L’Italia rimasta in piedi grazie alle fabbriche e le scelte necessarie per innovazione e lavoro
“L’Italia è rimasta in piedi anche e soprattutto grazie alle fabbriche”. Il giudizio, netto, essenziale, è di Salvatore Rossi, ex direttore generale della Banca d’Italia e presidente di Tim, una vita da civil servant e poi una responsabilità quanto mai impegnativa al vertice di una delle maggiori imprese italiane. In una conversazione con Paolo Bricco pubblicata su Il Sole24Ore (26 maggio) Rossi analizza la lunga transizione del Paese nel corso della stagione che va dalla fine del Novecento agli anni Duemila. Ricorda le difficoltà del risanamento dei conti pubblici per entrare nell’euro e la strada accidentata delle privatizzazioni (“Quelle di Eni, Enel e dell’allora Finmeccanica hanno funzionato, ma non quella di Telecom con il ‘nocciolino duro’ costituito da Gianni Agnelli che poi sarebbe caduto con l’Opa organizzata da Emilio Gnutti e supportata da Roberto Colaninno, con un enorme debito bancario da scaricare sulla società”). Riconosce il merito degli imprenditori che hanno reagito alla Grande Crisi finanziaria internazionale del 2008/ 2009 investendo, innovando e puntando sulla conquista dei mercati internazionali (“Sono stati abili e veloci e, senza che ne avessero alcuna responsabilità, hanno affrontato quella crisi, hanno rischiato la vita delle loro aziende”). E, dopo aver liquidato “la retorica del ‘piccolo è bello’ cui non ho mai aderito”, guarda all’attualità e sostiene: “L’assenza della grande impresa è certo un problema strutturale, perché quell’impresa non è soltanto un’incubatrice di innovazione, ma è anche una sintetizzatrice di complessità sistemiche”. Qui, in Italia, oggi “è di grande interesse interpretativo e sostanziale il fenomeno della media impresa internazionalizzata”. Leva di sviluppo economico, anche grazie alla forza di un export che vale oltre 650 miliardi. Ma anche di innovazione e di coesione sociale. “L’Italia rimasta in piedi grazie alle fabbriche”, appunto. Un prezioso capitale sociale.
Un capitale da rafforzare, naturalmente. Con scelte lungimiranti di politica industriale, in chiave europea. E con leve fiscali che, com’è già successo con le norme di “Industria 4.0”, stimolino gli investimenti privati. Tutto il contrario del discusso “bonus 110%” per le ristrutturazioni edilizie. Ma nel segno, automatico, oggettivo, del premio per chi, investendo, innova e contribuisce alla crescita del Pil e all’aumento delle esportazioni. Un filo comune che lega produttività e competitività, lavoro e benessere diffuso.
L’Italia e gli altri grandi paesi Ue sono essenzialmente manifatturieri, trasformatori. E la loro industria, oggi, rischia di essere messa in crisi, sul versante della competitività internazionale, per la carenza di materie prime strategiche, ma anche per una forte dipendenza dalle tecnologie di Usa e Cina sugli sviluppi dell’Artificial Intelligence. Ecco perché è indispensabile sollecitare alla Ue e ai governi nazionali scelte politiche per affrontare il problema. Un tema cardine, di cui si dovrebbe discutere approfonditamente durante questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e dunque per la composizione della nuova Commissione di Bruxelles (ma il dibattito, purtroppo, è eccessivamente dominato da questioni di politiche interne nazionali). E su cui il ogni caso, all’indomani del voto, l’Europa dovrà farsi carico.
Sul piano delle scelte. E delle risorse.
C’è una relazione forte, infatti, tra la politica economica e la politica della difesa e della sicurezza europea, nel nuovo contesto geopolitico. E ci sono impegni da prendere sul piano degli investimenti, per l’energia, la difesa, la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico e per continuare ad affrontare la twin transition ambientale e digitale, senza ritrovarsi a essere marginali di fronte ai massicci investimenti strategici di Usa e Cina. Da 600 a 1.000 miliardi all’anno per i prossimi dieci anni, secondo calcoli sempre più chiari negli uffici di Bruxelles. Risorse enormi. Da recuperare rafforzando il bilancio comune Ue. E da prendere sui mercati finanziari internazionali, con gli eurobond.
La politica industriale va vista in questo contesto. Come peraltro ripetono da tempo, concordi, le organizzazioni delle imprese di Italia, Francia e Germania e come si è ripetuto anche durante il recente B7.
“L’Europa finora è distratta, ponendo vincoli sempre più stringenti, come il Green Deal, senza tenere conto che il settore manifatturiero genera lavoro e ricchezza”, rileva Nicola Saldutti sul Corriere della Sera (11 maggio), aggiungendo che “serve tempo per riconfigurare un sistema industriale” e dunque per dare alle imprese la cornice politica e gli strumenti per fare fronte alla competitività internazionale.
“L’industria Ue deve ripartire da scienza e innovazione” titola Il Sole24Ore (25 maggio) a proposito delle discussioni sul futuro dell’Europa che hanno animato il recente Festival dell’Economia di Trento. Ancora Saldutti: “Per il nostro Paese, la seconda manifattura europea (primato che va conservato, ma non è automatico) sono proprio le fabbriche la principale garanzia anche per il debito pubblico, per la sue sostenibilità. Forse è venuto il tempo di prendere decisioni. Non prenderle, equivale a perdere”.
Che le misure di “Industria 5.0” per continuare a innovare il sistema produttivo siano ferme, prive di finanziamenti e di scelte concrete, è un serio segnale d’allarme da non sottovalutare. “Il sistema manifatturiero è chiamato a essere flessibile, resiliente e digitale. E la sostenibilità non è più solo attenzione all’ambiente, ma conta anche la componente umana” (Il Sole24Ore, 17 maggio).
Per continuare a ragionare di fabbriche come leva di sviluppo ma anche di sostenibilità sociale, ecco che torna in primo piano la funzione delle nostre imprese medie e medio-grandi, delle cosiddette “multinazionali tascabili”, di quelle eccellenze dell’innovazione e dell’export di cui parla Rossi. E dunque delle filiere produttive, lungo cui aggregare anche le piccole imprese.
Per supportare questo sistema, proprio di fronte alla sfida tecnologica in corso, applicazioni dell’Intelligenza Artificiale compresa, è necessaria pure una diffusione collaborativa della conoscenza, che passa, appunto, per le relazioni di filiera, con competenze tecnologiche in via di continuo aggiornamento. La leva fiscale è fondamentale, per rafforzare il processo.
Serve, insomma, una collaborazione tra tutti i soggetti in campo: “La pubblica amministrazione efficiente, un sistema imprenditoriale aperto e collaborativo e una ricerca di livello internazionale per innescare un circolo virtuoso attrattivo, coinvolgendo imprese, università e centri di ricerca pubblici e privati”, sostiene Ferruccio Resta, ex rettore del Politecnico di Milano e presidente della Fondazione Kessler (Il Sole24Ore, 25 maggio).
È questa, l’idea vera del made in Italy da fare crescere. Innovazione, produttività, competitività globale, sostenibilità ambientale ma soprattutto sociale ed economica. L’industria italiana, che ha già da tempo respiro europeo (meccanica, meccatronica, robotica, automotive e aerospazio, chimica, farmaceutica, gomma, cantieristica navale oltre che i mondi tradizionali dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’agro-industria) si muove proprio in questa direzione. Tocca alla politica fare bene la sua parte nell’interesse del sistema Paese.
(Foto Getty Images)
“L’Italia è rimasta in piedi anche e soprattutto grazie alle fabbriche”. Il giudizio, netto, essenziale, è di Salvatore Rossi, ex direttore generale della Banca d’Italia e presidente di Tim, una vita da civil servant e poi una responsabilità quanto mai impegnativa al vertice di una delle maggiori imprese italiane. In una conversazione con Paolo Bricco pubblicata su Il Sole24Ore (26 maggio) Rossi analizza la lunga transizione del Paese nel corso della stagione che va dalla fine del Novecento agli anni Duemila. Ricorda le difficoltà del risanamento dei conti pubblici per entrare nell’euro e la strada accidentata delle privatizzazioni (“Quelle di Eni, Enel e dell’allora Finmeccanica hanno funzionato, ma non quella di Telecom con il ‘nocciolino duro’ costituito da Gianni Agnelli che poi sarebbe caduto con l’Opa organizzata da Emilio Gnutti e supportata da Roberto Colaninno, con un enorme debito bancario da scaricare sulla società”). Riconosce il merito degli imprenditori che hanno reagito alla Grande Crisi finanziaria internazionale del 2008/ 2009 investendo, innovando e puntando sulla conquista dei mercati internazionali (“Sono stati abili e veloci e, senza che ne avessero alcuna responsabilità, hanno affrontato quella crisi, hanno rischiato la vita delle loro aziende”). E, dopo aver liquidato “la retorica del ‘piccolo è bello’ cui non ho mai aderito”, guarda all’attualità e sostiene: “L’assenza della grande impresa è certo un problema strutturale, perché quell’impresa non è soltanto un’incubatrice di innovazione, ma è anche una sintetizzatrice di complessità sistemiche”. Qui, in Italia, oggi “è di grande interesse interpretativo e sostanziale il fenomeno della media impresa internazionalizzata”. Leva di sviluppo economico, anche grazie alla forza di un export che vale oltre 650 miliardi. Ma anche di innovazione e di coesione sociale. “L’Italia rimasta in piedi grazie alle fabbriche”, appunto. Un prezioso capitale sociale.
Un capitale da rafforzare, naturalmente. Con scelte lungimiranti di politica industriale, in chiave europea. E con leve fiscali che, com’è già successo con le norme di “Industria 4.0”, stimolino gli investimenti privati. Tutto il contrario del discusso “bonus 110%” per le ristrutturazioni edilizie. Ma nel segno, automatico, oggettivo, del premio per chi, investendo, innova e contribuisce alla crescita del Pil e all’aumento delle esportazioni. Un filo comune che lega produttività e competitività, lavoro e benessere diffuso.
L’Italia e gli altri grandi paesi Ue sono essenzialmente manifatturieri, trasformatori. E la loro industria, oggi, rischia di essere messa in crisi, sul versante della competitività internazionale, per la carenza di materie prime strategiche, ma anche per una forte dipendenza dalle tecnologie di Usa e Cina sugli sviluppi dell’Artificial Intelligence. Ecco perché è indispensabile sollecitare alla Ue e ai governi nazionali scelte politiche per affrontare il problema. Un tema cardine, di cui si dovrebbe discutere approfonditamente durante questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e dunque per la composizione della nuova Commissione di Bruxelles (ma il dibattito, purtroppo, è eccessivamente dominato da questioni di politiche interne nazionali). E su cui il ogni caso, all’indomani del voto, l’Europa dovrà farsi carico.
Sul piano delle scelte. E delle risorse.
C’è una relazione forte, infatti, tra la politica economica e la politica della difesa e della sicurezza europea, nel nuovo contesto geopolitico. E ci sono impegni da prendere sul piano degli investimenti, per l’energia, la difesa, la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico e per continuare ad affrontare la twin transition ambientale e digitale, senza ritrovarsi a essere marginali di fronte ai massicci investimenti strategici di Usa e Cina. Da 600 a 1.000 miliardi all’anno per i prossimi dieci anni, secondo calcoli sempre più chiari negli uffici di Bruxelles. Risorse enormi. Da recuperare rafforzando il bilancio comune Ue. E da prendere sui mercati finanziari internazionali, con gli eurobond.
La politica industriale va vista in questo contesto. Come peraltro ripetono da tempo, concordi, le organizzazioni delle imprese di Italia, Francia e Germania e come si è ripetuto anche durante il recente B7.
“L’Europa finora è distratta, ponendo vincoli sempre più stringenti, come il Green Deal, senza tenere conto che il settore manifatturiero genera lavoro e ricchezza”, rileva Nicola Saldutti sul Corriere della Sera (11 maggio), aggiungendo che “serve tempo per riconfigurare un sistema industriale” e dunque per dare alle imprese la cornice politica e gli strumenti per fare fronte alla competitività internazionale.
“L’industria Ue deve ripartire da scienza e innovazione” titola Il Sole24Ore (25 maggio) a proposito delle discussioni sul futuro dell’Europa che hanno animato il recente Festival dell’Economia di Trento. Ancora Saldutti: “Per il nostro Paese, la seconda manifattura europea (primato che va conservato, ma non è automatico) sono proprio le fabbriche la principale garanzia anche per il debito pubblico, per la sue sostenibilità. Forse è venuto il tempo di prendere decisioni. Non prenderle, equivale a perdere”.
Che le misure di “Industria 5.0” per continuare a innovare il sistema produttivo siano ferme, prive di finanziamenti e di scelte concrete, è un serio segnale d’allarme da non sottovalutare. “Il sistema manifatturiero è chiamato a essere flessibile, resiliente e digitale. E la sostenibilità non è più solo attenzione all’ambiente, ma conta anche la componente umana” (Il Sole24Ore, 17 maggio).
Per continuare a ragionare di fabbriche come leva di sviluppo ma anche di sostenibilità sociale, ecco che torna in primo piano la funzione delle nostre imprese medie e medio-grandi, delle cosiddette “multinazionali tascabili”, di quelle eccellenze dell’innovazione e dell’export di cui parla Rossi. E dunque delle filiere produttive, lungo cui aggregare anche le piccole imprese.
Per supportare questo sistema, proprio di fronte alla sfida tecnologica in corso, applicazioni dell’Intelligenza Artificiale compresa, è necessaria pure una diffusione collaborativa della conoscenza, che passa, appunto, per le relazioni di filiera, con competenze tecnologiche in via di continuo aggiornamento. La leva fiscale è fondamentale, per rafforzare il processo.
Serve, insomma, una collaborazione tra tutti i soggetti in campo: “La pubblica amministrazione efficiente, un sistema imprenditoriale aperto e collaborativo e una ricerca di livello internazionale per innescare un circolo virtuoso attrattivo, coinvolgendo imprese, università e centri di ricerca pubblici e privati”, sostiene Ferruccio Resta, ex rettore del Politecnico di Milano e presidente della Fondazione Kessler (Il Sole24Ore, 25 maggio).
È questa, l’idea vera del made in Italy da fare crescere. Innovazione, produttività, competitività globale, sostenibilità ambientale ma soprattutto sociale ed economica. L’industria italiana, che ha già da tempo respiro europeo (meccanica, meccatronica, robotica, automotive e aerospazio, chimica, farmaceutica, gomma, cantieristica navale oltre che i mondi tradizionali dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’agro-industria) si muove proprio in questa direzione. Tocca alla politica fare bene la sua parte nell’interesse del sistema Paese.
(Foto Getty Images)