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L’impegno contro la violenza sulle donne si lega a quello sul superamento del gender gap per lavoro e salari

Le donne. E il lavoro, la libertà, la sicurezza. Per provare a ragionare con una certa lucidità sui punti di crisi e le prospettive di migliori equilibri,  proprio nei giorni in cui tanto e giustamente si parla del rapporto tra impegno contro la violenza ai danni delle donne e attenzione ai dati essenziali dell’autonomia della vita femminile, si può partire dalle ultime notizie di cronaca e dai riferimenti alle scelte e alle prescrizioni della nostra legge fondamentale, la Costituzione.

Vale la pena, dunque, fare tesoro delle recenti indicazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Il tema delle disuguaglianze di genere e del danno che queste recano alla comunità è parte fondamentale delle preoccupazioni delle istituzioni…” ed è dunque necessario “porre l’accento su tre azioni chiave: lo stop alla violenza sulle donne, ignobile fenomeno tutt’ora tristemente presente, le pari possibilità per il raggiungimento di posizioni di vetrice nel mondo del lavoro e l’adozione di una prospettiva di genere in tutte le politiche europee” (dall’intervento all’incontro con una delegazione di partecipanti al Women Economic Forum, 23 novembre).

I riferimenti costituzionali sono appunto chiari: dall’articolo 1 sul lavoro come fondamento della Repubblica democratica (lavoro come cardine di cittadinanza, dignità, partecipazione responsabile) all’articolo 4 sul riconoscimento al diritto al lavoro e alla promozione delle “condizioni che rendano effettivo questo diritto” (vedremo nelle prossime righe quanto lontani si sia, su questo tema, proprio per le donne) e all’articolo 37, che vale la pena rileggere attentamente: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. E ancora: “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale protezione”. Anche da questo punto di vista, l’attuazione del dettato della Costituzione è ben lontano dalla realtà dei fatti.

Guardiamo alla cronaca, dunque. “Il lavoro espelle 44mila mamme”, documenta “La Stampa” (6 dicembre), raccontando come, secondo i dati dal Rapporto Annuale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2022 quasi 45mila madri lavoratrici si sono dimesse dal loro impiego. La maggior parte (il 63%) ha dato un’unica motivazione: troppo difficile conciliare occupazione e cura dei figli. E il 79,4% delle dimissionarie è nella fascia d’età fra i 29 e i 44 anni.

“La Stampa” ha dato seguito ai dati con inchieste, interviste, testimonianze di donne lavoratrici che di fronte alla scelta tra lavoro (dunque salario, carriera, autonomia, realizzazione dei propri progetti e aspirazioni di vita) e impegno/dovere a prendersi cura dei familiari, ha fatto una scelta netta. Difficile, molto spesso. Faticosa. E socialmente poco riconosciuta, apprezzata, valorizzata. Con conseguenze pesanti sul futuro: una donna senza autonomia finanziaria, nel corso della vita, dipende dalle scelte e dalle concessioni dell’uomo

Ecco il punto: nonostante i passi avanti compiuti sull’occupazione femminile, l’Italia è fanalino di coda per il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro, nella fascia tra 15 e 74 anni, con il 48,2%, rispetto a una media Ue del 59,5%.

Altri dati (World Economic Forum, 2022) dicono che sul gender gap l’Italia è al 63° posto su 146 paesi monitorati, senza progresso sull’anno precedente, dopo Uganda e Zambia. E se si guarda solo ai paesi europei, siamo al 25° posto su 35 paesi.

A ridurre i divari, non sono serviti finora gli incentivi per le assunzioni delle donne. “Il lavoro diseguale”, titola “la Repubblica” (12 dicembre), spiegando che “quando si parla di occupazione femminile la percentuale non si schioda dall’ormai strutturale divario con gli uomini: 40-60. Che significa 40% di occupate sul totale di chi lavora in Italia a fronte dell’ormai consolidato 60% maschile”. L’Inapp – l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche – conferma che la parità 50-50 rimane un sogno anche se andiamo a guardare i contratti incentivati dai vari bonus pubblici erogati in questi anni. E per di più “alle donne vengono proposti contratti a termine o part time forzati, con stipendi bassi che si trasformeranno un domani in pensioni poverissime”.

Nel suo commento, sempre su “la Republica”, Michela Marzano attacca l’assurdità di questo sistema che continua a penalizzare le donne “nonostante le competenze, gli studi, la buona volontà e tutte quelle capacità (vogliamo ricordare il multitasking?) che molte di loro sono state costrette a sviluppare nel corso dei secoli proprio per cercare di farsi spazio in un mondo che, di spazio alle donne, ne lascia ben poco”. “Non c’è niente da fare, non se ne esce: nonostante gli incentivi”.

Sul che fare, l’elenco dei provvedimenti da prendere è lungo e noto. A cominciare dai servizi alla famiglia, dagli asili nido, dalle politiche per il supporto dell’assistenza pubblica agli anziani che vivono a casa dei figli, da una diversa strutturazione degli orari di lavoro (la trasformazione digitale dell’economia può aiutare).

Ma non si tratta solo di assistenza. Quanto di una vera e propria svolta culturale, dei valori e delle abitudini di vita quotidiana sulla parità di genere, facendo leva sia sul tema dei diritti sia sul contribuito essenziale delle donne allo sviluppo sostenibile, da punto di vista sia qualitativo che quantitativo.

Serve, naturalmente, una scelta di lungo periodo anche da parte della cultura dell’impresa, nella stagione della prevalenza dei cosiddetti stakeholders values, i valori dei rapporti con dipendenti, fornitori, consumatori, territori e comunità di riferimento dell’impresa stessa, per la partecipazione attiva allo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.

Un’impresa, infatti, è una comunità attiva e intraprendente, al cui centro stanno le donne e gli uomini che ne fanno parte. Non solo “capitale umano”, un termine economico, ma soprattutto “persone”. Un tessuto vivo di relazioni, fatto da intelligenza, passione, creatività, amore per la ricerca, rigore professionale, orgoglio di appartenenza, consapevolezza storica e visione del futuro. Valori forti. In cui proprio le donne sanno esprimere un’originale lettura del cambiamento e una straordinaria forza nel promuoverne gli elementi essenziali.

La forza di un’impresa, con solide radici italiane e visione internazionale, sta nel valorizzare le diversità. Generazionali, di genere, provenienza, culture, formazione e identità. Una varietà di esperienze e letture del mondo, di memorie e progetti per un migliore futuro.

Lo sguardo femminile è una ricchezza particolare: ai vari livelli di partecipazione e di responsabilità, crescente nel tempo, dà all’azienda sensibilità, flessibilità, una vera e propria “intelligenza del cuore” che migliora non solo le nostre performance, ma soprattutto la nostra capacità di essere in sintonia con i cambiamenti sociali ed economici.

Sono le donne, il cardine dell’idea di “umanesimo industriale” secondo cui la migliore cultura economica italiana si sta muovendo. E su cui si fonda la competitività del nostro sistema economico. Da valorizzare e rafforzare.

(immagine Getty Images)

Le donne. E il lavoro, la libertà, la sicurezza. Per provare a ragionare con una certa lucidità sui punti di crisi e le prospettive di migliori equilibri,  proprio nei giorni in cui tanto e giustamente si parla del rapporto tra impegno contro la violenza ai danni delle donne e attenzione ai dati essenziali dell’autonomia della vita femminile, si può partire dalle ultime notizie di cronaca e dai riferimenti alle scelte e alle prescrizioni della nostra legge fondamentale, la Costituzione.

Vale la pena, dunque, fare tesoro delle recenti indicazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Il tema delle disuguaglianze di genere e del danno che queste recano alla comunità è parte fondamentale delle preoccupazioni delle istituzioni…” ed è dunque necessario “porre l’accento su tre azioni chiave: lo stop alla violenza sulle donne, ignobile fenomeno tutt’ora tristemente presente, le pari possibilità per il raggiungimento di posizioni di vetrice nel mondo del lavoro e l’adozione di una prospettiva di genere in tutte le politiche europee” (dall’intervento all’incontro con una delegazione di partecipanti al Women Economic Forum, 23 novembre).

I riferimenti costituzionali sono appunto chiari: dall’articolo 1 sul lavoro come fondamento della Repubblica democratica (lavoro come cardine di cittadinanza, dignità, partecipazione responsabile) all’articolo 4 sul riconoscimento al diritto al lavoro e alla promozione delle “condizioni che rendano effettivo questo diritto” (vedremo nelle prossime righe quanto lontani si sia, su questo tema, proprio per le donne) e all’articolo 37, che vale la pena rileggere attentamente: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. E ancora: “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale protezione”. Anche da questo punto di vista, l’attuazione del dettato della Costituzione è ben lontano dalla realtà dei fatti.

Guardiamo alla cronaca, dunque. “Il lavoro espelle 44mila mamme”, documenta “La Stampa” (6 dicembre), raccontando come, secondo i dati dal Rapporto Annuale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2022 quasi 45mila madri lavoratrici si sono dimesse dal loro impiego. La maggior parte (il 63%) ha dato un’unica motivazione: troppo difficile conciliare occupazione e cura dei figli. E il 79,4% delle dimissionarie è nella fascia d’età fra i 29 e i 44 anni.

“La Stampa” ha dato seguito ai dati con inchieste, interviste, testimonianze di donne lavoratrici che di fronte alla scelta tra lavoro (dunque salario, carriera, autonomia, realizzazione dei propri progetti e aspirazioni di vita) e impegno/dovere a prendersi cura dei familiari, ha fatto una scelta netta. Difficile, molto spesso. Faticosa. E socialmente poco riconosciuta, apprezzata, valorizzata. Con conseguenze pesanti sul futuro: una donna senza autonomia finanziaria, nel corso della vita, dipende dalle scelte e dalle concessioni dell’uomo

Ecco il punto: nonostante i passi avanti compiuti sull’occupazione femminile, l’Italia è fanalino di coda per il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro, nella fascia tra 15 e 74 anni, con il 48,2%, rispetto a una media Ue del 59,5%.

Altri dati (World Economic Forum, 2022) dicono che sul gender gap l’Italia è al 63° posto su 146 paesi monitorati, senza progresso sull’anno precedente, dopo Uganda e Zambia. E se si guarda solo ai paesi europei, siamo al 25° posto su 35 paesi.

A ridurre i divari, non sono serviti finora gli incentivi per le assunzioni delle donne. “Il lavoro diseguale”, titola “la Repubblica” (12 dicembre), spiegando che “quando si parla di occupazione femminile la percentuale non si schioda dall’ormai strutturale divario con gli uomini: 40-60. Che significa 40% di occupate sul totale di chi lavora in Italia a fronte dell’ormai consolidato 60% maschile”. L’Inapp – l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche – conferma che la parità 50-50 rimane un sogno anche se andiamo a guardare i contratti incentivati dai vari bonus pubblici erogati in questi anni. E per di più “alle donne vengono proposti contratti a termine o part time forzati, con stipendi bassi che si trasformeranno un domani in pensioni poverissime”.

Nel suo commento, sempre su “la Republica”, Michela Marzano attacca l’assurdità di questo sistema che continua a penalizzare le donne “nonostante le competenze, gli studi, la buona volontà e tutte quelle capacità (vogliamo ricordare il multitasking?) che molte di loro sono state costrette a sviluppare nel corso dei secoli proprio per cercare di farsi spazio in un mondo che, di spazio alle donne, ne lascia ben poco”. “Non c’è niente da fare, non se ne esce: nonostante gli incentivi”.

Sul che fare, l’elenco dei provvedimenti da prendere è lungo e noto. A cominciare dai servizi alla famiglia, dagli asili nido, dalle politiche per il supporto dell’assistenza pubblica agli anziani che vivono a casa dei figli, da una diversa strutturazione degli orari di lavoro (la trasformazione digitale dell’economia può aiutare).

Ma non si tratta solo di assistenza. Quanto di una vera e propria svolta culturale, dei valori e delle abitudini di vita quotidiana sulla parità di genere, facendo leva sia sul tema dei diritti sia sul contribuito essenziale delle donne allo sviluppo sostenibile, da punto di vista sia qualitativo che quantitativo.

Serve, naturalmente, una scelta di lungo periodo anche da parte della cultura dell’impresa, nella stagione della prevalenza dei cosiddetti stakeholders values, i valori dei rapporti con dipendenti, fornitori, consumatori, territori e comunità di riferimento dell’impresa stessa, per la partecipazione attiva allo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.

Un’impresa, infatti, è una comunità attiva e intraprendente, al cui centro stanno le donne e gli uomini che ne fanno parte. Non solo “capitale umano”, un termine economico, ma soprattutto “persone”. Un tessuto vivo di relazioni, fatto da intelligenza, passione, creatività, amore per la ricerca, rigore professionale, orgoglio di appartenenza, consapevolezza storica e visione del futuro. Valori forti. In cui proprio le donne sanno esprimere un’originale lettura del cambiamento e una straordinaria forza nel promuoverne gli elementi essenziali.

La forza di un’impresa, con solide radici italiane e visione internazionale, sta nel valorizzare le diversità. Generazionali, di genere, provenienza, culture, formazione e identità. Una varietà di esperienze e letture del mondo, di memorie e progetti per un migliore futuro.

Lo sguardo femminile è una ricchezza particolare: ai vari livelli di partecipazione e di responsabilità, crescente nel tempo, dà all’azienda sensibilità, flessibilità, una vera e propria “intelligenza del cuore” che migliora non solo le nostre performance, ma soprattutto la nostra capacità di essere in sintonia con i cambiamenti sociali ed economici.

Sono le donne, il cardine dell’idea di “umanesimo industriale” secondo cui la migliore cultura economica italiana si sta muovendo. E su cui si fonda la competitività del nostro sistema economico. Da valorizzare e rafforzare.

(immagine Getty Images)

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