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L’Italia è in crisi ma non è condannata al declino, ascoltando Bartali, De Rita e chi conosce l’industria

L’economia italiana torna a crescere appena dello “zero virgola”, con un decimale via via sempre più piccolo, tra lo 0,7% di quest’anno e lo 0,5% previsto per il 2024. E ci si ritrova mestamente nella condizione piatta e stagnante degli ultimi vent’anni, in coda a tutti i principali paesi europei, dopo le impetuose stagioni del rimbalzo post Covid e della ripresa (8,3% nel ‘21 e 3,7% nel ‘22). Cadono i consumi delle famiglie e gli investimenti, diminuiscono le scorte nei magazzini delle imprese e le loro esportazioni, calano i prestiti bancari e la produzione industriale. Il futuro è inquietante.
I dati diffusi sabato dal Centro Studi Confindustria, nel rapporto intitolato “L’Italia torna alla bassa crescita?” (“Il Sole24Ore”, 29 ottobre) conferma le tendenze già evidenziate dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Ue e dai principali osservatori internazionali. Quel punto interrogativo nel titolo, però, può avere una doppia valenza: di preoccupazione, se la situazione economica dovesse ancora subire gli effetti delle tensioni e delle incertezze attuali, ma anche di possibilità che quella bassa crescita possa essere interrotta e modificata in meglio, se arrivassero scelte di politica economica, fiscale e industriale in grado di invertire il ciclo negativo.

Il futuro della nostra economia, del lavoro e dei redditi, insomma, non è definito. Il declino non è inevitabile. C’è spazio per un periodo migliore. Naturalmente se…
Partiamo degli elementi negativi già noti: la crisi generale della iperglobalizzazione che aveva segnato tutto il corso del passaggio del Novecento al nuovo millennio, con squilibri e disuguaglianze inaccettabili, le tensioni geo-politiche di un mondo multipolare segnato dai conflitti tra Usa e Cina e dalle spinte sconvolgenti di nuovi e potenti attori internazionali (a cominciare dall’India in impetuosa crescita), la drammatica esplosione degli scontri armati, dall’invasione russa dell’Ucraina alla guerra in Medio Oriente) che hanno aggravato l’andamento già incerto dei commerci internazionali e stravolto gli assetti nel Mediterraneo, con ripercussioni sui temi della sicurezza e dell’energia.
L’Europa, che potrebbe giocare il ruolo fondamentale di riequilibrio e di indicazione positiva, anche per la forza di una storia che ha saputo legare in modo originale sviluppo economico e benessere diffuso, democrazia e giustizia sociale (Patrizio Banchi su “la Repubblica”, 11 settembre) e per il successo di una transizione politica e culturale verso politiche monetarie e fiscali comuni, non riesce ad esprimere un’autorevole voce unitaria.
Si aggiungono, ad appesantire un clima generale già negativo, l’andamento dell’inflazione e del costo del denaro, gli squilibri demografici ma anche le conseguenze di tensioni legate alla transizione tecnologica e a quella ambientale, con fenomeni di cui oggi paghiamo i costi sociali, in attesa (troppo lunga e incerta, purtroppo) di governarne l’evoluzione e goderne delle opportunità positive.

Viviamo, insomma, in un’età di drammatiche incertezze. E, giorno dopo giorno, il precipitare degli eventi stimola i pensieri più cupi. Il clima generale non è affatto in sintonia con i bisogni di crescita e sviluppo.
In Italia paghiamo prezzi particolari, che aggravano il quadro. Siamo un paese esportatore e la caduta degli scambi internazionali frena la nostra economia. La recessione in Germania (il nostro principale partner industriale e commerciale) si ripercuote su parecchi settori manifatturieri, a cominciare dall’automotive e dalla meccatronica (“Il grande malato tedesco zavorra il nostro Pil”, documenta Mario Deaglio, “La Stampa”, 13 settembre). Il debito pubblico crescente non consente di usare, come fanno gli Usa e la Germania, le leve fiscali e di spesa pubblica per stimolare gli investimenti e la ripresa. Le incapacità politiche e della pubblica amministrazione non hanno consentito sinora di costruire condizioni per usare bene le grandi risorse (237 miliardi tra prestiti e soldi a fondo perduto) messe a disposizione dal Pnrr (un ritratto interessante sta nelle pagine del libro “Pnrr. La grande abbuffata” di Tito Boeri e Roberto Perotti, appena pubblicato da Feltrinelli).

Il nostro declino è dunque segnato, inarrestabile? Tutto sbagliato, tutto da rifare? No. A quella battuta, comunque di successo, non credeva fino in fondo neanche il suo autore, Gino Bartali, grande campione, che mugugnava e criticava ma poi vinceva trionfalmente Tour di Francia e Giri d’Italia.
Una riflessione in controtendenza arriva da uno dei più acuti osservatori dell’economia e della società italiana, Giuseppe De Rita, presidente del Censis: “Economia reale, nessuno parla della parte di Paese che va, non si discute sulle componenti vitali del sistema” (“Corriere della Sera”, 25 ottobre). Si parte da un ricordo, di quegli anni Settanta in cui, dopo la guerra dello Yom Kippur, vinta da Israele contro una fortissima alleanza di paesi arabi, i prezzi dell’energia impazzirono, le economie occidentali entrarono in una durissima stagione di ristrutturazione, l’inflazione in Italia superò ampiamente la soglia delle due cifre, i conti pubblici ne risentirono duramente e tra tensioni sociali e terrorismo si visse nell’incubo degli “anni di piombo”. Nessuno lo notò, ma la nostra industria si era via via riorganizzata sui territori (anche in modo sommerso, “informale”) e aveva costruito nuove ragioni di competitività. Ce ne accorgemmo solo nei primi anni Ottanta, quando emerse una straordinaria liquidità finanziaria in cerca di collocazione e di buoni investimenti e l’Italia si ritrovò ricca e dinamica, tra distretti industriali innovativi e nuovi spregiudicati “capitani” e “cavalieri ”dell’industria, della finanza, della moda e della pubblicità.
E oggi? De Rita invita a guardare bene nelle pieghe della società italiana e, pur nella consapevolezza dei dati di crisi, a dare voce e spazio a chi lavora, innova, cresce, fa: “Per chi ancora gira l’Italia, la realtà dà segnali contrastanti ma non inerti: il motore milanese e lombardo batte bene i colpi, l’economia del Nord-Est sta superando la crisi di dipendenza dal declino della locomotiva tedesca, l’Emilia Romagna e una parte delle Marche sono piene di soggetti di eccellenza, il turismo toscano, umbro, laziale (romano), pugliese e siciliano ha mostrato una grande potenza di fuoco”.

Insomma, insiste De Rita, “sarebbe quanto mai utile riservare un po’ di attenzione a queste componenti vitali del sistema: per la tenuta della psicologia collettiva del Paese, di fronte a un inverno che si preannuncia difficile, sono più importanti di tante elucubrazioni di finanza pubblica”.
Chi conosce la realtà molto articolata e talvolta controversa e pur contraddittoria della manifattura italiana, non può che confermare il giudizio di De Rita, parlando di distretti e filiere produttive che si stanno riorganizzando con successo, di grandi e medi produttori di acciaio green fra Cremona e Brescia, di imprese che sanno usare bene la sostenibilità ambientale e sociale come leva robusta di competitività internazionale, di iniziative che rilanciano il Nord Ovest industriale con la collaborazione fertile delle associazioni imprenditoriali di Milano, Torino e Genova, di industrie che innovano prodotti e processi e fanno acquisizioni e alleanze all’estero. Di un dinamismo che non è ancora motore generale né sistema ma può continuare a resistere al declino e fare da base di sviluppo. Sintetizza Carlo Bonomi, presidente di Confindustria: “Lo scenario è complesso, ma l’industria è forte. L’Italia ce la può fare” (“Il Sole24Ore”, 5 ottobre).
Servirebbe una buona politica, sia italiana che europea, per rafforzare questo solido capitale sociale di intraprendenza e voglia positiva di cambiamento. Servirebbe una nuova e migliore cultura della responsabilità.

(foto Getty Images)

L’economia italiana torna a crescere appena dello “zero virgola”, con un decimale via via sempre più piccolo, tra lo 0,7% di quest’anno e lo 0,5% previsto per il 2024. E ci si ritrova mestamente nella condizione piatta e stagnante degli ultimi vent’anni, in coda a tutti i principali paesi europei, dopo le impetuose stagioni del rimbalzo post Covid e della ripresa (8,3% nel ‘21 e 3,7% nel ‘22). Cadono i consumi delle famiglie e gli investimenti, diminuiscono le scorte nei magazzini delle imprese e le loro esportazioni, calano i prestiti bancari e la produzione industriale. Il futuro è inquietante.
I dati diffusi sabato dal Centro Studi Confindustria, nel rapporto intitolato “L’Italia torna alla bassa crescita?” (“Il Sole24Ore”, 29 ottobre) conferma le tendenze già evidenziate dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Ue e dai principali osservatori internazionali. Quel punto interrogativo nel titolo, però, può avere una doppia valenza: di preoccupazione, se la situazione economica dovesse ancora subire gli effetti delle tensioni e delle incertezze attuali, ma anche di possibilità che quella bassa crescita possa essere interrotta e modificata in meglio, se arrivassero scelte di politica economica, fiscale e industriale in grado di invertire il ciclo negativo.

Il futuro della nostra economia, del lavoro e dei redditi, insomma, non è definito. Il declino non è inevitabile. C’è spazio per un periodo migliore. Naturalmente se…
Partiamo degli elementi negativi già noti: la crisi generale della iperglobalizzazione che aveva segnato tutto il corso del passaggio del Novecento al nuovo millennio, con squilibri e disuguaglianze inaccettabili, le tensioni geo-politiche di un mondo multipolare segnato dai conflitti tra Usa e Cina e dalle spinte sconvolgenti di nuovi e potenti attori internazionali (a cominciare dall’India in impetuosa crescita), la drammatica esplosione degli scontri armati, dall’invasione russa dell’Ucraina alla guerra in Medio Oriente) che hanno aggravato l’andamento già incerto dei commerci internazionali e stravolto gli assetti nel Mediterraneo, con ripercussioni sui temi della sicurezza e dell’energia.
L’Europa, che potrebbe giocare il ruolo fondamentale di riequilibrio e di indicazione positiva, anche per la forza di una storia che ha saputo legare in modo originale sviluppo economico e benessere diffuso, democrazia e giustizia sociale (Patrizio Banchi su “la Repubblica”, 11 settembre) e per il successo di una transizione politica e culturale verso politiche monetarie e fiscali comuni, non riesce ad esprimere un’autorevole voce unitaria.
Si aggiungono, ad appesantire un clima generale già negativo, l’andamento dell’inflazione e del costo del denaro, gli squilibri demografici ma anche le conseguenze di tensioni legate alla transizione tecnologica e a quella ambientale, con fenomeni di cui oggi paghiamo i costi sociali, in attesa (troppo lunga e incerta, purtroppo) di governarne l’evoluzione e goderne delle opportunità positive.

Viviamo, insomma, in un’età di drammatiche incertezze. E, giorno dopo giorno, il precipitare degli eventi stimola i pensieri più cupi. Il clima generale non è affatto in sintonia con i bisogni di crescita e sviluppo.
In Italia paghiamo prezzi particolari, che aggravano il quadro. Siamo un paese esportatore e la caduta degli scambi internazionali frena la nostra economia. La recessione in Germania (il nostro principale partner industriale e commerciale) si ripercuote su parecchi settori manifatturieri, a cominciare dall’automotive e dalla meccatronica (“Il grande malato tedesco zavorra il nostro Pil”, documenta Mario Deaglio, “La Stampa”, 13 settembre). Il debito pubblico crescente non consente di usare, come fanno gli Usa e la Germania, le leve fiscali e di spesa pubblica per stimolare gli investimenti e la ripresa. Le incapacità politiche e della pubblica amministrazione non hanno consentito sinora di costruire condizioni per usare bene le grandi risorse (237 miliardi tra prestiti e soldi a fondo perduto) messe a disposizione dal Pnrr (un ritratto interessante sta nelle pagine del libro “Pnrr. La grande abbuffata” di Tito Boeri e Roberto Perotti, appena pubblicato da Feltrinelli).

Il nostro declino è dunque segnato, inarrestabile? Tutto sbagliato, tutto da rifare? No. A quella battuta, comunque di successo, non credeva fino in fondo neanche il suo autore, Gino Bartali, grande campione, che mugugnava e criticava ma poi vinceva trionfalmente Tour di Francia e Giri d’Italia.
Una riflessione in controtendenza arriva da uno dei più acuti osservatori dell’economia e della società italiana, Giuseppe De Rita, presidente del Censis: “Economia reale, nessuno parla della parte di Paese che va, non si discute sulle componenti vitali del sistema” (“Corriere della Sera”, 25 ottobre). Si parte da un ricordo, di quegli anni Settanta in cui, dopo la guerra dello Yom Kippur, vinta da Israele contro una fortissima alleanza di paesi arabi, i prezzi dell’energia impazzirono, le economie occidentali entrarono in una durissima stagione di ristrutturazione, l’inflazione in Italia superò ampiamente la soglia delle due cifre, i conti pubblici ne risentirono duramente e tra tensioni sociali e terrorismo si visse nell’incubo degli “anni di piombo”. Nessuno lo notò, ma la nostra industria si era via via riorganizzata sui territori (anche in modo sommerso, “informale”) e aveva costruito nuove ragioni di competitività. Ce ne accorgemmo solo nei primi anni Ottanta, quando emerse una straordinaria liquidità finanziaria in cerca di collocazione e di buoni investimenti e l’Italia si ritrovò ricca e dinamica, tra distretti industriali innovativi e nuovi spregiudicati “capitani” e “cavalieri ”dell’industria, della finanza, della moda e della pubblicità.
E oggi? De Rita invita a guardare bene nelle pieghe della società italiana e, pur nella consapevolezza dei dati di crisi, a dare voce e spazio a chi lavora, innova, cresce, fa: “Per chi ancora gira l’Italia, la realtà dà segnali contrastanti ma non inerti: il motore milanese e lombardo batte bene i colpi, l’economia del Nord-Est sta superando la crisi di dipendenza dal declino della locomotiva tedesca, l’Emilia Romagna e una parte delle Marche sono piene di soggetti di eccellenza, il turismo toscano, umbro, laziale (romano), pugliese e siciliano ha mostrato una grande potenza di fuoco”.

Insomma, insiste De Rita, “sarebbe quanto mai utile riservare un po’ di attenzione a queste componenti vitali del sistema: per la tenuta della psicologia collettiva del Paese, di fronte a un inverno che si preannuncia difficile, sono più importanti di tante elucubrazioni di finanza pubblica”.
Chi conosce la realtà molto articolata e talvolta controversa e pur contraddittoria della manifattura italiana, non può che confermare il giudizio di De Rita, parlando di distretti e filiere produttive che si stanno riorganizzando con successo, di grandi e medi produttori di acciaio green fra Cremona e Brescia, di imprese che sanno usare bene la sostenibilità ambientale e sociale come leva robusta di competitività internazionale, di iniziative che rilanciano il Nord Ovest industriale con la collaborazione fertile delle associazioni imprenditoriali di Milano, Torino e Genova, di industrie che innovano prodotti e processi e fanno acquisizioni e alleanze all’estero. Di un dinamismo che non è ancora motore generale né sistema ma può continuare a resistere al declino e fare da base di sviluppo. Sintetizza Carlo Bonomi, presidente di Confindustria: “Lo scenario è complesso, ma l’industria è forte. L’Italia ce la può fare” (“Il Sole24Ore”, 5 ottobre).
Servirebbe una buona politica, sia italiana che europea, per rafforzare questo solido capitale sociale di intraprendenza e voglia positiva di cambiamento. Servirebbe una nuova e migliore cultura della responsabilità.

(foto Getty Images)

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