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L’innovazione è “moderata” e l’Italia cresce poco e male

Noi italiani siamo “innovatori moderati”. Abbastanza al di sotto della media Ue e sempre lontani, purtroppo, da quei “campioni dell’innovazione” che continuano a essere gli Usa e il Giappone, la Corea e, nei confini dell’Europa, la Svizzera e la Danimarca, la Germania e la Finlandia. Gli effetti negativi si fanno sentire, naturalmente, sulla competitività e sulla crescita economica e aggravano gli squilibri economici che le autorità di Bruxelles, proprio nei giorni scorsi, hanno definito “eccessivi”, con un brusco richiamo al governo italiano e agli attori sociali perché si facciano le riforme necessarie a rimettere in moto l’economia.

A insistere sui limiti italiani sull’innovazione è un recente rapporto Ue (ne hanno parlato i principali quotidiani del 5 e del 6 marzo), che sulla base di 25 parametri, ha stilato una classifica, con i “leader” (Svizzera e Germania, innanzitutto), gli “emergenti” (dal Lussemburgo a Cipro, passando da Svezia, Gran Bretagna, Austria e Francia), i “moderati” (l’Italia, appunto, seguita da Spagna, Portogallo e Grecia, Ungheria, Polonia e Croazia), per finire con i “modesti” (Romania, Lettonia e Bulgaria). La classifica guarda anche alla regioni. E ce ne sono tre soltanto, l’Emilia, il Piemonte e il Friuli, che superano la media italiana e vengono classificate tra le “emergenti”.

Perché un piazzamento italiano così mediocre? Le ragioni sono note: scarsi investimenti pubblici e privati (frenati dall’eccesso di carico fiscale sulle imprese), ambiente generale non favorevole all’innovazione (le trappole e i freni della burocrazia…), poca apertura internazionale della formazione (testimoniata dal basso numero di dottorati universitari extra Ue), brevetti sotto la media, limitata collaborazione reciproca tra le imprese che innovano, bassi investimenti per il venture capital, etc. C’è insomma molto terreno da recuperare, per reggere la sfida della concorrenza degli altri grandi e dinamici paesi Ue.

L’Europa, naturalmente, promette di fare molto di più, con stimoli e investimenti. E sottolinea l’importanza degli 80 miliardi di euro messi in bilancio per il programma Horizon 2020. Per l’Italia, in ritardo nell’utilizzo di quei fondi, toccherà a Regioni e imprese predisporre programmi da inserire in quella cornice e fare cofinanziare.

I dati europei vanno presi molto sul serio. E a governo e imprese vanno sollecitati investimenti maggiori, su ricerca e sviluppo, molto oltre l’1% del Pil cui ancora, purtroppo, ci limitiamo. Altri investimenti ancora andranno fatti sulla formazione di qualità, smettendola con la disastrosa politica dei tagli alla pubblica istruzione e dell’appiattimento dei contenuti fornativi sulla linea della mediocrità.

Quei dati, però, vanno anche interpretati con maggior attenzione, ricordando che l’Italia, è vero, innova poco ma anche contabilizza poco tutta l’innovazione, soprattutto adattativa e di processo, che le imprese fanno. C’è infatti un’apparente contraddizione tra il basso livello degli investimenti in R&D e la crescita dell’export delle nostre imprese. Se davvero si innova poco, come si spiega il fatto di essere competitivi sui mercati internazionali, non usando peraltro più, da gran tempo, la leva dei prezzi bassi? La verità è che le imprese innovano, ma non lo documentano, fanno prodotti di qualità ma non brevettano le scoperte che lo consentono, scrivono in bilancio gli investimenti innovativi sotto la voce “consulenza”. Soprattutto nelle piccole imprese, insomma, le voci di bilancio non rappresentano correttamente l’innovazione diffusa. Per dirla in sintesi: bisogna investire di più, ma anche dare conto compiutamente degli investimenti fatti.

C’è una seconda considerazione da ricordare. E’ necessario fare crescere in tutto il sistema Italia una vera e propria cultura dell’innovazione. Le imprese manifatturiere, pur tra alti e basse, ce l’hanno. Il mondo dei servizi, invece, molto meno. E le pubbliche amministrazioni, centrali e locali, vivono l’innovazione come un attentato alle logiche di una burocrazia lenta, asfissiante, conservatrice (e corrotta e corruttrice, in parecchie aree).

In che senso, innovazione? Tecnologie, naturalmente, a cominciare dall’Ict e dall’indispensabile e urgente diffusione della “banda larga”. Automazione. Robotica. Digital manifacturing (con la leva straordinaria delle stampanti 3D). Bioscienze e biotech. Ma anche ambiente favorevole per le start up, e capitali di rischio per sostenere la crescita delle imprese più innovative. Con un uso intelligente dalla leva fiscale e un raccordo stretto tra università, centri di ricerca pubblici e privati e imprese.

L’innovazione è una cultura, appunto. Uno sguardo sul mondo. Un metodo. Un  approccio con la realtà: sperimentazione e trasformazione. Riguarda appunto le tecnologie. Ma anche i materiali, Le relazioni industriali. I criteri di governance. I rapporti con gli stakeholders. I linguaggi del marketing e della comunicazione. Il design. Su questi versanti, l’Italia, terra di cultura diffusa, può giocare molte carte. A patto di imparare a pensarsi come sistema in movimento. Che ha un luminoso e stimolante passato. Ma deve volere costruire anche un dinamico futuro.

Noi italiani siamo “innovatori moderati”. Abbastanza al di sotto della media Ue e sempre lontani, purtroppo, da quei “campioni dell’innovazione” che continuano a essere gli Usa e il Giappone, la Corea e, nei confini dell’Europa, la Svizzera e la Danimarca, la Germania e la Finlandia. Gli effetti negativi si fanno sentire, naturalmente, sulla competitività e sulla crescita economica e aggravano gli squilibri economici che le autorità di Bruxelles, proprio nei giorni scorsi, hanno definito “eccessivi”, con un brusco richiamo al governo italiano e agli attori sociali perché si facciano le riforme necessarie a rimettere in moto l’economia.

A insistere sui limiti italiani sull’innovazione è un recente rapporto Ue (ne hanno parlato i principali quotidiani del 5 e del 6 marzo), che sulla base di 25 parametri, ha stilato una classifica, con i “leader” (Svizzera e Germania, innanzitutto), gli “emergenti” (dal Lussemburgo a Cipro, passando da Svezia, Gran Bretagna, Austria e Francia), i “moderati” (l’Italia, appunto, seguita da Spagna, Portogallo e Grecia, Ungheria, Polonia e Croazia), per finire con i “modesti” (Romania, Lettonia e Bulgaria). La classifica guarda anche alla regioni. E ce ne sono tre soltanto, l’Emilia, il Piemonte e il Friuli, che superano la media italiana e vengono classificate tra le “emergenti”.

Perché un piazzamento italiano così mediocre? Le ragioni sono note: scarsi investimenti pubblici e privati (frenati dall’eccesso di carico fiscale sulle imprese), ambiente generale non favorevole all’innovazione (le trappole e i freni della burocrazia…), poca apertura internazionale della formazione (testimoniata dal basso numero di dottorati universitari extra Ue), brevetti sotto la media, limitata collaborazione reciproca tra le imprese che innovano, bassi investimenti per il venture capital, etc. C’è insomma molto terreno da recuperare, per reggere la sfida della concorrenza degli altri grandi e dinamici paesi Ue.

L’Europa, naturalmente, promette di fare molto di più, con stimoli e investimenti. E sottolinea l’importanza degli 80 miliardi di euro messi in bilancio per il programma Horizon 2020. Per l’Italia, in ritardo nell’utilizzo di quei fondi, toccherà a Regioni e imprese predisporre programmi da inserire in quella cornice e fare cofinanziare.

I dati europei vanno presi molto sul serio. E a governo e imprese vanno sollecitati investimenti maggiori, su ricerca e sviluppo, molto oltre l’1% del Pil cui ancora, purtroppo, ci limitiamo. Altri investimenti ancora andranno fatti sulla formazione di qualità, smettendola con la disastrosa politica dei tagli alla pubblica istruzione e dell’appiattimento dei contenuti fornativi sulla linea della mediocrità.

Quei dati, però, vanno anche interpretati con maggior attenzione, ricordando che l’Italia, è vero, innova poco ma anche contabilizza poco tutta l’innovazione, soprattutto adattativa e di processo, che le imprese fanno. C’è infatti un’apparente contraddizione tra il basso livello degli investimenti in R&D e la crescita dell’export delle nostre imprese. Se davvero si innova poco, come si spiega il fatto di essere competitivi sui mercati internazionali, non usando peraltro più, da gran tempo, la leva dei prezzi bassi? La verità è che le imprese innovano, ma non lo documentano, fanno prodotti di qualità ma non brevettano le scoperte che lo consentono, scrivono in bilancio gli investimenti innovativi sotto la voce “consulenza”. Soprattutto nelle piccole imprese, insomma, le voci di bilancio non rappresentano correttamente l’innovazione diffusa. Per dirla in sintesi: bisogna investire di più, ma anche dare conto compiutamente degli investimenti fatti.

C’è una seconda considerazione da ricordare. E’ necessario fare crescere in tutto il sistema Italia una vera e propria cultura dell’innovazione. Le imprese manifatturiere, pur tra alti e basse, ce l’hanno. Il mondo dei servizi, invece, molto meno. E le pubbliche amministrazioni, centrali e locali, vivono l’innovazione come un attentato alle logiche di una burocrazia lenta, asfissiante, conservatrice (e corrotta e corruttrice, in parecchie aree).

In che senso, innovazione? Tecnologie, naturalmente, a cominciare dall’Ict e dall’indispensabile e urgente diffusione della “banda larga”. Automazione. Robotica. Digital manifacturing (con la leva straordinaria delle stampanti 3D). Bioscienze e biotech. Ma anche ambiente favorevole per le start up, e capitali di rischio per sostenere la crescita delle imprese più innovative. Con un uso intelligente dalla leva fiscale e un raccordo stretto tra università, centri di ricerca pubblici e privati e imprese.

L’innovazione è una cultura, appunto. Uno sguardo sul mondo. Un metodo. Un  approccio con la realtà: sperimentazione e trasformazione. Riguarda appunto le tecnologie. Ma anche i materiali, Le relazioni industriali. I criteri di governance. I rapporti con gli stakeholders. I linguaggi del marketing e della comunicazione. Il design. Su questi versanti, l’Italia, terra di cultura diffusa, può giocare molte carte. A patto di imparare a pensarsi come sistema in movimento. Che ha un luminoso e stimolante passato. Ma deve volere costruire anche un dinamico futuro.

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