L’Italia ha poco “capitale d’innovazione” e perde competività
Si chiama “capitale d’innovazione”. E’ una sintesi tra capacità delle persone, tecnologie d’avanguardia e infrastrutture. E determina la maggiore o minore produttività dei Paesi e dunque la loro competitività internazionale. L’Italia, anche da questo punto di vista, è fanalino di coda in Europa, secondo uno studio appena pubblicato dalla McKinsey (e raccontato dal “Corriere della Sera” il 28 giugno). Abbiamo buone imprese, innovative e competitive, grazie a una cultura d’impresa flessibile (“resiliente”, adattabile ai cambiamenti, direbbero gli economisti) e apprezzata nel mondo. E la nostra manifattura (automazione meccanica, agro-alimentare, arredamento e abbigliamento, “automotive”, chimica, gomma) è da primato internazionale. Eppure l’Italia cresce da tempo poco e male. E le nostre “eccellenze produttive” fanno fatica a tener testa a una competività di imprese e sistemi-Paese su mercati in rapido cambiamento. Perché? Colpa del deficit del “capitale d’innovazione”, appunto.
Lo studio McKinsey spiega che a comporre il “capitale d’innovazione” contribuiscono per il 16% gli investimenti pubblici e privati per le infrastutture ad alta tecnologia (la “banda larga”, per esempio). Poi c’è, per il 60%, il “capitale di conoscenza”: ricerca e sviluppo, software, architettura e design, pubblicità e marketing, innovazione finanziaria, spese culturali, etc. Infine, per il 24%, ecco il “capitale umano”: istruzione universitaria, training e formazione d’impresa, investimenti per il miglioramento delle organizzazioni. Tutto questo complesso di “capitale d’innovazione”, nei sedici paesi analizzati dallo studio McKinsey (Usa, Gran Bretagna, Svezia, Germania, Francia, Spagna, Italia, Danimarca, etc.) vale 14mila miliardi di dollari: una ricca “economia dell’intangibile” equivalente al 42% dei loro Pil e in crescita, dal 1995 al 2007, del 4,6% all’anno. Dei tre tipi di capitale quello che rende di più è il terzo, il “capitale umano”, con un ritorno del 40% superiore allo stesso “capitale di conoscenza”.
Il “capitale d’innovazione” ha determinato, nel lungo periodo 1995-2007, il 53% della crescita di produttività. Un ruolo determinante, dunque. Con un’Italia in crisi, dato che la nostra produttività è cresciuta appena dello 0,5% all’anno, mentre quella tedesca dell’1,7% e quella inglese del 2,8%. Perché? Se si guarda ai singoli paesi, si scoprono meglio le differenze. Quel “capitale d’innovazione”, infatti, ha pesato per il 25% del Pil in Italia, per il 34% in Germania, per il 35% in Francia, per il 40% in Gran Bretagna, per il 51% negli Usa. “L’Italia non investe sul futuro”, sentenzia Leonardo Totaro, managing director di McKinsey per i paesi del Mediterraneo. Non punta sull’innovazione. Trascura formazione e conoscenza (lo testimoniano anche i dati più recenti sugli investimenti in ricerca e innovazione, meno dell’1% del Pil, mentre i finanziamenti pubblci per la cultura, dallo Stato alle regioni agli enti locali, sono passati dai 7,5 miliardi del 2005 ai 5.8 del 2012). Un’Italia, in sintesi, più ignorante, meno innovativa, meno produttiva, meno competitiva.
C’è dunque una condizione di marginalità crescente da ribaltare. Con riforme che valorizzino appunto il “capitale d’innovazione” e soprattutto il “capitale umano”, di cui l’Italia è ricca, ma non capace di sfruttarlo a dovere. Che fare? McKinsey spiega: abbattere le barriere agli investimenti internazionali (che portano ricerca e innovazione), stimolare anche fiscalmente imprese e istituzioni che fanno ricerca, proteggere meglio i diritti di proprietà intellettuale e i brevetti, agovolare l’imprenditorialità, fare crescere una robusta cultura d’impresa dell’intraprendenza e del premio al merito. Innovare per crescere, appunto. Ricetta nota da tempo. Adesso, da fare diventare buona politica.
Si chiama “capitale d’innovazione”. E’ una sintesi tra capacità delle persone, tecnologie d’avanguardia e infrastrutture. E determina la maggiore o minore produttività dei Paesi e dunque la loro competitività internazionale. L’Italia, anche da questo punto di vista, è fanalino di coda in Europa, secondo uno studio appena pubblicato dalla McKinsey (e raccontato dal “Corriere della Sera” il 28 giugno). Abbiamo buone imprese, innovative e competitive, grazie a una cultura d’impresa flessibile (“resiliente”, adattabile ai cambiamenti, direbbero gli economisti) e apprezzata nel mondo. E la nostra manifattura (automazione meccanica, agro-alimentare, arredamento e abbigliamento, “automotive”, chimica, gomma) è da primato internazionale. Eppure l’Italia cresce da tempo poco e male. E le nostre “eccellenze produttive” fanno fatica a tener testa a una competività di imprese e sistemi-Paese su mercati in rapido cambiamento. Perché? Colpa del deficit del “capitale d’innovazione”, appunto.
Lo studio McKinsey spiega che a comporre il “capitale d’innovazione” contribuiscono per il 16% gli investimenti pubblici e privati per le infrastutture ad alta tecnologia (la “banda larga”, per esempio). Poi c’è, per il 60%, il “capitale di conoscenza”: ricerca e sviluppo, software, architettura e design, pubblicità e marketing, innovazione finanziaria, spese culturali, etc. Infine, per il 24%, ecco il “capitale umano”: istruzione universitaria, training e formazione d’impresa, investimenti per il miglioramento delle organizzazioni. Tutto questo complesso di “capitale d’innovazione”, nei sedici paesi analizzati dallo studio McKinsey (Usa, Gran Bretagna, Svezia, Germania, Francia, Spagna, Italia, Danimarca, etc.) vale 14mila miliardi di dollari: una ricca “economia dell’intangibile” equivalente al 42% dei loro Pil e in crescita, dal 1995 al 2007, del 4,6% all’anno. Dei tre tipi di capitale quello che rende di più è il terzo, il “capitale umano”, con un ritorno del 40% superiore allo stesso “capitale di conoscenza”.
Il “capitale d’innovazione” ha determinato, nel lungo periodo 1995-2007, il 53% della crescita di produttività. Un ruolo determinante, dunque. Con un’Italia in crisi, dato che la nostra produttività è cresciuta appena dello 0,5% all’anno, mentre quella tedesca dell’1,7% e quella inglese del 2,8%. Perché? Se si guarda ai singoli paesi, si scoprono meglio le differenze. Quel “capitale d’innovazione”, infatti, ha pesato per il 25% del Pil in Italia, per il 34% in Germania, per il 35% in Francia, per il 40% in Gran Bretagna, per il 51% negli Usa. “L’Italia non investe sul futuro”, sentenzia Leonardo Totaro, managing director di McKinsey per i paesi del Mediterraneo. Non punta sull’innovazione. Trascura formazione e conoscenza (lo testimoniano anche i dati più recenti sugli investimenti in ricerca e innovazione, meno dell’1% del Pil, mentre i finanziamenti pubblci per la cultura, dallo Stato alle regioni agli enti locali, sono passati dai 7,5 miliardi del 2005 ai 5.8 del 2012). Un’Italia, in sintesi, più ignorante, meno innovativa, meno produttiva, meno competitiva.
C’è dunque una condizione di marginalità crescente da ribaltare. Con riforme che valorizzino appunto il “capitale d’innovazione” e soprattutto il “capitale umano”, di cui l’Italia è ricca, ma non capace di sfruttarlo a dovere. Che fare? McKinsey spiega: abbattere le barriere agli investimenti internazionali (che portano ricerca e innovazione), stimolare anche fiscalmente imprese e istituzioni che fanno ricerca, proteggere meglio i diritti di proprietà intellettuale e i brevetti, agovolare l’imprenditorialità, fare crescere una robusta cultura d’impresa dell’intraprendenza e del premio al merito. Innovare per crescere, appunto. Ricetta nota da tempo. Adesso, da fare diventare buona politica.