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L’economia della bellezza vale il 24% del Pil: qualità e innovazioni da fare crescere 

“L’economia della bellezza” vale il 24% del Pil. Determina la competitività delle imprese sui mercati internazionali e dunque incide profondamente sul peso e sul prestigio dell’Italia nel mondo. Ed è la leva determinante per cercare di costruire un futuro economico e sociale migliore. Il dato emerge da uno studio recente di Banca Ifis che, per il secondo anno, ha provato a determinare, proprio in un momento cruciale di crisi e di ripresa, il biennio della pandemia ’20-’21, il valore di quelle imprese (manifattura e servizi) che fanno, appunto della “bellezza” (qualità, design, relazione ottimale tra forma e funzione, raporti virtuosi con gli stakeholders, la sintesi tra le due dimensioni di kalos kai agathos di origine greca) un elemento distintivo della propria identità, una caratteristica della purpose economy (quella delle imprese che hanno uno scopo sociale, un social impact in termini di sostenibilità), un vantaggio competitivo, appunto.

Lo studio di Banca Ifis,  verificato con le valutazioni di Museimpresa, Federculture e Altagamma e approfondito dall’analisi di sei casi aziendali (Lavazza, Foscarini, Trend Group, Mevive, Serveco, ACBC), è stato presentato in pubblico a metà giugno, a Mestre, a Villa Fürstenberg, sede dell’istituto di credito. Documenta come il 58%  degli italiani veda nei valori di un’impresa un parametro decisivo nella scelta di prodotti e servizi. Guarda ai vari settori dell’attività industriale (dal tradizionale made in Italy di abbigliamento, arredamento e agroalimentare alla meccatronica, alla chimica e alla farmaceutica e ad altri settori high tech di qualità). E mostra come l’impatto sul Pil dell’ecosistema “Economia dela bellezza” e purpose driven (imprese grandi, ma anche medie e piccole, distretti e filiere produttive) sia cresciuto dal 17,2% del 2019 al 24% di oggi.

Sviluppo di qualità. Capitale sociale positivo. Da valorizzare. E raccontare. Perché raccontare le imprese significa, appunto, dare spazio ai valori che fanno crescere economia e società: l’intraprendenza, l’innovazione, l’attenzione per le persone, il benessere diffuso, l’inclusione, la cura per la sostenibilità. Una cultura che lega competitività e solidarietà, radici storiche e cambiamenti.

La conferma sta proprio nella nostra storia, secondo la definizione di Carlo Maria Cipolla, uno dei maggiori storici del Novecento: «Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo». Un’antica cultura manifatturiera, appunto, legata a territori in cui il senso della bellezza innerva il sistema produttivo ed esprime un’inclinazione alla qualità che conquista i più esigenti mercati internazionali. E una serie di successi nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto, dalla moda al design, ma anche dalla meccatronica all’automotive, dalla nautica alla chimica e agli altri settori dell’eccellenza del made in Italy.

La forza delle imprese sta, appunto, in una “cultura politecnica” in cui i saperi umanistici si ibridano con la conoscenze scientifiche, in sintonia con le spinte all’innovazione. E il nostro “umanesimo industriale” è una formidabile condizione di competitività. Il tempo della storia si declina al futuro. E le nuove generazioni di donne e uomini d’impresa crescono forti di una straordinaria originalità di prodotti e servizi. L’heritage aziendale è non solo consapevolezza della tradizione che connota le imprese d’origine familiari, ma è soprattutto un’efficace leva di identità e competitività.

C’è, appunto, una grande capacità produttiva, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, il grande architetto teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».

L’economia della bellezza, al di là di ciò di cui comunemente si parla tra moda e arredamento, sta anche nel design e nell’efficienza d’una cerniera meccanica, in una macchina utensile, nel braccio mobile e nella testina rotante d’un robot, in un tornio digitale, nel battistrada d’un pneumatico, nella mappa completa del Dna pubblicata da Science (a tracciarla hanno contributo anche scienziati italiani, del dipartimento di Biologia dell’università di Bari), nell’incastro a nido di rondine d’una libreria, nel vetro speciale temperato dei serramenti d’una grande barca e nella forma della prua d’un motoscafo in legno, nella formula chimica d’una vertice speciale o d’un farmaco salvavita. Ecco, in una formula chimica.

Per capire meglio, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi (pubblicato da Einaudi: a proposito, l’economia della bellezza sta pure nei caratteri e nelle grafiche eleganti d’una copertina di libro), sfogliarne le pagine e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.

Bellezza, dunque. Qualità. Equilibrio delle forme e delle funzioni. Design, insomma. Sono le caratteristiche che connotano la produttività e quindi la competitività delle imprese italiane e che consentono di parlare, nonostante tutto, di tenuta economica e di possibilità di ripresa anche in questi tempi così difficili, carichi di pericoli e feriti dall’incertezza. Infatti, per non arrendersi alla paura e ai rischi di degrado economico e sociale e attrezzarsi a fronteggiare i picchi di inflazione e le fratture da shortage economy (la penuria di materie prime e semilavorati, a cominciare dai microchip) è necessario insistere sulla necessità di politiche pubbliche nazionali ed europee ma anche affidarsi alle capacità, tutte italiane, di fare, fare bene e dunque fare del bene. E la nostra manifattura e i servizi collegati ne sono  testimoni attivi, credibili, orientati al futuro.

Gli eventi drammatici che stiamo vivendo (le conseguenze del Climate change, la pandemia da Covid 19 e la recessione, adesso la guerra in Ucraina e la crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio) spingono con urgenza verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale.

Servono dunque una rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e la scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, per riconsiderare scelte politiche, economiche e culturali sul “progresso” e sugli equilibri geografici, sociali, di genere e di generazione. La chiave da usare è quella della sostenibilità, ambientale e sociale. Con una profonda convinzione riformatrice: non si tratta di mettere in campo operazioni da green washing né aggiustamenti assistenziali. Ma di pensare a un nuovo corso politico ed economico, secondo i criteri di una “economia giusta”, circolare, civile (per riprendere la lezione del Papa, della migliore letteratura economica internazionale ma anche dei più sensibili protagonisti della finanza e dell’impresa).

Le imprese italiane, appunto, hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la storia economica del Paese.

“L’economia della bellezza” vale il 24% del Pil. Determina la competitività delle imprese sui mercati internazionali e dunque incide profondamente sul peso e sul prestigio dell’Italia nel mondo. Ed è la leva determinante per cercare di costruire un futuro economico e sociale migliore. Il dato emerge da uno studio recente di Banca Ifis che, per il secondo anno, ha provato a determinare, proprio in un momento cruciale di crisi e di ripresa, il biennio della pandemia ’20-’21, il valore di quelle imprese (manifattura e servizi) che fanno, appunto della “bellezza” (qualità, design, relazione ottimale tra forma e funzione, raporti virtuosi con gli stakeholders, la sintesi tra le due dimensioni di kalos kai agathos di origine greca) un elemento distintivo della propria identità, una caratteristica della purpose economy (quella delle imprese che hanno uno scopo sociale, un social impact in termini di sostenibilità), un vantaggio competitivo, appunto.

Lo studio di Banca Ifis,  verificato con le valutazioni di Museimpresa, Federculture e Altagamma e approfondito dall’analisi di sei casi aziendali (Lavazza, Foscarini, Trend Group, Mevive, Serveco, ACBC), è stato presentato in pubblico a metà giugno, a Mestre, a Villa Fürstenberg, sede dell’istituto di credito. Documenta come il 58%  degli italiani veda nei valori di un’impresa un parametro decisivo nella scelta di prodotti e servizi. Guarda ai vari settori dell’attività industriale (dal tradizionale made in Italy di abbigliamento, arredamento e agroalimentare alla meccatronica, alla chimica e alla farmaceutica e ad altri settori high tech di qualità). E mostra come l’impatto sul Pil dell’ecosistema “Economia dela bellezza” e purpose driven (imprese grandi, ma anche medie e piccole, distretti e filiere produttive) sia cresciuto dal 17,2% del 2019 al 24% di oggi.

Sviluppo di qualità. Capitale sociale positivo. Da valorizzare. E raccontare. Perché raccontare le imprese significa, appunto, dare spazio ai valori che fanno crescere economia e società: l’intraprendenza, l’innovazione, l’attenzione per le persone, il benessere diffuso, l’inclusione, la cura per la sostenibilità. Una cultura che lega competitività e solidarietà, radici storiche e cambiamenti.

La conferma sta proprio nella nostra storia, secondo la definizione di Carlo Maria Cipolla, uno dei maggiori storici del Novecento: «Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo». Un’antica cultura manifatturiera, appunto, legata a territori in cui il senso della bellezza innerva il sistema produttivo ed esprime un’inclinazione alla qualità che conquista i più esigenti mercati internazionali. E una serie di successi nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto, dalla moda al design, ma anche dalla meccatronica all’automotive, dalla nautica alla chimica e agli altri settori dell’eccellenza del made in Italy.

La forza delle imprese sta, appunto, in una “cultura politecnica” in cui i saperi umanistici si ibridano con la conoscenze scientifiche, in sintonia con le spinte all’innovazione. E il nostro “umanesimo industriale” è una formidabile condizione di competitività. Il tempo della storia si declina al futuro. E le nuove generazioni di donne e uomini d’impresa crescono forti di una straordinaria originalità di prodotti e servizi. L’heritage aziendale è non solo consapevolezza della tradizione che connota le imprese d’origine familiari, ma è soprattutto un’efficace leva di identità e competitività.

C’è, appunto, una grande capacità produttiva, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, il grande architetto teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».

L’economia della bellezza, al di là di ciò di cui comunemente si parla tra moda e arredamento, sta anche nel design e nell’efficienza d’una cerniera meccanica, in una macchina utensile, nel braccio mobile e nella testina rotante d’un robot, in un tornio digitale, nel battistrada d’un pneumatico, nella mappa completa del Dna pubblicata da Science (a tracciarla hanno contributo anche scienziati italiani, del dipartimento di Biologia dell’università di Bari), nell’incastro a nido di rondine d’una libreria, nel vetro speciale temperato dei serramenti d’una grande barca e nella forma della prua d’un motoscafo in legno, nella formula chimica d’una vertice speciale o d’un farmaco salvavita. Ecco, in una formula chimica.

Per capire meglio, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi (pubblicato da Einaudi: a proposito, l’economia della bellezza sta pure nei caratteri e nelle grafiche eleganti d’una copertina di libro), sfogliarne le pagine e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.

Bellezza, dunque. Qualità. Equilibrio delle forme e delle funzioni. Design, insomma. Sono le caratteristiche che connotano la produttività e quindi la competitività delle imprese italiane e che consentono di parlare, nonostante tutto, di tenuta economica e di possibilità di ripresa anche in questi tempi così difficili, carichi di pericoli e feriti dall’incertezza. Infatti, per non arrendersi alla paura e ai rischi di degrado economico e sociale e attrezzarsi a fronteggiare i picchi di inflazione e le fratture da shortage economy (la penuria di materie prime e semilavorati, a cominciare dai microchip) è necessario insistere sulla necessità di politiche pubbliche nazionali ed europee ma anche affidarsi alle capacità, tutte italiane, di fare, fare bene e dunque fare del bene. E la nostra manifattura e i servizi collegati ne sono  testimoni attivi, credibili, orientati al futuro.

Gli eventi drammatici che stiamo vivendo (le conseguenze del Climate change, la pandemia da Covid 19 e la recessione, adesso la guerra in Ucraina e la crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio) spingono con urgenza verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale.

Servono dunque una rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e la scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, per riconsiderare scelte politiche, economiche e culturali sul “progresso” e sugli equilibri geografici, sociali, di genere e di generazione. La chiave da usare è quella della sostenibilità, ambientale e sociale. Con una profonda convinzione riformatrice: non si tratta di mettere in campo operazioni da green washing né aggiustamenti assistenziali. Ma di pensare a un nuovo corso politico ed economico, secondo i criteri di una “economia giusta”, circolare, civile (per riprendere la lezione del Papa, della migliore letteratura economica internazionale ma anche dei più sensibili protagonisti della finanza e dell’impresa).

Le imprese italiane, appunto, hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la storia economica del Paese.

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