinite reticenze che avviliscono il nostro discorso pubblico. Un libro severo e tagliente, ricco di dati, fatti e punti di vista ragionati, come peraltro si fa nel buon giornalismo (oramai però raro, purtroppo). Un libro da leggere, sottolineare, rimeditare.

Eppure, nonostante tutto, siamo un paese migliore della rappresentazione corriva che ne viene data. Perché, tra quei dipendenti pubblici che hanno approfittato dello smart working per lavorare ancora meno e senza controlli, ci sono anche le decine di migliaia di medici e operatori sanitari che hanno dato prova di professionalità, responsabilità e dedizione, di poliziotti e carabinieri esposti in prima linea per l’ordine pubblico, di addetti ai servizi che hanno fatto andare treni, autobus e tram, di maestri e professori che hanno continuato a fare scuola, incuranti della mancanza di “banchi con le rotelle” (bizzarrie di governanti privi di senso della realtà) ma attenti, piuttosto, ai contenuti e ai metodi delle loro lezioni, in momenti difficili di didattica a distanza e gravi disagi degli studenti (in decine di migliaia non hanno le connessioni internet né i computer, per potere seguire le lezioni).

Un’Italia ferita ma in movimento, insomma, anche perché, nonostante tutto, le imprese, mettendo i proprio dipendenti in sicurezza, hanno continuato a lavorare, produrre, esportare, creando quella ricchezza da cui dipendono il gettito fiscale, il benessere collettivo, l’occupazione, le possibilità del futuro: l’economia reale contro l’economia dei sussidi che tanto piace a troppi politici in cerca di consenso e clientele.

Per dirla in sintesi: proprio in questi tempi così dolorosi e difficili, l’Italia ha dimostrato di avere un robusto capitale sociale e un diffuso senso di responsabilità, uno spirito di comunità che può fare da base per la ripartenza. E che convive con egoismi, pulsioni corporative, irresponsabilità, in una miscela instabile e pericolosa.

Bisogna, allora, saper costruire una via d’uscita. Come? Un’indicazione viene dal “Discorso alla città” che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha pronunciato, come ogni anno, in occasione della festività di Sant’Ambrogio: è “ingiustificato l’atteggiamento rinunciatario” e al suo posto bisogna insistere su “fiducia” e “speranza”; dunque “dobbiamo scegliere se essere vittime delle paure o edificare una comunità”. Insomma, “elogiamo quelli che rimangono al loro posto nella sanità, nei negozi, a scuola…” perché “grazie a loro la città funziona anche nella pandemia. Farsi carico dei problemi e dei dolori dell’altro, delle “fragilità”. Prendersi cura dei più deboli. E costruire un nuovo senso di partecipazione e di responsabilità. Insiste Delpini: “Non esistono scorciatoie. Le scelte facili del populismo, l’autoritarismo decisionista, la seduzione di personaggi carismatici non rispettano la dignità delle persone. Spesso portano a disastri”. Realismo, piuttosto. Pragmatismo operoso. E impegno “per dare volto all’umanesimo ambrosiano. Un discorso forte, di verità e civiltà.

Riprendiamo in mano il libro di de Bortoli, allora, per capire meglio. Non ci diciamo, per esempio, che “viviamo al di sopra dei nostri mezzi”, investiamo poco, campiamo di rendita sul patrimonio accumulato in passato e soprattutto facciamo crescere il debito pubblico, scaricando cioè il costo del benessere attuale sui figli e i nipoti. La pandemia da Covid19 e la recessione hanno aggravato il quadro, ampliando le dimensioni delle “nuove povertà”. Ma – insiste de Bortoli – preferiamo illuderci sulla bontà dei sussidi (quota 100 per le pensioni, il reddito di cittadinanza, un’infinità di sgravi fiscali) tralasciando invece la necessità di fare crescere la produttività, il lavoro vero con l’impegno delle imprese e gli investimenti in innovazione e formazione, come suggerisce anche il Recovery Plan della Ue.

Ecco un punto fondamentale che sta giustamente a cuore a de Bortoli: non ci diciamo l’importanza della scuola. E così condanniamo irresponsabilmente le nuove generazioni a crescere ignoranti, indebitate e incapaci di fare fronte alle nuove esigenze dell’economia e della società sostenibile e digitale.

Non ci diciamo, inoltre, che in troppi evadono il fisco, scaricando il peso delle tasse su un numero esiguo di persone e di imprese in regola. Che tornare allo “Stato imprenditore” è un errore, dopo i disastro del passato. E che la concorrenza è una strada indispensabile per una crescita equilibrata, anche se in tanti cercano di limitarla o annullarla, per coltivare ancora posizioni di potere e di rendita, al di là delle proprie capacità e dei propri meriti.

L’ultimo capitolo è dedicato alla parsimonia responsabile di Luigi Einaudi, ricordando il suo offrire “mezza mela” all’ospite di un pranzo essenziale. E alla preoccupazione dei genitori degli anni Cinquanta e Sessanta di lavorare, risparmiare e investire per un futuro migliore dei loro figli. “Vivere – nota de Bortoli – non è mai stato facile. E non lo sarà nemmeno in futuro. Il benessere non è un diritto. A volte ci comportiamo come se lo fosse. Il benessere di cittadinanza non c’è, purtroppo. I sacrifici sono ancora più necessari, oggi. Ma nessuno ne parla. Non dobbiamo aspettarci nulla dallo Stato se non lo sorreggeremo con tasse eque e un maggiore senso civico”. Ecco, appunto, cosa dovremmo dirci con chiarezza e insistenza: servono civismo, senso di comunità, responsabilità. C’è una parte ampia dell’Italia che interpreta bene queste qualità sociali. E merita attenzione e rispetto.

“L’Italia come una ruota quadrata che non gira e avanza a fatica”, sentenzia il Censis, ancora una volta abile creatore di immagini suggestive, nel rapporto annuale presentato venerdì 4 dicembre. Spaccata in due dalla pandemia, tra gli impiegati pubblici con i posti di lavoro e gli stipendi al sicuro e i dipendenti delle imprese private in gravi difficoltà economiche, tra attività bloccate, cassa integrazione, licenziamenti striscianti e 5 milioni di precari scomparsi. Un’Italia comunque impaurita e incerta, con il futuro incupito, la fiducia in frantumi, il risparmio (per chi ancora può) in crescita clamorosa perché, nell’insicurezza del domani, non si consuma e non si investe. Un’Italia lusingata da chi governa (ma anche da chi sta all’opposizione) con la bonus economy (un sussidio, un aiuto, una pensione anzitempo, un reddito di cittadinanza che invita a non lavorare, una promessa di sostegno, un rinvio delle tasse, tutto a debito, comunque) ma sinora poco e male coinvolta in serie progetti di investimenti per la ripresa e il rilancio.

Un “paese senza”, per riprendere l’efficace titolo di un saggio di Alberto Arbasino del 1980, giusto quarant’anni fa. Un paese che vive spesso di trucchi, inganni, illusioni e dunque di laceranti delusioni che si tramutano in rabbia e rancore. Un paese avvilito da “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)”, come recita il titolo dell’ultimo libro di Ferruccio de Bortoli per Garzanti, denso e appassionato catalogo ben documentato dei giochi delle mezze verità e delle infinite reticenze che avviliscono il nostro discorso pubblico. Un libro severo e tagliente, ricco di dati, fatti e punti di vista ragionati, come peraltro si fa nel buon giornalismo (oramai però raro, purtroppo). Un libro da leggere, sottolineare, rimeditare.

Eppure, nonostante tutto, siamo un paese migliore della rappresentazione corriva che ne viene data. Perché, tra quei dipendenti pubblici che hanno approfittato dello smart working per lavorare ancora meno e senza controlli, ci sono anche le decine di migliaia di medici e operatori sanitari che hanno dato prova di professionalità, responsabilità e dedizione, di poliziotti e carabinieri esposti in prima linea per l’ordine pubblico, di addetti ai servizi che hanno fatto andare treni, autobus e tram, di maestri e professori che hanno continuato a fare scuola, incuranti della mancanza di “banchi con le rotelle” (bizzarrie di governanti privi di senso della realtà) ma attenti, piuttosto, ai contenuti e ai metodi delle loro lezioni, in momenti difficili di didattica a distanza e gravi disagi degli studenti (in decine di migliaia non hanno le connessioni internet né i computer, per potere seguire le lezioni).

Un’Italia ferita ma in movimento, insomma, anche perché, nonostante tutto, le imprese, mettendo i proprio dipendenti in sicurezza, hanno continuato a lavorare, produrre, esportare, creando quella ricchezza da cui dipendono il gettito fiscale, il benessere collettivo, l’occupazione, le possibilità del futuro: l’economia reale contro l’economia dei sussidi che tanto piace a troppi politici in cerca di consenso e clientele.

Per dirla in sintesi: proprio in questi tempi così dolorosi e difficili, l’Italia ha dimostrato di avere un robusto capitale sociale e un diffuso senso di responsabilità, uno spirito di comunità che può fare da base per la ripartenza. E che convive con egoismi, pulsioni corporative, irresponsabilità, in una miscela instabile e pericolosa.

Bisogna, allora, saper costruire una via d’uscita. Come? Un’indicazione viene dal “Discorso alla città” che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha pronunciato, come ogni anno, in occasione della festività di Sant’Ambrogio: è “ingiustificato l’atteggiamento rinunciatario” e al suo posto bisogna insistere su “fiducia” e “speranza”; dunque “dobbiamo scegliere se essere vittime delle paure o edificare una comunità”. Insomma, “elogiamo quelli che rimangono al loro posto nella sanità, nei negozi, a scuola…” perché “grazie a loro la città funziona anche nella pandemia. Farsi carico dei problemi e dei dolori dell’altro, delle “fragilità”. Prendersi cura dei più deboli. E costruire un nuovo senso di partecipazione e di responsabilità. Insiste Delpini: “Non esistono scorciatoie. Le scelte facili del populismo, l’autoritarismo decisionista, la seduzione di personaggi carismatici non rispettano la dignità delle persone. Spesso portano a disastri”. Realismo, piuttosto. Pragmatismo operoso. E impegno “per dare volto all’umanesimo ambrosiano. Un discorso forte, di verità e civiltà.

Riprendiamo in mano il libro di de Bortoli, allora, per capire meglio. Non ci diciamo, per esempio, che “viviamo al di sopra dei nostri mezzi”, investiamo poco, campiamo di rendita sul patrimonio accumulato in passato e soprattutto facciamo crescere il debito pubblico, scaricando cioè il costo del benessere attuale sui figli e i nipoti. La pandemia da Covid19 e la recessione hanno aggravato il quadro, ampliando le dimensioni delle “nuove povertà”. Ma – insiste de Bortoli – preferiamo illuderci sulla bontà dei sussidi (quota 100 per le pensioni, il reddito di cittadinanza, un’infinità di sgravi fiscali) tralasciando invece la necessità di fare crescere la produttività, il lavoro vero con l’impegno delle imprese e gli investimenti in innovazione e formazione, come suggerisce anche il Recovery Plan della Ue.

Ecco un punto fondamentale che sta giustamente a cuore a de Bortoli: non ci diciamo l’importanza della scuola. E così condanniamo irresponsabilmente le nuove generazioni a crescere ignoranti, indebitate e incapaci di fare fronte alle nuove esigenze dell’economia e della società sostenibile e digitale.

Non ci diciamo, inoltre, che in troppi evadono il fisco, scaricando il peso delle tasse su un numero esiguo di persone e di imprese in regola. Che tornare allo “Stato imprenditore” è un errore, dopo i disastro del passato. E che la concorrenza è una strada indispensabile per una crescita equilibrata, anche se in tanti cercano di limitarla o annullarla, per coltivare ancora posizioni di potere e di rendita, al di là delle proprie capacità e dei propri meriti.

L’ultimo capitolo è dedicato alla parsimonia responsabile di Luigi Einaudi, ricordando il suo offrire “mezza mela” all’ospite di un pranzo essenziale. E alla preoccupazione dei genitori degli anni Cinquanta e Sessanta di lavorare, risparmiare e investire per un futuro migliore dei loro figli. “Vivere – nota de Bortoli – non è mai stato facile. E non lo sarà nemmeno in futuro. Il benessere non è un diritto. A volte ci comportiamo come se lo fosse. Il benessere di cittadinanza non c’è, purtroppo. I sacrifici sono ancora più necessari, oggi. Ma nessuno ne parla. Non dobbiamo aspettarci nulla dallo Stato se non lo sorreggeremo con tasse eque e un maggiore senso civico”. Ecco, appunto, cosa dovremmo dirci con chiarezza e insistenza: servono civismo, senso di comunità, responsabilità. C’è una parte ampia dell’Italia che interpreta bene queste qualità sociali. E merita attenzione e rispetto.

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