L’economia rallenta ma l’industria italiana resta solida. E ha bisogno di buona politica
L’autunno s’annuncia carico di incertezze, per la nostra economia. Gli ultimi dati Istat documentano una diminuzione del Pil dello 0,4% nel secondo trimestre e dunque un rallentamento della crescita, allo 0,7% per quest’anno (invece dello 0,8%) e all’1% per il ’24 (sotto gli obiettivi del Def dell’1,5% per il prossimo anno). Il governo, è vero, continua a tenere ferme le previsioni dell’1% per il ’23. Ma è possibile che una correzione arrivi nell’arco delle prossime settimane, durante l’elaborazione del Def (il Documento di economia e finanza). Perché il rallentamento? Debole domanda interna (anche a causa dell’alto livello dell’inflazione), contrazione dell’export, elevato costo del denaro, clima generale di incertezza che rallenta gli investimenti delle imprese. Tuti elementi che potrebbero continuare a pesare anche sui dati del terzo trimestre, che risentirà negativamente pure dell’andamento di una stagione turistica meno brillante delle aspettative.
Nessuno teme una recessione. “La recessione non ci sarà, nonostante tutto. Semmai una ricalibratura dei mercati e delle priorità”, sostiene Valter Caiumi, presidente di Confindustria Emilia, leader degli imprenditori di una delle zone più dinamiche del Paese (intervista di Dario Di Vico sul “Corriere Economia”, 4 settembre). Ma in molti pensano che il rallentamento continuerà. E al tradizionale Forum di European House di Cernobbio dei primi di settembre, tra imprenditori e banchieri, sono state frequenti le voci di preoccupazione.
Una riprova di questo diffuso stato d’animo è leggibile anche nei dati dell’Indice di Fiducia delle imprese, elaborato dall’Istat e sceso, ad agosto, a quota 106,8 dal precedente 108,9, ai minimi dal novembre ’22. Un arretramento pesante, dovuto, sostiene l’Istat, “al generale peggioramento in tutti i comparti economici indagati”, dalla manifattura ai servizi.
Scarsa fiducia, investimenti in frenata, consumi prudenti. Non si cresce.
A giocare negativamente sulle economie europee e internazionali e dunque anche sulla nostra, fortemente dipendente dall’export, contribuiscono la recessione in Germania (la nostra manifattura è fortemente legata ai mercati tedeschi, a cominciare dalle filiere dell’automotive) ma anche le difficoltà dell’economia cinese. Le turbolenze geopolitiche, aggravate dalla continuazione della guerra in Ucraina. Le scelte della Fed e della Bce sui tassi, per frenare l’inflazione. Le tensioni sui temi ambientali. E la più generale twin transition, ambientale e digitale, che sta sottoponendo a vere e proprie turbolente riorganizzazioni tutti i cicli di produzione, distribuzione e consumo. E per quanto positiva sia, in generale, la stagione del cambiamento, nell’immediato ne paghiamo i costi, economici e sociali, cercando di costruire tempi migliori.
In ogni caso, l’età delle incertezze non fa bene all’economia, almeno nel breve periodo.
Come stanno dunque le cose, in prospettiva?
Staccando lo sguardo dalla contingenza e provando a ragionare sui dati di fondo, proprio in tempi di preoccupazioni e timori, vale la pena ricordare che, al di là della congiuntura negativa o comunque non brillante, l’economia italiana, trainata dal settore industriale, nel corso della lunga stagione successiva alla Grande Crisi finanziaria del 2008, ha costruito solide basi di sviluppo. Su cui fare leva proprio adesso, per intravvedere la via d’uscita dal rallentamento e fare scelte d’investimento e crescita lungimiranti.
Che basi? Un radicale rinnovamento tecnologico, sia per i prodotti che per i meccanismi di produzione, grazie a robusti investimenti stimolati da ben costruiti stimoli fiscali. Una maggiore attenzione alla qualità. Uno sguardo ampio verso nuovi mercati internazionali, soprattutto nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. Un’originale capacità di definire nuovi processi capaci di tenere insieme manifattura, servizi e ricerca high tech, nel “cambio di paradigma” digitale dell’impresa data driven. E una responsabile attenzione alla sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerata non come semplice elemento di comunicazione e di marketing, un furbo green washing ma come un vero e proprio asset di competitività, come una caratteristica essenziale che connoti il miglior made in Italy.
La parte tecnologicamente più avanzata dell’impresa italiana ha vissuto con profonda convinzione questa svolta (anche il cambio generazionale ha avuto un peso rilevante). E’ cresciuta. Ha fatto da capofiliera di sofisticate supply chain internazionali e oggi può giocare con successo la partita del re-shoring, del ritorno a produrre in Europa come grande piattaforma manifatturiera di qualità. Ha intessuto nuove e migliori relazioni con le università, per usare bene le leve della “economia della conoscenza” e dell’impiego degli strumenti offerti dall’Intelligenza Artificiale. E adesso può fare da motore di sviluppo di lungo periodo, in una serie di settori produttivi: meccanica e meccatronica, chimica e farmaceutica, life sciences e industria agro-alimentare, automotive e gomma, aerospazio e cantieristica, sistemi di trasporto ed edilizia, arredamento e tessile/abbigliamento.
Sono questi i punti di forza essenziali, in una rete integrata di relazioni. Sono le garanzie che, al di là dei momenti congiunturali di difficoltà, l’impresa italiana ha un futuro e può continuare a fare da motore della crescita del Paese.
Servono, però, scelte politiche, atti di governo, a livello nazionale ed europeo. Politiche industriali di respiro, ben diverse dalle tentazioni stataliste e protezioniste. Politiche fiscali mirate all’innovazione e non certo al premio di corporazioni elettoralmente influenti. Politica per la sicurezza, legata all’energia e alle forniture di materie prime strategiche. Un percorso ben definito per la conoscenza e la formazione di lungo periodo. E quelle riforme (pubblica amministrazione, giustizia, scuola, mercato del lavoro, etc.) di cui si parla da tempo, ma senza effetti concreti.
Il Pnrr è stato individuato come strumento, politico sia per gli investimenti che per le infrastrutture e le riforme. Non usarlo a pieno sarebbe un grave errore.
Per poter ragionare con senso di responsabilità sul futuro dell’economia italiana (e dunque su quello delle nuove generazioni), vale la pena tenere a mente la sintesi fatta da “Il Sole24Ore” per una lunga inchiesta sulle imprese innovative: “Il genio italiano esiste. Ma senza ricerca, manager e struttura finanziaria è destinato a fare poca strada”. Eccoli, i temi delle scelte politiche da fare.
(foto: Getty Images)
L’autunno s’annuncia carico di incertezze, per la nostra economia. Gli ultimi dati Istat documentano una diminuzione del Pil dello 0,4% nel secondo trimestre e dunque un rallentamento della crescita, allo 0,7% per quest’anno (invece dello 0,8%) e all’1% per il ’24 (sotto gli obiettivi del Def dell’1,5% per il prossimo anno). Il governo, è vero, continua a tenere ferme le previsioni dell’1% per il ’23. Ma è possibile che una correzione arrivi nell’arco delle prossime settimane, durante l’elaborazione del Def (il Documento di economia e finanza). Perché il rallentamento? Debole domanda interna (anche a causa dell’alto livello dell’inflazione), contrazione dell’export, elevato costo del denaro, clima generale di incertezza che rallenta gli investimenti delle imprese. Tuti elementi che potrebbero continuare a pesare anche sui dati del terzo trimestre, che risentirà negativamente pure dell’andamento di una stagione turistica meno brillante delle aspettative.
Nessuno teme una recessione. “La recessione non ci sarà, nonostante tutto. Semmai una ricalibratura dei mercati e delle priorità”, sostiene Valter Caiumi, presidente di Confindustria Emilia, leader degli imprenditori di una delle zone più dinamiche del Paese (intervista di Dario Di Vico sul “Corriere Economia”, 4 settembre). Ma in molti pensano che il rallentamento continuerà. E al tradizionale Forum di European House di Cernobbio dei primi di settembre, tra imprenditori e banchieri, sono state frequenti le voci di preoccupazione.
Una riprova di questo diffuso stato d’animo è leggibile anche nei dati dell’Indice di Fiducia delle imprese, elaborato dall’Istat e sceso, ad agosto, a quota 106,8 dal precedente 108,9, ai minimi dal novembre ’22. Un arretramento pesante, dovuto, sostiene l’Istat, “al generale peggioramento in tutti i comparti economici indagati”, dalla manifattura ai servizi.
Scarsa fiducia, investimenti in frenata, consumi prudenti. Non si cresce.
A giocare negativamente sulle economie europee e internazionali e dunque anche sulla nostra, fortemente dipendente dall’export, contribuiscono la recessione in Germania (la nostra manifattura è fortemente legata ai mercati tedeschi, a cominciare dalle filiere dell’automotive) ma anche le difficoltà dell’economia cinese. Le turbolenze geopolitiche, aggravate dalla continuazione della guerra in Ucraina. Le scelte della Fed e della Bce sui tassi, per frenare l’inflazione. Le tensioni sui temi ambientali. E la più generale twin transition, ambientale e digitale, che sta sottoponendo a vere e proprie turbolente riorganizzazioni tutti i cicli di produzione, distribuzione e consumo. E per quanto positiva sia, in generale, la stagione del cambiamento, nell’immediato ne paghiamo i costi, economici e sociali, cercando di costruire tempi migliori.
In ogni caso, l’età delle incertezze non fa bene all’economia, almeno nel breve periodo.
Come stanno dunque le cose, in prospettiva?
Staccando lo sguardo dalla contingenza e provando a ragionare sui dati di fondo, proprio in tempi di preoccupazioni e timori, vale la pena ricordare che, al di là della congiuntura negativa o comunque non brillante, l’economia italiana, trainata dal settore industriale, nel corso della lunga stagione successiva alla Grande Crisi finanziaria del 2008, ha costruito solide basi di sviluppo. Su cui fare leva proprio adesso, per intravvedere la via d’uscita dal rallentamento e fare scelte d’investimento e crescita lungimiranti.
Che basi? Un radicale rinnovamento tecnologico, sia per i prodotti che per i meccanismi di produzione, grazie a robusti investimenti stimolati da ben costruiti stimoli fiscali. Una maggiore attenzione alla qualità. Uno sguardo ampio verso nuovi mercati internazionali, soprattutto nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. Un’originale capacità di definire nuovi processi capaci di tenere insieme manifattura, servizi e ricerca high tech, nel “cambio di paradigma” digitale dell’impresa data driven. E una responsabile attenzione alla sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerata non come semplice elemento di comunicazione e di marketing, un furbo green washing ma come un vero e proprio asset di competitività, come una caratteristica essenziale che connoti il miglior made in Italy.
La parte tecnologicamente più avanzata dell’impresa italiana ha vissuto con profonda convinzione questa svolta (anche il cambio generazionale ha avuto un peso rilevante). E’ cresciuta. Ha fatto da capofiliera di sofisticate supply chain internazionali e oggi può giocare con successo la partita del re-shoring, del ritorno a produrre in Europa come grande piattaforma manifatturiera di qualità. Ha intessuto nuove e migliori relazioni con le università, per usare bene le leve della “economia della conoscenza” e dell’impiego degli strumenti offerti dall’Intelligenza Artificiale. E adesso può fare da motore di sviluppo di lungo periodo, in una serie di settori produttivi: meccanica e meccatronica, chimica e farmaceutica, life sciences e industria agro-alimentare, automotive e gomma, aerospazio e cantieristica, sistemi di trasporto ed edilizia, arredamento e tessile/abbigliamento.
Sono questi i punti di forza essenziali, in una rete integrata di relazioni. Sono le garanzie che, al di là dei momenti congiunturali di difficoltà, l’impresa italiana ha un futuro e può continuare a fare da motore della crescita del Paese.
Servono, però, scelte politiche, atti di governo, a livello nazionale ed europeo. Politiche industriali di respiro, ben diverse dalle tentazioni stataliste e protezioniste. Politiche fiscali mirate all’innovazione e non certo al premio di corporazioni elettoralmente influenti. Politica per la sicurezza, legata all’energia e alle forniture di materie prime strategiche. Un percorso ben definito per la conoscenza e la formazione di lungo periodo. E quelle riforme (pubblica amministrazione, giustizia, scuola, mercato del lavoro, etc.) di cui si parla da tempo, ma senza effetti concreti.
Il Pnrr è stato individuato come strumento, politico sia per gli investimenti che per le infrastrutture e le riforme. Non usarlo a pieno sarebbe un grave errore.
Per poter ragionare con senso di responsabilità sul futuro dell’economia italiana (e dunque su quello delle nuove generazioni), vale la pena tenere a mente la sintesi fatta da “Il Sole24Ore” per una lunga inchiesta sulle imprese innovative: “Il genio italiano esiste. Ma senza ricerca, manager e struttura finanziaria è destinato a fare poca strada”. Eccoli, i temi delle scelte politiche da fare.
(foto: Getty Images)