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L’Italia a due velocità, tra imprese “smart” che innovano e spesa pubblica che spreca

L’Italia è un paese “plurale”, diviso, tra Nord e Sud, aree forti nell’economia e delle imprese e aree deboli della spesa pubblica inefficiente. Ma anche, trasversalmente rispetto alla tradizionale geografia, tra centri urbani “smart”, colti, efficienti e alla moda e periferie dell’abbandono e del degrado (Milano offre esemplari testimonianze di entrambe: lo splendore dei grattacieli hi tech di Porta Nuova e CityLife e la durezza violenta del Quartiere Adriano e delle case popolari dell’Aler). Ed è un paese “asincrono”, se si guardano i tempi d’una politica che decide poco e spesso male e quelli efficienti e internazionali della finanza, dei servizi d’avanguardia (Milano sta sperimentando, prima in Europa, le nuove reti di telecomunicazioni 5G) e dell’industria “digital” 4.0. L’Italia e le Italie. Lo nota anche un grande storico come Andrea Giardina, nelle pagine di un libro quanto mai stimolante, “Storia mondiale dell’Italia”, appena pubblicato da Laterza: “Oggi il Nord della Penisola, dove si trovano aree di sviluppo tra le più elevate del Paese, dialoga con il mondo in modo inevitabilmente diverso rispetto al Sud, che ospita la più vasta zona povera dell’Unione Europea”. Italia da leggere meglio, dunque, come peraltro si ripete da tempo. E da tenere unita, meno disomogenea e più “sincrona”, nell’orizzonte europeo e mediterraneo.

I dati sul Pil documentano una crescita dell’1,5% nel 2017 (ma, fatti i conti alla fine dell’anno, potrà andare anche meglio di qualche decimale) e di un’analoga previsione anche per il 2018. Il Pil sta crescendo da dodici trimestri consecutivi, anche se solo adesso i numeri parlano di qualcosa di più dello “zero, virgola…”. E in ogni caso questa crescita, oramai acquisita e tutt’altro che irrilevante, è minore di quella degli altri partner europei: non abbiamo ancora recuperato i livelli del 2008, l’inizio della Grande Crisi, mentre Germania e Francia l’hanno già fatto. Stiamo benino, senza eccedere in ottimismo. Ma perché, nonostante ciò, tanti italiani si sentono, nel tempo, più fragili e poveri?

Il guaio è che di quest’andamento positivo dell’economia, non tutto il Paese è consapevole né ne avverte gli effetti. Anche qui, vanno tenuti in conto alcuni dati. Per esempio quelli dell’Indice di Gini (che misura la distribuzione dei redditi, in una scala da zero a uno: assoluto equilibrio o totale disequilibrio): nel 2015 è salito da 0,324 a 0,331, segno di una diseguaglianza che si accentua, a vantaggio dei ceti più ricchi. Uno squilibrio sociale e di aspettative che alimenta malumori e disagi (uno dei motivi per l’emergere di quell’Italia “del rancore” documentata dal Rapporto Censis di cui abbiamo parlato la scorsa settimana).

Una conferma di questa situazione arriva anche da Eurostat (l’Ufficio Statistico della Ue) che in una recente ricerca ha ricordato che l’Italia è il paese Ue con il più alto numero di poveri in assoluto: dieci milioni e mezzo di persone, in condizione di “deprivazione materiale e sociale”, in difficoltà cioè a pagare l’affitto regolarmente, fare fronte a una spesa imprevista, avere il riscaldamento, concentrate soprattutto tra i giovani e nelle aree del Sud. E’ il 17,2% della popolazione, una percentuale più alta della media Ue, ben peggiore di quella dei paesi a maggior industrializzazione e sviluppo (solo la Spagna, dei “grandi”, va in percentuale appena peggio di noi: il 17,4%). “Il Belpaese che esclude i deboli”, commenta con amarezza un economista sensibile come Mario Deaglio (“La Stampa”, 13 dicembre)

Sempre Eurostat calcola le differenze di retribuzioni tra regioni e province (una media delle retribuzioni annue lorde di dirigenti, impiegati e operai; ne scrive “La Stampa”, 18 dicembre): si va dai 31.711 euro della Lombardia e dai 30,286 dell’Emilia ai 29.686 del Lazio, per precipitare ai 25.506 della Sicilia e ai 24.537 della Calabria, ultima. Il divario tra province è ancora più netto, dai 34.330 euro di Milano ai 23.729 di Messina: oltre 11mila euro di differenza. Anche tenendo conto del divario di potere d’acquisto, la distanza resta forte. Un Nord di redditi alti, imprenditoriale, dinamico, europeo, un Sud di pubblico impiego, lavori precari, stipendi bassi. Accentuate disparità.

Se dal Pil (la ricchezza) si passa al Bes (l’indice del Benessere Equo e sostenibile, sempre calcolato dall’Istat) la sintesi è preoccupante: “Più ricchi, più poveri”, scrive “Avvenire”, quotidiano cattolico (16 dicembre), spiegando: “Siamo usciti dalla crisi ma salgono diseguaglianze e sfiducia nella politica”, gli italiani “sono meno soddisfatti delle relazioni sociali” e “scende pure lo spirito civico” anche se si colgono “confortanti segnali di ripresa del volontariato”. Il reddito medio delle famiglie è aumentato dell’1,6% rispetto al 2015 ed è pari a 18.191 euro pro capite, ma questo miglioramento statistico va letto insieme a un altro dato: il 20% più ricco della popolazione ha aumentato il proprio reddito più della media ed è adesso pari a 6,3 volte quello del 20% più povero (nel 2015 il rapporto era al 5,8).

Benessere squilibrato, appunto. E Italia a due velocità.

Lo sviluppo, per poter essere sostenibile (socialmente, e nel corso del tempo lungo), ha bisogno di equità. E di essere fondato sul rafforzamento di imprese dinamiche che producono ricchezza, innovazione ma anche migliore coesione sociale (il welfare aziendale, diffuso proprio là dove ci sono le imprese, nel Nord, migliora di molto la qualità della vita). E su una leva strategica della spesa pubblica in investimenti in infrastrutture, materiali e immateriali. Ma il quadro attuale non è confortante.

Le imprese che investono, fanno ricerca, esportano, competono sui mercati internazionali e dunque sono locomotiva di crescita stanno facendo bene il loro mestiere (grazie anche ai provvedimenti del governo che stimolano fiscalmente l’innovazione e la trasformazione “digital” dell’industria di qualità). La spesa pubblica nel Mezzogiorno si consuma in stipendi diffusi ma di basso livello e in sprechi di clientele e parentele, in un crescente “rifiuto della modernità” che frena, proprio nel Sud, i migliori ma fragili spiriti imprenditoriali. A crescere, è il disagio sociale. Il benessere desiderato cede il passo al malessere. Con effetti negativi su tutto il sistema Paese.

Modificare il quadro e avviare “una crescita virtuosa” fondata su “equità e sostenibilità” (Aldo Bonomi, “IlSole24Ore”, 17 dicembre) è una sfida economica e civile di grande rilievo. Orizzonte politico indispensabile, chiaro alla stessa sensibilità delle migliori imprese che, da Milano e dal Nord, hanno a cuore il futuro europeo dell’Italia. Quale politica saprà farsene carico?

L’Italia è un paese “plurale”, diviso, tra Nord e Sud, aree forti nell’economia e delle imprese e aree deboli della spesa pubblica inefficiente. Ma anche, trasversalmente rispetto alla tradizionale geografia, tra centri urbani “smart”, colti, efficienti e alla moda e periferie dell’abbandono e del degrado (Milano offre esemplari testimonianze di entrambe: lo splendore dei grattacieli hi tech di Porta Nuova e CityLife e la durezza violenta del Quartiere Adriano e delle case popolari dell’Aler). Ed è un paese “asincrono”, se si guardano i tempi d’una politica che decide poco e spesso male e quelli efficienti e internazionali della finanza, dei servizi d’avanguardia (Milano sta sperimentando, prima in Europa, le nuove reti di telecomunicazioni 5G) e dell’industria “digital” 4.0. L’Italia e le Italie. Lo nota anche un grande storico come Andrea Giardina, nelle pagine di un libro quanto mai stimolante, “Storia mondiale dell’Italia”, appena pubblicato da Laterza: “Oggi il Nord della Penisola, dove si trovano aree di sviluppo tra le più elevate del Paese, dialoga con il mondo in modo inevitabilmente diverso rispetto al Sud, che ospita la più vasta zona povera dell’Unione Europea”. Italia da leggere meglio, dunque, come peraltro si ripete da tempo. E da tenere unita, meno disomogenea e più “sincrona”, nell’orizzonte europeo e mediterraneo.

I dati sul Pil documentano una crescita dell’1,5% nel 2017 (ma, fatti i conti alla fine dell’anno, potrà andare anche meglio di qualche decimale) e di un’analoga previsione anche per il 2018. Il Pil sta crescendo da dodici trimestri consecutivi, anche se solo adesso i numeri parlano di qualcosa di più dello “zero, virgola…”. E in ogni caso questa crescita, oramai acquisita e tutt’altro che irrilevante, è minore di quella degli altri partner europei: non abbiamo ancora recuperato i livelli del 2008, l’inizio della Grande Crisi, mentre Germania e Francia l’hanno già fatto. Stiamo benino, senza eccedere in ottimismo. Ma perché, nonostante ciò, tanti italiani si sentono, nel tempo, più fragili e poveri?

Il guaio è che di quest’andamento positivo dell’economia, non tutto il Paese è consapevole né ne avverte gli effetti. Anche qui, vanno tenuti in conto alcuni dati. Per esempio quelli dell’Indice di Gini (che misura la distribuzione dei redditi, in una scala da zero a uno: assoluto equilibrio o totale disequilibrio): nel 2015 è salito da 0,324 a 0,331, segno di una diseguaglianza che si accentua, a vantaggio dei ceti più ricchi. Uno squilibrio sociale e di aspettative che alimenta malumori e disagi (uno dei motivi per l’emergere di quell’Italia “del rancore” documentata dal Rapporto Censis di cui abbiamo parlato la scorsa settimana).

Una conferma di questa situazione arriva anche da Eurostat (l’Ufficio Statistico della Ue) che in una recente ricerca ha ricordato che l’Italia è il paese Ue con il più alto numero di poveri in assoluto: dieci milioni e mezzo di persone, in condizione di “deprivazione materiale e sociale”, in difficoltà cioè a pagare l’affitto regolarmente, fare fronte a una spesa imprevista, avere il riscaldamento, concentrate soprattutto tra i giovani e nelle aree del Sud. E’ il 17,2% della popolazione, una percentuale più alta della media Ue, ben peggiore di quella dei paesi a maggior industrializzazione e sviluppo (solo la Spagna, dei “grandi”, va in percentuale appena peggio di noi: il 17,4%). “Il Belpaese che esclude i deboli”, commenta con amarezza un economista sensibile come Mario Deaglio (“La Stampa”, 13 dicembre)

Sempre Eurostat calcola le differenze di retribuzioni tra regioni e province (una media delle retribuzioni annue lorde di dirigenti, impiegati e operai; ne scrive “La Stampa”, 18 dicembre): si va dai 31.711 euro della Lombardia e dai 30,286 dell’Emilia ai 29.686 del Lazio, per precipitare ai 25.506 della Sicilia e ai 24.537 della Calabria, ultima. Il divario tra province è ancora più netto, dai 34.330 euro di Milano ai 23.729 di Messina: oltre 11mila euro di differenza. Anche tenendo conto del divario di potere d’acquisto, la distanza resta forte. Un Nord di redditi alti, imprenditoriale, dinamico, europeo, un Sud di pubblico impiego, lavori precari, stipendi bassi. Accentuate disparità.

Se dal Pil (la ricchezza) si passa al Bes (l’indice del Benessere Equo e sostenibile, sempre calcolato dall’Istat) la sintesi è preoccupante: “Più ricchi, più poveri”, scrive “Avvenire”, quotidiano cattolico (16 dicembre), spiegando: “Siamo usciti dalla crisi ma salgono diseguaglianze e sfiducia nella politica”, gli italiani “sono meno soddisfatti delle relazioni sociali” e “scende pure lo spirito civico” anche se si colgono “confortanti segnali di ripresa del volontariato”. Il reddito medio delle famiglie è aumentato dell’1,6% rispetto al 2015 ed è pari a 18.191 euro pro capite, ma questo miglioramento statistico va letto insieme a un altro dato: il 20% più ricco della popolazione ha aumentato il proprio reddito più della media ed è adesso pari a 6,3 volte quello del 20% più povero (nel 2015 il rapporto era al 5,8).

Benessere squilibrato, appunto. E Italia a due velocità.

Lo sviluppo, per poter essere sostenibile (socialmente, e nel corso del tempo lungo), ha bisogno di equità. E di essere fondato sul rafforzamento di imprese dinamiche che producono ricchezza, innovazione ma anche migliore coesione sociale (il welfare aziendale, diffuso proprio là dove ci sono le imprese, nel Nord, migliora di molto la qualità della vita). E su una leva strategica della spesa pubblica in investimenti in infrastrutture, materiali e immateriali. Ma il quadro attuale non è confortante.

Le imprese che investono, fanno ricerca, esportano, competono sui mercati internazionali e dunque sono locomotiva di crescita stanno facendo bene il loro mestiere (grazie anche ai provvedimenti del governo che stimolano fiscalmente l’innovazione e la trasformazione “digital” dell’industria di qualità). La spesa pubblica nel Mezzogiorno si consuma in stipendi diffusi ma di basso livello e in sprechi di clientele e parentele, in un crescente “rifiuto della modernità” che frena, proprio nel Sud, i migliori ma fragili spiriti imprenditoriali. A crescere, è il disagio sociale. Il benessere desiderato cede il passo al malessere. Con effetti negativi su tutto il sistema Paese.

Modificare il quadro e avviare “una crescita virtuosa” fondata su “equità e sostenibilità” (Aldo Bonomi, “IlSole24Ore”, 17 dicembre) è una sfida economica e civile di grande rilievo. Orizzonte politico indispensabile, chiaro alla stessa sensibilità delle migliori imprese che, da Milano e dal Nord, hanno a cuore il futuro europeo dell’Italia. Quale politica saprà farsene carico?

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