L’economia della felicità non premia l’Italia ma la sostenibilità trova nuovi sostenitori tra i consumatori e le imprese
“I soldi non danno la felicità”, proclama un vecchio modo di dire popolare. Nemmeno la loro assoluta mancanza, peraltro. C’è, semmai, da considerare l’importanza di una cosiddetta “economia della felicità”, calcolata dal World Happiness Report, pubblicato dalle Nazioni Unite e impegnato a misurare “la qualità della vita”, come obiettivo economico, politico e sociale. Soldi, benessere e felicità possono stare bene insieme.
Il World Happiness Report viene reso noto in occasione della “Giornata mondiale della felicità”, il 20 marzo di ogni anno, sulla base di un accordo raggiunto il 28 giugno del 2012 dai 193 Stati membri dell’Assemblea dell’Onu. E la classifica adesso vede in testa Finlandia, Danimarca e Islanda, seguite da Israele, Olanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo e Nuova Zelanda. L’Italia è al 33° posto, meno felice di Germania (al 16°) e Francia (al 21°). In coda, ci sono Sierra Leone, Libano e Afghanistan.
La classifica si basa su sei fattori: il supporto sociale, il reddito, la libertà nel poter compiere scelte di vita, la generosità e l’assenza di corruzione nel Paese. È discutibile, come ogni classifica. Si basa in gran parte sulla percezione degli intervistati (gli italiani sono notoriamente inclini a parlare male di sé e a lamentarsi). E’ fortemente influenzabile da fattori emotivi legati agli eventi di cronaca. Ma, fatte tutte le debite precisazioni e la tara di rito, è comunque profondamente indicativa. Non solo della percezione di sé e degli stati d’animo più diffusi di un Paese, ma soprattutto della necessità di calcolare non solo e non tanto la ricchezza, quando soprattutto il benessere. Un indicatore fondamentale verso cui orientare le politiche pubbliche (la spesa in sanità, istruzione, welfare, superamento di diseguaglianze e discriminazioni) ma anche gli investimenti delle imprese in produzioni sostenibili da punto di vista ambientale e sociale e attente alle esigenze di consumatori e stakeholders.
Se ne parlerà, nei prossimi giorni, durante il World Happiness Summit, a Como, dal 24 al 26 marzo, con la partecipazione di Karen Guggenheim, fondatrice dell’iniziativa e di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002. “L’obiettivo deve essere una società più felice. E per raggiungerlo è necessario che le persone lo siano non solo individualmente, ma soprattutto aiutandosi l’un l’altra”, spiega Jeffrey Sachs, presidente di United Nations Sustainable Development Solutions Nerwork, uno degli economisti più attenti ai grandi temi della sostenibilità (“La Stampa”, 20 marzo).
Aggiunge John Helliwell, che con Sachs e Richard Layard ha intervistato un ampio campione di abitanti di oltre 150 Paesi, per redigere il Word Happiness Report: “C’è un cambiamento profondo in tutto il mondo: le persone riconoscono che il progresso non dovrebbe portare solo crescita economica a tutti i costi ma anche benessere e felicità”.
Andare oltre i parametri del Pil, dunque. Dare spazio non solo alla quantità della ricchezza prodotta, ma soprattutto alla qualità. “Misurare ciò che conta”, il benessere, appunto, per riprendere il titolo di un essenziale saggio di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand (Einaudi, 2021). Seguire le indicazioni del Bes (l’indice del “Benessere equo e sostenibile” elaborato dell’Istat per valutare le strategie degli investimenti pubblici di ogni Legge Finanziaria in Italia). Rendere, insomma, sempre più concrete le scelte per raggiungere i 17 “Sustainable Development Goals” degli Accordi Onu di Parigi.
L’Italia, nonostante non sia ufficialmente nelle prime file della “felicità”, proprio su questi temi rivela da tempo una sensibilità crescente, che orienta anche le strategie e i comportamenti delle imprese più responsabili, chiaramente convinte che l’impegno sincero e trasparente sulla sostenibilità sia un fattore fondamentale di produttività e competitività.
La conferma arriva da un recente Rapporto di Fondazione Symbola e Ipsos (”Corriere della Sera”, 20 marzo): i prodotti a minor impatto sono preferiti per la loro qualità dal 56% dei consumatori. “Si va sempre più decisamente verso un’economia a misura d’uomo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola. Perché “è iniziata una nuova era della sostenibilità, che tocca ogni settore e la società tutta, in modo trasversale”. E questa idea “non viene più percepita come un diktat calato dall’alto, ma diventa un obiettivo socialmente desiderabile e, per questo, anche più facilmente raggiungibile”.
Nei Rapporti di Symbola, da tempo, si documenta, per esempio, che le imprese più “coesive” sono anche quelle più competitive, anche sui mercati internazionali. E che le imprese italiane sono all’avanguardia in Europa sui temi dell’economia circolare e del riciclo, con effetti positivi sull’ambiente in generale, ma anche sul loro conto economico. L’aumento della sensibilità dei consumatori rafforza il processo. Con un miglioramento della coscienza politica diffusa.
Commenta Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos: “L’ambientalismo è uscito dalla dimensione del ‘no’ a tutti i costi ed è diventato un’opportunità di crescita economica come di beneficio per il singolo e la società. Ed è un fatto oramai chiaro che le imprese credibili in termini ambientali e sociali godano di una maggiore fidelizzazione da parte del consumatore e di una crescita più rapida”.
L’economia della felicità, in altri termini, ha una sua forte valenza etica. Ma anche un suo vantaggio. In sintesi: fare, fare bene, fare del bene.
(foto Getty Images)
“I soldi non danno la felicità”, proclama un vecchio modo di dire popolare. Nemmeno la loro assoluta mancanza, peraltro. C’è, semmai, da considerare l’importanza di una cosiddetta “economia della felicità”, calcolata dal World Happiness Report, pubblicato dalle Nazioni Unite e impegnato a misurare “la qualità della vita”, come obiettivo economico, politico e sociale. Soldi, benessere e felicità possono stare bene insieme.
Il World Happiness Report viene reso noto in occasione della “Giornata mondiale della felicità”, il 20 marzo di ogni anno, sulla base di un accordo raggiunto il 28 giugno del 2012 dai 193 Stati membri dell’Assemblea dell’Onu. E la classifica adesso vede in testa Finlandia, Danimarca e Islanda, seguite da Israele, Olanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo e Nuova Zelanda. L’Italia è al 33° posto, meno felice di Germania (al 16°) e Francia (al 21°). In coda, ci sono Sierra Leone, Libano e Afghanistan.
La classifica si basa su sei fattori: il supporto sociale, il reddito, la libertà nel poter compiere scelte di vita, la generosità e l’assenza di corruzione nel Paese. È discutibile, come ogni classifica. Si basa in gran parte sulla percezione degli intervistati (gli italiani sono notoriamente inclini a parlare male di sé e a lamentarsi). E’ fortemente influenzabile da fattori emotivi legati agli eventi di cronaca. Ma, fatte tutte le debite precisazioni e la tara di rito, è comunque profondamente indicativa. Non solo della percezione di sé e degli stati d’animo più diffusi di un Paese, ma soprattutto della necessità di calcolare non solo e non tanto la ricchezza, quando soprattutto il benessere. Un indicatore fondamentale verso cui orientare le politiche pubbliche (la spesa in sanità, istruzione, welfare, superamento di diseguaglianze e discriminazioni) ma anche gli investimenti delle imprese in produzioni sostenibili da punto di vista ambientale e sociale e attente alle esigenze di consumatori e stakeholders.
Se ne parlerà, nei prossimi giorni, durante il World Happiness Summit, a Como, dal 24 al 26 marzo, con la partecipazione di Karen Guggenheim, fondatrice dell’iniziativa e di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002. “L’obiettivo deve essere una società più felice. E per raggiungerlo è necessario che le persone lo siano non solo individualmente, ma soprattutto aiutandosi l’un l’altra”, spiega Jeffrey Sachs, presidente di United Nations Sustainable Development Solutions Nerwork, uno degli economisti più attenti ai grandi temi della sostenibilità (“La Stampa”, 20 marzo).
Aggiunge John Helliwell, che con Sachs e Richard Layard ha intervistato un ampio campione di abitanti di oltre 150 Paesi, per redigere il Word Happiness Report: “C’è un cambiamento profondo in tutto il mondo: le persone riconoscono che il progresso non dovrebbe portare solo crescita economica a tutti i costi ma anche benessere e felicità”.
Andare oltre i parametri del Pil, dunque. Dare spazio non solo alla quantità della ricchezza prodotta, ma soprattutto alla qualità. “Misurare ciò che conta”, il benessere, appunto, per riprendere il titolo di un essenziale saggio di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand (Einaudi, 2021). Seguire le indicazioni del Bes (l’indice del “Benessere equo e sostenibile” elaborato dell’Istat per valutare le strategie degli investimenti pubblici di ogni Legge Finanziaria in Italia). Rendere, insomma, sempre più concrete le scelte per raggiungere i 17 “Sustainable Development Goals” degli Accordi Onu di Parigi.
L’Italia, nonostante non sia ufficialmente nelle prime file della “felicità”, proprio su questi temi rivela da tempo una sensibilità crescente, che orienta anche le strategie e i comportamenti delle imprese più responsabili, chiaramente convinte che l’impegno sincero e trasparente sulla sostenibilità sia un fattore fondamentale di produttività e competitività.
La conferma arriva da un recente Rapporto di Fondazione Symbola e Ipsos (”Corriere della Sera”, 20 marzo): i prodotti a minor impatto sono preferiti per la loro qualità dal 56% dei consumatori. “Si va sempre più decisamente verso un’economia a misura d’uomo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola. Perché “è iniziata una nuova era della sostenibilità, che tocca ogni settore e la società tutta, in modo trasversale”. E questa idea “non viene più percepita come un diktat calato dall’alto, ma diventa un obiettivo socialmente desiderabile e, per questo, anche più facilmente raggiungibile”.
Nei Rapporti di Symbola, da tempo, si documenta, per esempio, che le imprese più “coesive” sono anche quelle più competitive, anche sui mercati internazionali. E che le imprese italiane sono all’avanguardia in Europa sui temi dell’economia circolare e del riciclo, con effetti positivi sull’ambiente in generale, ma anche sul loro conto economico. L’aumento della sensibilità dei consumatori rafforza il processo. Con un miglioramento della coscienza politica diffusa.
Commenta Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos: “L’ambientalismo è uscito dalla dimensione del ‘no’ a tutti i costi ed è diventato un’opportunità di crescita economica come di beneficio per il singolo e la società. Ed è un fatto oramai chiaro che le imprese credibili in termini ambientali e sociali godano di una maggiore fidelizzazione da parte del consumatore e di una crescita più rapida”.
L’economia della felicità, in altri termini, ha una sua forte valenza etica. Ma anche un suo vantaggio. In sintesi: fare, fare bene, fare del bene.
(foto Getty Images)