Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli..

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione e l’accessiblità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o scrivere a visite@fondazionepirelli.org

L’Italian Touch e i fattori della politica industriale: innovazione e sostenibilità

Di cosa parliamo quando diciamo che serve una “politica industriale”? A quali categorie politiche ed economiche è necessario fare riferimento, per dare sostanza concreta alla necessità di rafforzare la competitività e la produttività del sistema Italia, in un mondo segnato dalla “policrisi”, dal conflitto Usa-Cina e dalle difficoltà dell’Europa? Per provare a rispondere, potremmo partire da una frase che gira nel mondo Bmw nell’anno dei record di auto vendute, oltre 2,5 milioni sui mercati internazionali: l’Italian Touch. Un modo per parlare di bellezza, eleganza, design, ma anche di tecnologia d’avanguardia e inclinazione alla sostenibilità (ne ha scritto Il Foglio il 30 gennaio, in un dialogo con il presidente e Ceo di Bmw Italia Massimiliano Di Silvestro).

Che l’Italian Touch sia un modo di dire positivo a Monaco di Baviera, nell’head quartier d’una delle case automobilistiche più sofisticate e innovatrice non significa solo celebrare un omaggio a firme italiane come Giovanni Michelotto e Giorgetto Giugiaro che dagli anni Sessanta agli Ottanta collaborarono al successo della Bmw o ribadire l’apprezzamento per la componentistica automotive italiana (che contribuisce mediamente per un buon terzo al valore di una Bmw). Significa soprattutto dare atto all’industria italiana di una sua inclinazione vincente alla capacità di tenere insieme “bello e ben fatto”, ovvero qualità, estetica, innovazione e sostenibilità.

Ecco il punto: una politica industriale per il made in Italy non può non essere fondata sul sostegno strategico a questi quattro “fattori” di competitività, piuttosto che indicare dei settori specifici su cui investire risorse pubbliche e mettere in campo sostegni fiscali.

In sintesi, una politica industriale utile all’Italia, nel contesto di efficaci scelte di politica industriale della Ue, dovrebbe oggi insistere su quei fattori che siano in grado di rendere le nostre imprese, italiane ed europee, più competitive, in grado cioè di stare su mercati sempre più esigenti e selettivi di fronte alla potenza delle imprese degli Usa, della Cina e, in alcuni settori, anche dell’India.

Un economista attento alle nuove sfide competitive, come Daniel Gros, spiega come l’economia Usa stia crescendo più delle aspettative perché ha saputo puntare non tanto sull’industria (anche se non mancano provvedimenti della Casa Bianca di chiaro stampo protezionista) quanto soprattutto sulle nuove tecnologie (ce ne sono riscontri in un interessante numero della rivista Aspenia, dedicata all’America a un anno dal voto e intitolata “La debolezza della potenza”, acuto ossimoro per invitarci ad andare oltre le letture correnti dell’attuale controversa stagione americana). Nuove tecnologie high tech che, a partire dalla diffusione dell’AI (Artificial Intelligence) e dai servizi digitali, sono fattori che stanno modificando radicalmente produzione, lavoro, consumi, stili di vita, conoscenze, ambiente: una vera e propria “quarta rivoluzione industriale” dopo la macchina a vapore, l’elettricità e Internet.

È l’economia dominata dalle big tech Google, Amazon, Apple, Meta e Microsoft e dalle imprese di Elon Musk, con attenzione speciale per l’Intelligenza Artificiale Generativa e per le ricadute sulla ricerca, la cultura, l’informazione, la comunicazione (con tutti i problemi di ordine etico, sociale e politico correlati). È l’economia che brucia milioni di posti di lavoro e altri ne crea. È l’economia, insomma, su cui si consuma la sfida Usa-Cina e secondo cui si definiscono nuovi equilibri globali (anche da questo punto di vista, mai perdere d’occhio l’India).

E l’Europa? È un grande attore industriale. Il mercato più ricco del mondo. Il centro di un sistema di valori che sinora hanno ispirato una sintesi originale e quanto mai preziosa tra democrazia liberale, mercato e welfare, tra libertà e solidarietà sociale. Ma non è un soggetto politico incisivo, ancora in cerca di ruolo ed equilibrio. E proprio sulle nuove tecnologie è molto indietro rispetto ai grandi protagonisti della “nuova globalizzazione”. Ha un recente sistema di regole, l’Artificial Intelligence Act, che ha avuto il via libera da Commissione, Parlamento e Consiglio d’Europa. Ma non può contare su imprese europee di dimensioni tali da poter fronteggiare la forza dei colossi imprenditoriali americani.

All’orizzonte della Ue c’è dunque una scelta da fare: quella di capire come tenere insieme forza industriale e innovazione high tech e come diventare più compatta, unitaria, efficace. Un attore globale, finalmente. E non un classico vaso di coccio. Una sfida radicale, cui saranno chiamati a rispondere il nuovo Parlamento che eleggeremo a giugno e la nuova Commissione (sperando che non prevalgano le forze nazionaliste, populiste e sovraniste che pensano all’Europa solo come un mercato su cui bilanciare, tra Stati, interessi e convenienze locali ma non come uno spazio politico e  culturale in cui fare crescere valori e da proporre come paradigma democratico dialogante con il resto del mondo).

In questo senso parlare di politica industriale europea (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana) significa definire politiche per l’energia, la sicurezza e dunque la difesa, l’approvvigionamento di materie prime strategiche, la sostenibilità (e quindi anche l’industria e l’agricoltura, superando i limiti dell’attuale Pac, la politica agricola comune contestata dagli agricoltori in inquietante rivolta). E definire gli strumenti finanziari per sostenerla, dagli eurobond al potenziamento del bilancio Ue e alle regole e le prospettive del nuovo Patto di Stabilità e Crescita. Una “strategia di competitività, che non sia però a discapito del welfare e della transizione verde”, per usare le parole di Mario Draghi, che sta preparando un rapporto sul tema, su incarico della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen.

E in Italia? I fattori di competitività, oltre a quelli generali europei, sono legati alla necessità di superare i punti di debolezza della nostra industria. Gli stimoli all’innovazione, innanzitutto, con i vantaggi fiscali per chi investe, innova, brevetta e lavora sulla transizione digitale, secondo lo schema delle misure ex Industria 4.0 e, adesso, Industria 5.0 (ci sono 6,3 miliardi, nel Pnrr, da spendere bene). E poi la diffusione delle applicazioni legate all’Intelligenza artificiale e agli algoritmi per quel che riguarda sia i processi produttivi sia i prodotti. Un lavoro di lunga lena che investe anche la collaborazione tra l’impresa, le università e i centri di ricerca pubblici e privati.

Il secondo fattore di politica industriale su cui investire ha a che fare con la transizione ambientale, superando le ristrettezze di vincoli regolatori e amministrativi tipici delle burocrazie, sia europee che nazionali. Il raccordo con le questioni dell’energia è essenziale, con il rilancio dell’energia atomica. Così come la scelta sulla neutralità tecnologica. Per dirla con un esempio: l’auto elettrica è un’opzione, non un destino generale, lasciando aperte le opzioni sull’uso dell’idrogeno, dei biocarburanti, etc.

Il terzo fattore è relativo alla risposte indispensabili per fare fronte alle carenze di mano d’opera specializzata e con le strategie di formazione necessarie: dalla metallurgia al mobile, dal turismo alle costruzioni, nel Nord Ovest e nel Nord Est le imprese faticano a trovare un profilo su due, in media, tra quelli ricercati (Il Sole24Ore, 29 gennaio).

Serve una formazione di lungo periodo, on the job ma anche segnata da relazioni virtuose tra imprese, Academy aziendali e agenti formativi qualificati (le università, innanzitutto). E con un’idea di fondo, relativa alla crescente diffusione dell’Intelligenza Artificiale di cui abbiamo detto: chi scrive gli algoritmi?

La risposta non può che essere legata alla connotazione dell’industria italiana e alla sua capacità competitiva: la sua “cultura politecnica” che tiene insieme saperi umanistici e conoscenze scientifiche, senso della bellezza e qualità tecnologica, design e ingegneria d’avanguardia. Un algoritmo dunque scritto da ingegneri e cyberscienziati, economisti e sociologi, fisici e statistici, filosofi e giuristi. Persone con una profonda conoscenza delle questioni tecnologiche ma anche sensibili ai temi dell’etica. Sapienza complessa d’un mondo in trasformazione.

L’orizzonte della trasformazione competitiva e dunque delle politiche industriali è ampio. Il nuovo Rinascimento è il nostro orizzonte. Ma è un orizzonte tutt’altro che sereno.

(Foto Getty Images)

Di cosa parliamo quando diciamo che serve una “politica industriale”? A quali categorie politiche ed economiche è necessario fare riferimento, per dare sostanza concreta alla necessità di rafforzare la competitività e la produttività del sistema Italia, in un mondo segnato dalla “policrisi”, dal conflitto Usa-Cina e dalle difficoltà dell’Europa? Per provare a rispondere, potremmo partire da una frase che gira nel mondo Bmw nell’anno dei record di auto vendute, oltre 2,5 milioni sui mercati internazionali: l’Italian Touch. Un modo per parlare di bellezza, eleganza, design, ma anche di tecnologia d’avanguardia e inclinazione alla sostenibilità (ne ha scritto Il Foglio il 30 gennaio, in un dialogo con il presidente e Ceo di Bmw Italia Massimiliano Di Silvestro).

Che l’Italian Touch sia un modo di dire positivo a Monaco di Baviera, nell’head quartier d’una delle case automobilistiche più sofisticate e innovatrice non significa solo celebrare un omaggio a firme italiane come Giovanni Michelotto e Giorgetto Giugiaro che dagli anni Sessanta agli Ottanta collaborarono al successo della Bmw o ribadire l’apprezzamento per la componentistica automotive italiana (che contribuisce mediamente per un buon terzo al valore di una Bmw). Significa soprattutto dare atto all’industria italiana di una sua inclinazione vincente alla capacità di tenere insieme “bello e ben fatto”, ovvero qualità, estetica, innovazione e sostenibilità.

Ecco il punto: una politica industriale per il made in Italy non può non essere fondata sul sostegno strategico a questi quattro “fattori” di competitività, piuttosto che indicare dei settori specifici su cui investire risorse pubbliche e mettere in campo sostegni fiscali.

In sintesi, una politica industriale utile all’Italia, nel contesto di efficaci scelte di politica industriale della Ue, dovrebbe oggi insistere su quei fattori che siano in grado di rendere le nostre imprese, italiane ed europee, più competitive, in grado cioè di stare su mercati sempre più esigenti e selettivi di fronte alla potenza delle imprese degli Usa, della Cina e, in alcuni settori, anche dell’India.

Un economista attento alle nuove sfide competitive, come Daniel Gros, spiega come l’economia Usa stia crescendo più delle aspettative perché ha saputo puntare non tanto sull’industria (anche se non mancano provvedimenti della Casa Bianca di chiaro stampo protezionista) quanto soprattutto sulle nuove tecnologie (ce ne sono riscontri in un interessante numero della rivista Aspenia, dedicata all’America a un anno dal voto e intitolata “La debolezza della potenza”, acuto ossimoro per invitarci ad andare oltre le letture correnti dell’attuale controversa stagione americana). Nuove tecnologie high tech che, a partire dalla diffusione dell’AI (Artificial Intelligence) e dai servizi digitali, sono fattori che stanno modificando radicalmente produzione, lavoro, consumi, stili di vita, conoscenze, ambiente: una vera e propria “quarta rivoluzione industriale” dopo la macchina a vapore, l’elettricità e Internet.

È l’economia dominata dalle big tech Google, Amazon, Apple, Meta e Microsoft e dalle imprese di Elon Musk, con attenzione speciale per l’Intelligenza Artificiale Generativa e per le ricadute sulla ricerca, la cultura, l’informazione, la comunicazione (con tutti i problemi di ordine etico, sociale e politico correlati). È l’economia che brucia milioni di posti di lavoro e altri ne crea. È l’economia, insomma, su cui si consuma la sfida Usa-Cina e secondo cui si definiscono nuovi equilibri globali (anche da questo punto di vista, mai perdere d’occhio l’India).

E l’Europa? È un grande attore industriale. Il mercato più ricco del mondo. Il centro di un sistema di valori che sinora hanno ispirato una sintesi originale e quanto mai preziosa tra democrazia liberale, mercato e welfare, tra libertà e solidarietà sociale. Ma non è un soggetto politico incisivo, ancora in cerca di ruolo ed equilibrio. E proprio sulle nuove tecnologie è molto indietro rispetto ai grandi protagonisti della “nuova globalizzazione”. Ha un recente sistema di regole, l’Artificial Intelligence Act, che ha avuto il via libera da Commissione, Parlamento e Consiglio d’Europa. Ma non può contare su imprese europee di dimensioni tali da poter fronteggiare la forza dei colossi imprenditoriali americani.

All’orizzonte della Ue c’è dunque una scelta da fare: quella di capire come tenere insieme forza industriale e innovazione high tech e come diventare più compatta, unitaria, efficace. Un attore globale, finalmente. E non un classico vaso di coccio. Una sfida radicale, cui saranno chiamati a rispondere il nuovo Parlamento che eleggeremo a giugno e la nuova Commissione (sperando che non prevalgano le forze nazionaliste, populiste e sovraniste che pensano all’Europa solo come un mercato su cui bilanciare, tra Stati, interessi e convenienze locali ma non come uno spazio politico e  culturale in cui fare crescere valori e da proporre come paradigma democratico dialogante con il resto del mondo).

In questo senso parlare di politica industriale europea (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana) significa definire politiche per l’energia, la sicurezza e dunque la difesa, l’approvvigionamento di materie prime strategiche, la sostenibilità (e quindi anche l’industria e l’agricoltura, superando i limiti dell’attuale Pac, la politica agricola comune contestata dagli agricoltori in inquietante rivolta). E definire gli strumenti finanziari per sostenerla, dagli eurobond al potenziamento del bilancio Ue e alle regole e le prospettive del nuovo Patto di Stabilità e Crescita. Una “strategia di competitività, che non sia però a discapito del welfare e della transizione verde”, per usare le parole di Mario Draghi, che sta preparando un rapporto sul tema, su incarico della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen.

E in Italia? I fattori di competitività, oltre a quelli generali europei, sono legati alla necessità di superare i punti di debolezza della nostra industria. Gli stimoli all’innovazione, innanzitutto, con i vantaggi fiscali per chi investe, innova, brevetta e lavora sulla transizione digitale, secondo lo schema delle misure ex Industria 4.0 e, adesso, Industria 5.0 (ci sono 6,3 miliardi, nel Pnrr, da spendere bene). E poi la diffusione delle applicazioni legate all’Intelligenza artificiale e agli algoritmi per quel che riguarda sia i processi produttivi sia i prodotti. Un lavoro di lunga lena che investe anche la collaborazione tra l’impresa, le università e i centri di ricerca pubblici e privati.

Il secondo fattore di politica industriale su cui investire ha a che fare con la transizione ambientale, superando le ristrettezze di vincoli regolatori e amministrativi tipici delle burocrazie, sia europee che nazionali. Il raccordo con le questioni dell’energia è essenziale, con il rilancio dell’energia atomica. Così come la scelta sulla neutralità tecnologica. Per dirla con un esempio: l’auto elettrica è un’opzione, non un destino generale, lasciando aperte le opzioni sull’uso dell’idrogeno, dei biocarburanti, etc.

Il terzo fattore è relativo alla risposte indispensabili per fare fronte alle carenze di mano d’opera specializzata e con le strategie di formazione necessarie: dalla metallurgia al mobile, dal turismo alle costruzioni, nel Nord Ovest e nel Nord Est le imprese faticano a trovare un profilo su due, in media, tra quelli ricercati (Il Sole24Ore, 29 gennaio).

Serve una formazione di lungo periodo, on the job ma anche segnata da relazioni virtuose tra imprese, Academy aziendali e agenti formativi qualificati (le università, innanzitutto). E con un’idea di fondo, relativa alla crescente diffusione dell’Intelligenza Artificiale di cui abbiamo detto: chi scrive gli algoritmi?

La risposta non può che essere legata alla connotazione dell’industria italiana e alla sua capacità competitiva: la sua “cultura politecnica” che tiene insieme saperi umanistici e conoscenze scientifiche, senso della bellezza e qualità tecnologica, design e ingegneria d’avanguardia. Un algoritmo dunque scritto da ingegneri e cyberscienziati, economisti e sociologi, fisici e statistici, filosofi e giuristi. Persone con una profonda conoscenza delle questioni tecnologiche ma anche sensibili ai temi dell’etica. Sapienza complessa d’un mondo in trasformazione.

L’orizzonte della trasformazione competitiva e dunque delle politiche industriali è ampio. Il nuovo Rinascimento è il nostro orizzonte. Ma è un orizzonte tutt’altro che sereno.

(Foto Getty Images)

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?