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Lo sgarbato whatsapp dei licenziamenti in tronco e la civiltà del dialogo dell’impresa riformista

C’è in Italia una solida tradizione di civiltà del lavoro che fa, ancora adesso, da punto di riferimento per le imprese attente, pure in tempo di crisi, alle buone regole delle relazioni industriali. Ed è a questa cultura d’impresa che si richiama Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato e vicepresidente esecutivo di Pirelli, quando affronta il tema dei recenti licenziamenti in due imprese, Gkn e Giannetti, controllate da fondi d’investimento internazionali. Licenziamenti comunicati ai dipendenti via sms e whatsapp. Al di là della fondatezza o meno delle ragioni economiche che portano alla chiusura delle imprese, è il modo della scelta e della comunicazione che fa discutere. Sostiene Tronchetti: “Credo che la cultura della responsabilità debba fare parte anche delle scelte dei fondi, perché pure nel loro caso a prendere le decisioni sono le persone. Dovrebbe sempre esserci questo senso di responsabilità, che non vuol dire non fare gli interessi dei propri investitori, vuol dire l’opposto”. In sintesi: “Anche chi non è direttamente coinvolto nel Paese credo debba comunque rispettarne la struttura sociale” (intervista a “la Repubblica”, 13 luglio).

Ci sono, insomma, regole, ma anche forme da rispettare, pur nel corso di acute crisi aziendali: “La responsabilità dell’impresa, dell’imprenditore – sostiene Tronchetti – è quella di fare le scelte meno dannose per chi lavora all’interno delle aziende. Ci sono gli ammortizzatori sociali, gli strumenti per poter passare un periodo di crisi dando alle persone, alle famiglie, una prospettiva per il loro futuro”. E in questo quadro di attenzione, “il dialogo resta comunque imprescindibile, anche quando licenziare diventa l’unica strada percorribile”. Quindi, “il percorso esiste, è un percorso sempre più faticoso ovviamente, ma è l’unico che si può seguire”.

La storia italiana racconta una lunga e complessa evoluzione delle relazioni industriali che, proprio nel dialogo tra impresa e sindacato, ha trovato molto spesso soluzioni innovative per uscire dalle crisi, rivedendo criticamente i fattori di competitività. La tradizione e l’attualità della Pirelli e di parecchie altre imprese responsabili ne sono importanti testimonianze.

Sempre da questo dialogo, pur spesso ruvido, aspro, sincero tra le parti sociali e le loro rappresentanze (con la mediazione dei pubblici poteri) sono emerse, nel corso dello sviluppo del’economia italiana, anche nelle stagioni più difficili, scelte che hanno permesso ripresa e rilancio.

Scelte di politica industriale, per migliorare l’ambiente competitivo a vantaggio dell’impresa. Scelte economiche per l’efficienza e la trasparenza del mercato. Scelte sugli ammortizzatori sociali, per ridurre l’impatto delle crisi e delle trasformazioni sulle persone, i lavoratori, le loro famiglie e per salvaguardare non il singolo posto di lavoro com’era, ma le professionalità e le competenze dei lavoratori, utili verso nuovi posti di lavoro.

Le vicende specifiche di Gkn e Giannetti, insieme alle tante altre storie di crisi aziendali, stanno sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. E ogni crisi ha radici, caratteristiche specifiche, ragioni ed errori, possibilità o meno di soluzioni.

Resta comunque, come evidenzia Tronchetti, un punto comune: il senso di responsabilità dell’impresa nei confronti dei territori e delle comunità da cui ha ricavato forza, conoscenze, creatività, spinta produttiva. E resta dunque l’impegno per la ricerca, comunque, di una soluzione alla crisi o di una modalità civile di gestione della parte finale della crisi se, fallito ogni tentativo di ripresa, si vada alla chiusura. Gli ammortizzatori sociali faranno il loro ruolo.

Ammortizzatori – ecco il punto – da riformare, migliorare, rendere molto più efficaci proprio in una stagione in cui le spinte della globalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie digitali stanno radicalmente trasformando i contesti economici, le caratteristiche competitive delle imprese, le forme del lavoro e l’organizzazione di produzioni e servizi.

Il governo Draghi è consapevole della necessità e dell’urgenza di questa riforma: non sussidi dal sapore assistenziale, ma investimenti e sostegni per la formazione professionale, la ricollocazione, il superamento dell’attuale mismatch tra domanda e offerta di lavoro, tra le imprese che non riescono a trovare i lavoratori professionalizzati che cercano e i lavoratori che chiedono, senza risposte adeguatae, un’occupazione.

Torniamo dunque al punto delle relazioni industriali, del dialogo, delle riforme, della responsabilità dell’impresa.

La teoria e la pratica dell’economia dicono che ogni impresa ha il suo ciclo di vita. E non esistono “variabili indipendenti”. Non lo è il salario, slegato dalla produttività e dalla competitività dell’impresa (come aveva teorizzato e cercato di praticare il sindacato, nei conflittuali anni Settanta). Non lo è il profitto, se ricercato  ossessivamente nel tempo breve tipico della speculazione finanziaria. Non lo è neppure la salvaguardia ostinata del posto di lavoro, quando l’impresa non è più in grado di stare sul mercato. Né l’intervento pubblico per acquisire l’impresa in crisi, a dispetto di ogni ragione economica (le esperienze fallimentari dell’Egam e dell’Efim degli anni Settanta e Ottanta e di alcune aziende municipalizzate fanno da monito severo).

Ma sempre teoria e pratica documentano come profitto, salario, lavoro e competitività possano stare bene insieme, nell’impresa che investe, innova, segue o meglio ancora anticipa del mercato e adotta tutti i cambiamenti necessari (prodotti, produzione, governance, marketing, comunicazione) all’evoluzione di consumi e costumi. E nel contesto di una politica industriale che favorisca l’innovazione.

Sta proprio qui, lo snodo della crisi. Negli investimenti. Nel rinnovamento. In una cultura d’impresa attenta ai cambiamenti, alle sfide competitive in tempi di transizione ecologica e digitale.

Tutto questo, con uno sbrigativo whatsapp di licenziamento, non c’entra proprio nulla.

C’è in Italia una solida tradizione di civiltà del lavoro che fa, ancora adesso, da punto di riferimento per le imprese attente, pure in tempo di crisi, alle buone regole delle relazioni industriali. Ed è a questa cultura d’impresa che si richiama Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato e vicepresidente esecutivo di Pirelli, quando affronta il tema dei recenti licenziamenti in due imprese, Gkn e Giannetti, controllate da fondi d’investimento internazionali. Licenziamenti comunicati ai dipendenti via sms e whatsapp. Al di là della fondatezza o meno delle ragioni economiche che portano alla chiusura delle imprese, è il modo della scelta e della comunicazione che fa discutere. Sostiene Tronchetti: “Credo che la cultura della responsabilità debba fare parte anche delle scelte dei fondi, perché pure nel loro caso a prendere le decisioni sono le persone. Dovrebbe sempre esserci questo senso di responsabilità, che non vuol dire non fare gli interessi dei propri investitori, vuol dire l’opposto”. In sintesi: “Anche chi non è direttamente coinvolto nel Paese credo debba comunque rispettarne la struttura sociale” (intervista a “la Repubblica”, 13 luglio).

Ci sono, insomma, regole, ma anche forme da rispettare, pur nel corso di acute crisi aziendali: “La responsabilità dell’impresa, dell’imprenditore – sostiene Tronchetti – è quella di fare le scelte meno dannose per chi lavora all’interno delle aziende. Ci sono gli ammortizzatori sociali, gli strumenti per poter passare un periodo di crisi dando alle persone, alle famiglie, una prospettiva per il loro futuro”. E in questo quadro di attenzione, “il dialogo resta comunque imprescindibile, anche quando licenziare diventa l’unica strada percorribile”. Quindi, “il percorso esiste, è un percorso sempre più faticoso ovviamente, ma è l’unico che si può seguire”.

La storia italiana racconta una lunga e complessa evoluzione delle relazioni industriali che, proprio nel dialogo tra impresa e sindacato, ha trovato molto spesso soluzioni innovative per uscire dalle crisi, rivedendo criticamente i fattori di competitività. La tradizione e l’attualità della Pirelli e di parecchie altre imprese responsabili ne sono importanti testimonianze.

Sempre da questo dialogo, pur spesso ruvido, aspro, sincero tra le parti sociali e le loro rappresentanze (con la mediazione dei pubblici poteri) sono emerse, nel corso dello sviluppo del’economia italiana, anche nelle stagioni più difficili, scelte che hanno permesso ripresa e rilancio.

Scelte di politica industriale, per migliorare l’ambiente competitivo a vantaggio dell’impresa. Scelte economiche per l’efficienza e la trasparenza del mercato. Scelte sugli ammortizzatori sociali, per ridurre l’impatto delle crisi e delle trasformazioni sulle persone, i lavoratori, le loro famiglie e per salvaguardare non il singolo posto di lavoro com’era, ma le professionalità e le competenze dei lavoratori, utili verso nuovi posti di lavoro.

Le vicende specifiche di Gkn e Giannetti, insieme alle tante altre storie di crisi aziendali, stanno sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. E ogni crisi ha radici, caratteristiche specifiche, ragioni ed errori, possibilità o meno di soluzioni.

Resta comunque, come evidenzia Tronchetti, un punto comune: il senso di responsabilità dell’impresa nei confronti dei territori e delle comunità da cui ha ricavato forza, conoscenze, creatività, spinta produttiva. E resta dunque l’impegno per la ricerca, comunque, di una soluzione alla crisi o di una modalità civile di gestione della parte finale della crisi se, fallito ogni tentativo di ripresa, si vada alla chiusura. Gli ammortizzatori sociali faranno il loro ruolo.

Ammortizzatori – ecco il punto – da riformare, migliorare, rendere molto più efficaci proprio in una stagione in cui le spinte della globalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie digitali stanno radicalmente trasformando i contesti economici, le caratteristiche competitive delle imprese, le forme del lavoro e l’organizzazione di produzioni e servizi.

Il governo Draghi è consapevole della necessità e dell’urgenza di questa riforma: non sussidi dal sapore assistenziale, ma investimenti e sostegni per la formazione professionale, la ricollocazione, il superamento dell’attuale mismatch tra domanda e offerta di lavoro, tra le imprese che non riescono a trovare i lavoratori professionalizzati che cercano e i lavoratori che chiedono, senza risposte adeguatae, un’occupazione.

Torniamo dunque al punto delle relazioni industriali, del dialogo, delle riforme, della responsabilità dell’impresa.

La teoria e la pratica dell’economia dicono che ogni impresa ha il suo ciclo di vita. E non esistono “variabili indipendenti”. Non lo è il salario, slegato dalla produttività e dalla competitività dell’impresa (come aveva teorizzato e cercato di praticare il sindacato, nei conflittuali anni Settanta). Non lo è il profitto, se ricercato  ossessivamente nel tempo breve tipico della speculazione finanziaria. Non lo è neppure la salvaguardia ostinata del posto di lavoro, quando l’impresa non è più in grado di stare sul mercato. Né l’intervento pubblico per acquisire l’impresa in crisi, a dispetto di ogni ragione economica (le esperienze fallimentari dell’Egam e dell’Efim degli anni Settanta e Ottanta e di alcune aziende municipalizzate fanno da monito severo).

Ma sempre teoria e pratica documentano come profitto, salario, lavoro e competitività possano stare bene insieme, nell’impresa che investe, innova, segue o meglio ancora anticipa del mercato e adotta tutti i cambiamenti necessari (prodotti, produzione, governance, marketing, comunicazione) all’evoluzione di consumi e costumi. E nel contesto di una politica industriale che favorisca l’innovazione.

Sta proprio qui, lo snodo della crisi. Negli investimenti. Nel rinnovamento. In una cultura d’impresa attenta ai cambiamenti, alle sfide competitive in tempi di transizione ecologica e digitale.

Tutto questo, con uno sbrigativo whatsapp di licenziamento, non c’entra proprio nulla.

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