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L’Italia è un grande paese industriale ma gli italiani non lo sanno o non lo dicono

“L’industria farmaceutica lombarda e italiana attraversa un periodo particolarmente felice. Dal 2010 tutte le sue grandezze crescono costantemente e, con 30 miliardi di euro di produzione, di cui oltre il 70% destinato all’esportazione, stiamo contendendo alla Germania il titolo di principale paese produttore d’Europa”. Sono parole di Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio, a Milano lunedì 24 per insistere sull’opportunità di insediare nella metropoli la nuova sede dell’Ema, l’Agenzia per il farmaco della Ue, in uscita da Londra dopo Brexit (e per visitare alcune fabbriche milanesi e in Brianza, mangiando in mensa d’una impresa metalmeccanica con tecnici, operai e imprenditori). Milano, dunque, ottima capitale del farmaco: primati per ricerca, innovazione, qualità produttiva e relazioni feconde tra sistema industriale, centri d’eccellenza delle “life sciences”, università e poli della salute pubblici e privati. Sullo sfondo, ecco Human Technopole, sulle aree ex Expo, luogo in cui si incontreranno ricerca, conoscenza, imprese hi tech.

Fa bene, il governo Gentiloni, a sostenere la centralità di Milano, nella battaglia per la sede dell’Ema, dando così forza alle sollecitazioni concordi che arrivano da Regione, Comune di Milano, Assolombarda, università. Potrà esserci un successo, in una difficile trattativa a Bruxelles (numerose e forti, le altre città contendenti). O una sconfitta, in un sistema di compensazioni e mediazioni che rischia di non tenere conto della qualità dell’ambiente scientifico, culturale, imprenditoriale e sociale ma di dare spazio a valutazioni di più basso profilo politico-diplomatico. Di certo le parole di Gentiloni e i dati quantitativi e qualitativi su Milano, nel dossier sulla candidatura per l’Ema (sede di prestigio già indicata: il Grattacielo Pirelli, simbolo della migliore intraprendenza italiana) dicono che la città è cuore d’un sistema di imprese e cultura, scienza e innovazione, che è al livello del meglio dell’Europa. E che andrà comunque avanti, come “the place to be”, per studiare, fare impresa, produrre e partecipare ad attività culturali, godere d’una buona qualità della vita. Meglio, se ci sarà l’Ema. Ma attiva e dinamica, anche senza Ema.

Italia, dunque, grande paese industriale. Con punte straordinarie nella farmaceutica, ma anche nella chimica, nella meccanica e nella meccatronica, nella gomma, nei settori di tradizione del made in Italy (abbigliamento, arredamento, agro-alimentare). Il guaio, però, è che gli stessi italiani non lo sanno e non lo apprezzano come sarebbe necessario. E tracciano di se stessi e del Paese un ritratto parziale, tutto a tinte fosche. Ingiusto, scorretto, ingeneroso verso tutti quegli italiani che, nonostante tutto, intraprendono, lavorano, si danno da fare.

Siamo il secondo grande paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania. Ma non ce lo diciamo. Non lo raccontiamo a noi stessi. Non manifestiamo il necessario e fondato “orgoglio industriale”. Preferiamo, nella narrazione generale, fare prevalere il lamento e la denuncia per le tante cose che non vanno. Pensando sempre al peggio. Come in una famosa vignetta di Altan: “Peggio di così non possiamo andare”, dice un omino sconfortato. “Dai: ancora uno sforzo e ci riusciamo”, ribatte l’altro, con ribalda improntitudine. Il veleno del “sempre peggio” che Altan mette ironicamente in crisi.

L’Italia cresce, finalmente, anche se più lentamente del resto d’Europa e tra antico e nuovi limiti, economici e sociali. Ma nel discorso pubblico prevalgono le negatività. Lo testimonia Nando Pagnoncelli, attento e sofisticato analista dell’opinione pubblica, commentando per “InPiù” (testata on line di commenti puntuali e originali) una recente ricerca internazionale di Ipsos sullo stato dell’economia: “Solo il 15% degli italiani esprime un giudizio positivo collocando l’Italia al quartultimo posto nella graduatoria dei 25 paesi considerati dall’indagine. Siamo preceduti da Paesi come la Polonia, l’Ungheria, il Perù nei quali i fondamentali economici sono molto più arretrati dei nostri ma l’opinione pubblica è animata da uno spirito decisamente più positivo”.

Sempre Ipsos conferma che oltre il 70% degli italiani ignora che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e tra costoro una parte non trascurabile non ci crede. Più passa il tempo e più aumenta la percentuale di coloro che pensano che per uscire dalla crisi ci vogliano ancora dai 5 ai 10 anni: oggi la pensa così un italiano su due. Sostiene Pagnoncelli: “I macro problemi che affliggono l’Italia ci sono tutti, dal debito pubblico alla produttività, dall’aumento delle famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta e relativa, alle dinamiche occupazionali e a quelle demografiche. Ma c’è un’Italia che funziona, nonostante tutto”.

Lo confermano anche i dati del report “L’Italia in 10 selfie” realizzato dalla Fondazione Symbola (sul sito www.Symbola.net).
I dati sulla ricerca Ipsos sulla situazione economica e la sua percezione sono stati presentati all’inizio di luglio proprio al seminario estivo di Symbola a Treia, nelle Marche terra di relazioni virtuose tra impresa, territorio, ambiente. E mostrano che all’immagine non positiva che caratterizza la nostra opinione pubblica fanno da contraltare i giudizi lusinghieri che gli stranieri esprimono nei confronti dell’Italia. Spiega Pagnoncelli: “Il nostro è un Paese molto conosciuto: si colloca al terzo posto nel ranking generale e al primo posto in quello rappresentato dai ceti elevati di ciascun paese. L’84% ne dà un giudizio molto o abbastanza positivo (91% tra i ceti elevati e 93% tra chi si è recato in Italia negli ultimi 5 anni)”.

Nel giudizio internazionale “l’Italia si colloca al primo posto per qualità della vita e per creatività e inventiva, al secondo posto per tolleranza, rispetto degli altri e dei diritti civili, al quarto per sviluppo sostenibile e attenzione all’ambiente. Siamo più arretrati in graduatoria quanto a sviluppo economico, innovazione e ricerca, stabilità politica”.

Il made in Italy “non è rappresentato solo dalla Ferrari o dalle griffe della moda, emergono molti altri settori come l’enogastronomia (peraltro non pochi sono consapevoli del rischio dell’italian sounding), il design, l’automotive, la meccanica, l’arredamento, il settore orafo. I molti brand italiani testati nella ricerca godono di un’immagine molto positiva. Uno straniero su tre ( il 46% tra i ceti elevati) mostra interesse per un canale televisivo in lingua inglese che parli dell’Italia. Infine Il 37% se dovesse vincere una vacanza premio sceglierebbe l’Italia (primo posto nel ranking), il 41% tra i ceti elevati”.

Nessuna propaganda. Ma un cauto e consapevole ottimismo realistico. “Nella ricerca – ricorda Pagnoncelli – non mancano notazioni critiche: siamo nella parte bassa della graduatoria quanto ad attrattività degli investimenti, e a metà classifica riguardo alla capacità di attrarre stranieri per ragioni di lavoro e di studio; e non brilliamo per infrastrutture e assetto normativo (giudicato complicato e talora incomprensibile), solo per fare qualche esempio. Siamo giudicati straordinari problem solvers ma carenti nella programmazione di medio-lungo periodo. Nel complesso emerge un’immagine decisamente positiva, anche se viziata da qualche stereotipo soprattutto nell’opinione pubblica generale, molto meno tra i ceti elevati e tra coloro che hanno contatti con il nostro Paese”.

Ma allora, perché in Italia il clima sociale è così negativo? Perché prevale il mugugno? Sostiene Pagnoncelli: “I motivi sono molteplici, dalla convinzione diffusa che il meglio sia alle nostra spalle e sia venuto meno l’ascensore sociale, nonostante i progressi scientifici e tecnologici senza precedenti, l’aumento della speranza di vita, il maggior benessere medio (sia pure in presenza di diseguaglianze crescenti); allo “strabismo” diffuso (“io me la cavo ma il paese va male” o viceversa); alla scomparsa del “futuro”, dall’agenda politica degli ultimi vent’anni. E, ancora, in un paese di tifosi, essere ottimisti e parlare bene dell’Italia (il cosiddetto “patriottismo dolce”) è visto come un atteggiamento di servilismo nei confronti del governante di turno. Spesso si mette sotto accusa il settore dell’informazione, troppo incline a rappresentare solo ciò che non va e a dare enfasi alle notizie negative. La mediazione sociale esercitata dei mass media sembra essere unidirezionale e la disintermediazione della rete fa il resto. In aggiunta, una gran parte dell’opinione pubblica è schizofrenica: reclama buone notizie e premia solo quelle cattive in termini di audience e readership”. Forse, conclude Pagnoncelli, “più che di una nuova narrazione del Paese c’è bisogno di una psicoterapia collettiva”. Ma anche, vale la pena aggiungere, di un impegno della classe dirigente più consapevole e responsabile, a fare bene le cose e a raccontarle compiutamente. Senza né retorica da propaganda né inclinazione al populismo negativo a tutti i costi.

“L’industria farmaceutica lombarda e italiana attraversa un periodo particolarmente felice. Dal 2010 tutte le sue grandezze crescono costantemente e, con 30 miliardi di euro di produzione, di cui oltre il 70% destinato all’esportazione, stiamo contendendo alla Germania il titolo di principale paese produttore d’Europa”. Sono parole di Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio, a Milano lunedì 24 per insistere sull’opportunità di insediare nella metropoli la nuova sede dell’Ema, l’Agenzia per il farmaco della Ue, in uscita da Londra dopo Brexit (e per visitare alcune fabbriche milanesi e in Brianza, mangiando in mensa d’una impresa metalmeccanica con tecnici, operai e imprenditori). Milano, dunque, ottima capitale del farmaco: primati per ricerca, innovazione, qualità produttiva e relazioni feconde tra sistema industriale, centri d’eccellenza delle “life sciences”, università e poli della salute pubblici e privati. Sullo sfondo, ecco Human Technopole, sulle aree ex Expo, luogo in cui si incontreranno ricerca, conoscenza, imprese hi tech.

Fa bene, il governo Gentiloni, a sostenere la centralità di Milano, nella battaglia per la sede dell’Ema, dando così forza alle sollecitazioni concordi che arrivano da Regione, Comune di Milano, Assolombarda, università. Potrà esserci un successo, in una difficile trattativa a Bruxelles (numerose e forti, le altre città contendenti). O una sconfitta, in un sistema di compensazioni e mediazioni che rischia di non tenere conto della qualità dell’ambiente scientifico, culturale, imprenditoriale e sociale ma di dare spazio a valutazioni di più basso profilo politico-diplomatico. Di certo le parole di Gentiloni e i dati quantitativi e qualitativi su Milano, nel dossier sulla candidatura per l’Ema (sede di prestigio già indicata: il Grattacielo Pirelli, simbolo della migliore intraprendenza italiana) dicono che la città è cuore d’un sistema di imprese e cultura, scienza e innovazione, che è al livello del meglio dell’Europa. E che andrà comunque avanti, come “the place to be”, per studiare, fare impresa, produrre e partecipare ad attività culturali, godere d’una buona qualità della vita. Meglio, se ci sarà l’Ema. Ma attiva e dinamica, anche senza Ema.

Italia, dunque, grande paese industriale. Con punte straordinarie nella farmaceutica, ma anche nella chimica, nella meccanica e nella meccatronica, nella gomma, nei settori di tradizione del made in Italy (abbigliamento, arredamento, agro-alimentare). Il guaio, però, è che gli stessi italiani non lo sanno e non lo apprezzano come sarebbe necessario. E tracciano di se stessi e del Paese un ritratto parziale, tutto a tinte fosche. Ingiusto, scorretto, ingeneroso verso tutti quegli italiani che, nonostante tutto, intraprendono, lavorano, si danno da fare.

Siamo il secondo grande paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania. Ma non ce lo diciamo. Non lo raccontiamo a noi stessi. Non manifestiamo il necessario e fondato “orgoglio industriale”. Preferiamo, nella narrazione generale, fare prevalere il lamento e la denuncia per le tante cose che non vanno. Pensando sempre al peggio. Come in una famosa vignetta di Altan: “Peggio di così non possiamo andare”, dice un omino sconfortato. “Dai: ancora uno sforzo e ci riusciamo”, ribatte l’altro, con ribalda improntitudine. Il veleno del “sempre peggio” che Altan mette ironicamente in crisi.

L’Italia cresce, finalmente, anche se più lentamente del resto d’Europa e tra antico e nuovi limiti, economici e sociali. Ma nel discorso pubblico prevalgono le negatività. Lo testimonia Nando Pagnoncelli, attento e sofisticato analista dell’opinione pubblica, commentando per “InPiù” (testata on line di commenti puntuali e originali) una recente ricerca internazionale di Ipsos sullo stato dell’economia: “Solo il 15% degli italiani esprime un giudizio positivo collocando l’Italia al quartultimo posto nella graduatoria dei 25 paesi considerati dall’indagine. Siamo preceduti da Paesi come la Polonia, l’Ungheria, il Perù nei quali i fondamentali economici sono molto più arretrati dei nostri ma l’opinione pubblica è animata da uno spirito decisamente più positivo”.

Sempre Ipsos conferma che oltre il 70% degli italiani ignora che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e tra costoro una parte non trascurabile non ci crede. Più passa il tempo e più aumenta la percentuale di coloro che pensano che per uscire dalla crisi ci vogliano ancora dai 5 ai 10 anni: oggi la pensa così un italiano su due. Sostiene Pagnoncelli: “I macro problemi che affliggono l’Italia ci sono tutti, dal debito pubblico alla produttività, dall’aumento delle famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta e relativa, alle dinamiche occupazionali e a quelle demografiche. Ma c’è un’Italia che funziona, nonostante tutto”.

Lo confermano anche i dati del report “L’Italia in 10 selfie” realizzato dalla Fondazione Symbola (sul sito www.Symbola.net).
I dati sulla ricerca Ipsos sulla situazione economica e la sua percezione sono stati presentati all’inizio di luglio proprio al seminario estivo di Symbola a Treia, nelle Marche terra di relazioni virtuose tra impresa, territorio, ambiente. E mostrano che all’immagine non positiva che caratterizza la nostra opinione pubblica fanno da contraltare i giudizi lusinghieri che gli stranieri esprimono nei confronti dell’Italia. Spiega Pagnoncelli: “Il nostro è un Paese molto conosciuto: si colloca al terzo posto nel ranking generale e al primo posto in quello rappresentato dai ceti elevati di ciascun paese. L’84% ne dà un giudizio molto o abbastanza positivo (91% tra i ceti elevati e 93% tra chi si è recato in Italia negli ultimi 5 anni)”.

Nel giudizio internazionale “l’Italia si colloca al primo posto per qualità della vita e per creatività e inventiva, al secondo posto per tolleranza, rispetto degli altri e dei diritti civili, al quarto per sviluppo sostenibile e attenzione all’ambiente. Siamo più arretrati in graduatoria quanto a sviluppo economico, innovazione e ricerca, stabilità politica”.

Il made in Italy “non è rappresentato solo dalla Ferrari o dalle griffe della moda, emergono molti altri settori come l’enogastronomia (peraltro non pochi sono consapevoli del rischio dell’italian sounding), il design, l’automotive, la meccanica, l’arredamento, il settore orafo. I molti brand italiani testati nella ricerca godono di un’immagine molto positiva. Uno straniero su tre ( il 46% tra i ceti elevati) mostra interesse per un canale televisivo in lingua inglese che parli dell’Italia. Infine Il 37% se dovesse vincere una vacanza premio sceglierebbe l’Italia (primo posto nel ranking), il 41% tra i ceti elevati”.

Nessuna propaganda. Ma un cauto e consapevole ottimismo realistico. “Nella ricerca – ricorda Pagnoncelli – non mancano notazioni critiche: siamo nella parte bassa della graduatoria quanto ad attrattività degli investimenti, e a metà classifica riguardo alla capacità di attrarre stranieri per ragioni di lavoro e di studio; e non brilliamo per infrastrutture e assetto normativo (giudicato complicato e talora incomprensibile), solo per fare qualche esempio. Siamo giudicati straordinari problem solvers ma carenti nella programmazione di medio-lungo periodo. Nel complesso emerge un’immagine decisamente positiva, anche se viziata da qualche stereotipo soprattutto nell’opinione pubblica generale, molto meno tra i ceti elevati e tra coloro che hanno contatti con il nostro Paese”.

Ma allora, perché in Italia il clima sociale è così negativo? Perché prevale il mugugno? Sostiene Pagnoncelli: “I motivi sono molteplici, dalla convinzione diffusa che il meglio sia alle nostra spalle e sia venuto meno l’ascensore sociale, nonostante i progressi scientifici e tecnologici senza precedenti, l’aumento della speranza di vita, il maggior benessere medio (sia pure in presenza di diseguaglianze crescenti); allo “strabismo” diffuso (“io me la cavo ma il paese va male” o viceversa); alla scomparsa del “futuro”, dall’agenda politica degli ultimi vent’anni. E, ancora, in un paese di tifosi, essere ottimisti e parlare bene dell’Italia (il cosiddetto “patriottismo dolce”) è visto come un atteggiamento di servilismo nei confronti del governante di turno. Spesso si mette sotto accusa il settore dell’informazione, troppo incline a rappresentare solo ciò che non va e a dare enfasi alle notizie negative. La mediazione sociale esercitata dei mass media sembra essere unidirezionale e la disintermediazione della rete fa il resto. In aggiunta, una gran parte dell’opinione pubblica è schizofrenica: reclama buone notizie e premia solo quelle cattive in termini di audience e readership”. Forse, conclude Pagnoncelli, “più che di una nuova narrazione del Paese c’è bisogno di una psicoterapia collettiva”. Ma anche, vale la pena aggiungere, di un impegno della classe dirigente più consapevole e responsabile, a fare bene le cose e a raccontarle compiutamente. Senza né retorica da propaganda né inclinazione al populismo negativo a tutti i costi.

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