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Le università migliori conquistano consensi ma tutte perdono laureati. E la competitività italiana peggiora: paghiamo gravi ritardi tecnologici

Le nostre università migliori crescono nelle classifiche internazionali: sono trentasei, tra le prime mille al mondo. Il Politecnico di Milano è la prima in Italia, al 137° posto della graduatoria Qs World University Ranking 2021, seguita dall’ateneo di Bologna e dalla Sapienza di Roma e da altre 33 università, con un primato di Milano Bicocca per citazioni scientifiche (ai primi posti del Qs ci sono sempre gli Usa, con Mit di Boston, Stanford e Harvard). In un’altra classifica, quella del “Financial Times”, la laurea in Finanza dell’Università Bocconi è la settima al mondo, dopo cinque università francesi e la svizzera St.Gallen, ma prima dello Sloan del Mit e dell’Imperial College di Londra.

Ecco una buona notizia, dunque: primati nel mondo della formazione di cui essere fieri.
E però – ecco la cattiva notizia – le nostre università, in generale, perdono immatricolati, 37mila iscritti in meno negli ultimi quindici anni. Di recente, è vero, stavamo recuperando giovani, ma i primi mesi della pandemia Covid 19 hanno bloccato tutto. E, ancora peggio, proprio a causa della stretta tra dramma sanitario e recessione conseguente, l’occupazione dei laureati crolla del 9%, sempre nei primi cinque mesi del 2020.
A leggere contemporaneamente questi dati, anche se diversi tra loro, un elemento salta agli occhi dell’osservatore critico: in una stagione in cui cresce l’importanza della “economia della conoscenza”, l’Italia perde colpi. Pochi laureati, rispetto agli altri paesi europei. In caduta, per giunta. E dunque competitività in crisi.

Ecco il tema chiave: la competitività carente. La crescita economica italiana arranca da vent’anni. La produttività del sistema Paese è ferma. E la spinta che viene dalle imprese migliori che innovano, investono, esportano non riesce naturalmente a compensare l’improduttività della pubblica amministrazione, di molti servizi pubblici sottratti alle dinamiche di mercato e piegati alle cattive ragioni clientelari di settori politici, di parecchie delle stesse imprese che non si evolvono e preferiscono vivacchiare di protezioni e sussidi (il caso Alitalia è solo l’esempio più clamoroso).
Purtroppo, agli Stati Generali convocati dal governo Conte e in corso a Roma, le parole “competitività” e “produttività” risuonano molto poco, tranne che nei giudizi degli imprenditori sull’evento. Eppure, proprio questo dovrebbe essere il problema centrale cui provare a dare risposte di governo, con scelte serie e conseguenti. Pena la permanenza nella palude.

I grandi pilastri dello sviluppo economico, soprattutto nei paesi di più robusta industrializzazione, sono sostanzialmente due. La green economy e cioè una scelta di sostenibilità ambientale e sociale per la crescita equilibrata che non devasti le risorse naturali e corregga radicalmente le diseguaglianze sociali sempre più inaccettabili. E gli investimenti per la digital economy, per prodotti e servizi in grado di trarre vantaggio dalle opportunità dell’Intelligenza Artificiale, dei big data, del cloud computing, della robotica e di tutti gli sviluppi del cosiddetto Internet of things.
Sono proprio queste, d’altronde, le indicazioni che vengono dalla Ue, per l’impiego delle risorse del Recovery Fund “Next Generation” per provare a uscire da pandemia e recessione: grandi investimenti in infrastrutture, sia materiali che immateriali, lo sviluppo del 5G d’impronta europea, una radicale innovazione delle nostre economie, per affrontare finalmente le questioni della qualità e della sostenibilità dello sviluppo e mettere a punto culture e politiche economiche e sociali convergenti per mettere l’Europa e i singoli paesi in grado di affrontare gli shock sanitari e le grandi sfide dell’ambiente (come ridurre il Climate change senza azzerare la crescita economica e anzi rafforzandola) e degli equilibri sociali.

Come fare? Investire su ricerca, istruzione, formazione lungo tutto il corso della vita. E guidare le trasformazioni che l’evoluzione dell’economia digitale impone alle nostre vite, cambiandole e spesso migliorandole (proprio in questi mesi di pandemia e lockdown ne abbiamo visto le implicazioni sulla salute, il lavoro, la scuola, i trasporti, i servizi).
Servono conoscenze e competenze, cultura, dinamismo economico, impegno sulla scienza, la ricerca, la formazione, l’innovazione.
L’Italia, su questo terreno, è molto indietro. I laureati sono solo il 19% della popolazione, rispetto a una media Ocse del 37%. E moltissimi dei nostri ragazzi con una buona laurea in tasca se ne vanno all’estero, in cerca di migliori occasioni di vita e di lavoro. Siamo al terz’ultimo posto in Europa per grado di digitalizzazione e all’ultimo addirittura per “competenze digitali” (lo rivela l’indice Desi della Commissione Ue – Il Sole24Ore, 12 giugno). Scontiamo un drammatico ritardo tecnologico. E la diminuzione del numero degli iscritti all’università e dei laureati, di cui abbiamo parlato all’inizio, non può che peggiorare il quadro. L’avere un nucleo di università eccellenti e competitive, a livello internazionale, è motivo di soddisfazione e di orgoglio italiano, ma non colma il divario del sistema Paese. Dice semmai che, seguendo l’esempio delle strutture migliori, tutto l’apparato della scuola e della formazione, a ogni livello, può migliorare molto. Purche ci siano investimenti adeguati, scelte politiche sulla qualità, premi al merito e alla competenza.

E’ indispensabile, dunque, investire sulla formazione. Sulla scuole e sull’università. Sulla ricerca, la scienza e il trasferimento tecnologico. Sull’innovazione digitale che trasformi tutte le strutture del Paese, nel segno di un forte recupero di competitività.
E’ importante che, al di là di passerelle e retoriche, gli Stati Generali si concentrino su questi temi. E che il governo e le forze politiche, studiando di più e meglio ed evitando facili scelte comunicative da propaganda, si mostrino finalmente capaci di essere coerenti con le possibilità messe in campo, in dimensioni straordinarie, dalla Ue. Evitando di disperdere i fondi europei. E dando finalmente all’Italia quel che le spetta e che ancora una volta, con le fatiche di questi mesi, ha meritato: un migliore cammino di sviluppo, soprattutto per le nuove generazioni.

Le nostre università migliori crescono nelle classifiche internazionali: sono trentasei, tra le prime mille al mondo. Il Politecnico di Milano è la prima in Italia, al 137° posto della graduatoria Qs World University Ranking 2021, seguita dall’ateneo di Bologna e dalla Sapienza di Roma e da altre 33 università, con un primato di Milano Bicocca per citazioni scientifiche (ai primi posti del Qs ci sono sempre gli Usa, con Mit di Boston, Stanford e Harvard). In un’altra classifica, quella del “Financial Times”, la laurea in Finanza dell’Università Bocconi è la settima al mondo, dopo cinque università francesi e la svizzera St.Gallen, ma prima dello Sloan del Mit e dell’Imperial College di Londra.

Ecco una buona notizia, dunque: primati nel mondo della formazione di cui essere fieri.
E però – ecco la cattiva notizia – le nostre università, in generale, perdono immatricolati, 37mila iscritti in meno negli ultimi quindici anni. Di recente, è vero, stavamo recuperando giovani, ma i primi mesi della pandemia Covid 19 hanno bloccato tutto. E, ancora peggio, proprio a causa della stretta tra dramma sanitario e recessione conseguente, l’occupazione dei laureati crolla del 9%, sempre nei primi cinque mesi del 2020.
A leggere contemporaneamente questi dati, anche se diversi tra loro, un elemento salta agli occhi dell’osservatore critico: in una stagione in cui cresce l’importanza della “economia della conoscenza”, l’Italia perde colpi. Pochi laureati, rispetto agli altri paesi europei. In caduta, per giunta. E dunque competitività in crisi.

Ecco il tema chiave: la competitività carente. La crescita economica italiana arranca da vent’anni. La produttività del sistema Paese è ferma. E la spinta che viene dalle imprese migliori che innovano, investono, esportano non riesce naturalmente a compensare l’improduttività della pubblica amministrazione, di molti servizi pubblici sottratti alle dinamiche di mercato e piegati alle cattive ragioni clientelari di settori politici, di parecchie delle stesse imprese che non si evolvono e preferiscono vivacchiare di protezioni e sussidi (il caso Alitalia è solo l’esempio più clamoroso).
Purtroppo, agli Stati Generali convocati dal governo Conte e in corso a Roma, le parole “competitività” e “produttività” risuonano molto poco, tranne che nei giudizi degli imprenditori sull’evento. Eppure, proprio questo dovrebbe essere il problema centrale cui provare a dare risposte di governo, con scelte serie e conseguenti. Pena la permanenza nella palude.

I grandi pilastri dello sviluppo economico, soprattutto nei paesi di più robusta industrializzazione, sono sostanzialmente due. La green economy e cioè una scelta di sostenibilità ambientale e sociale per la crescita equilibrata che non devasti le risorse naturali e corregga radicalmente le diseguaglianze sociali sempre più inaccettabili. E gli investimenti per la digital economy, per prodotti e servizi in grado di trarre vantaggio dalle opportunità dell’Intelligenza Artificiale, dei big data, del cloud computing, della robotica e di tutti gli sviluppi del cosiddetto Internet of things.
Sono proprio queste, d’altronde, le indicazioni che vengono dalla Ue, per l’impiego delle risorse del Recovery Fund “Next Generation” per provare a uscire da pandemia e recessione: grandi investimenti in infrastrutture, sia materiali che immateriali, lo sviluppo del 5G d’impronta europea, una radicale innovazione delle nostre economie, per affrontare finalmente le questioni della qualità e della sostenibilità dello sviluppo e mettere a punto culture e politiche economiche e sociali convergenti per mettere l’Europa e i singoli paesi in grado di affrontare gli shock sanitari e le grandi sfide dell’ambiente (come ridurre il Climate change senza azzerare la crescita economica e anzi rafforzandola) e degli equilibri sociali.

Come fare? Investire su ricerca, istruzione, formazione lungo tutto il corso della vita. E guidare le trasformazioni che l’evoluzione dell’economia digitale impone alle nostre vite, cambiandole e spesso migliorandole (proprio in questi mesi di pandemia e lockdown ne abbiamo visto le implicazioni sulla salute, il lavoro, la scuola, i trasporti, i servizi).
Servono conoscenze e competenze, cultura, dinamismo economico, impegno sulla scienza, la ricerca, la formazione, l’innovazione.
L’Italia, su questo terreno, è molto indietro. I laureati sono solo il 19% della popolazione, rispetto a una media Ocse del 37%. E moltissimi dei nostri ragazzi con una buona laurea in tasca se ne vanno all’estero, in cerca di migliori occasioni di vita e di lavoro. Siamo al terz’ultimo posto in Europa per grado di digitalizzazione e all’ultimo addirittura per “competenze digitali” (lo rivela l’indice Desi della Commissione Ue – Il Sole24Ore, 12 giugno). Scontiamo un drammatico ritardo tecnologico. E la diminuzione del numero degli iscritti all’università e dei laureati, di cui abbiamo parlato all’inizio, non può che peggiorare il quadro. L’avere un nucleo di università eccellenti e competitive, a livello internazionale, è motivo di soddisfazione e di orgoglio italiano, ma non colma il divario del sistema Paese. Dice semmai che, seguendo l’esempio delle strutture migliori, tutto l’apparato della scuola e della formazione, a ogni livello, può migliorare molto. Purche ci siano investimenti adeguati, scelte politiche sulla qualità, premi al merito e alla competenza.

E’ indispensabile, dunque, investire sulla formazione. Sulla scuole e sull’università. Sulla ricerca, la scienza e il trasferimento tecnologico. Sull’innovazione digitale che trasformi tutte le strutture del Paese, nel segno di un forte recupero di competitività.
E’ importante che, al di là di passerelle e retoriche, gli Stati Generali si concentrino su questi temi. E che il governo e le forze politiche, studiando di più e meglio ed evitando facili scelte comunicative da propaganda, si mostrino finalmente capaci di essere coerenti con le possibilità messe in campo, in dimensioni straordinarie, dalla Ue. Evitando di disperdere i fondi europei. E dando finalmente all’Italia quel che le spetta e che ancora una volta, con le fatiche di questi mesi, ha meritato: un migliore cammino di sviluppo, soprattutto per le nuove generazioni.

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