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L’utilità della cultura classica per scienza e impresa: si rilegge Gramsci, se ne discute sulle pagine de “Il Sole24Ore”

“In difesa del liceo classico”, scrivono Nicola Gardini, umanista e Guido Tonelli, fisico del Cern di Ginevra e professore all’università di Pisa. E affidano le loro riflessioni alle pagine de “Il Sole24Ore”, sull’inserto della Domenica (28 agosto), tradizionalmente attento alla grande cultura e dunque anche alla migliore cultura d’impresa. “Studiare la storia e la lingua greca e romana – spiega Gardini – insegna a parlare, scrivere, pensare. E soprattutto a interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, capire la libertà, la bellezza, la concordia”. E Tonelli racconta d’un suo recente incontro con Michael Hugo Leiters, tedesco, top manager della Ferrari, sulle relazioni tra il lavoro d’uno scienziato e quello di un uomo d’azienda, nel segno dell’innovazione. E su un punto i due si appassionano: la comune formazione classica. Indispensabile, concordano, per uno scienziato e un dirigente d’azienda. Umanesimo e scienza. Formazione di base ricca di complessità e utilissima proprio oggi che scienza ed economia pervadono come non mai la nostra vita (“Genomica, bionica e robotica stanno per generare un salto evolutivivo nella nostra specie. Che andrà oltre il semplice potenziamento fisico. E potrebbe toccare anche la nostra coscienza”, avverte L’Espresso, 28 agosto). Capire, per fare. Incrociare dunque filosofia e scienza. Come proprio i Greci hanno raccontato al mondo. Diventando protagonisti d’una cultura definita “classica” e che ai loro tempi era il massimo del paradigma della contemporaneità.

Le testimonianze di Gardini e Tonelli arricchiscono un interessante dibattito che tra luglio e agosto si è sviluppato sulla Rete, appunto sull’utilità degli studi classici e dunque sulle questioni chiave della qualità dell’educazione, dell’utilità degli studi, del rapporto tra scuola e lavoro, della formazione d’una coscienza critica. Partendo dalla rilettura d’un passaggio delle “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci. Una riflessione generale, di straordinaria attualità. Vediamo meglio.

Scrive Gramsci: “Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno”.

Insiste Gramsci: “Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete”. Gramsci pone qui anche una interessante apertura, verso altre discipline formative, oltre il latino e il greco, in chiave di “educazione generale”. E lo spunto può essere utile per insistere su una questione d’attualità: l’importanza di una seria formazione scientifica, carente, nelle scuole italiane ma indispensabile non solo e non tanto in chiave di strumento di sviluppo economico, ma soprattutto in termini di consapevolezza civile, di cittadinanza responsabile (sulle questioni scientifiche, di bio-etica, di ambiente, etc. che incidono sulla nostra vita quotidiana). Una formazione da “cultura politecnica”. Cui riconduce la stessa lezione gramsciana. Il greco, d’altronde – val la pena ricordarlo – non è solo la lingua dei filosofi, dei poeti e dei drammaturghi, ma anche degli scienziati, dei matematici, degli astronomi: la lingua d’una cultura scientifica che fa da base dei nostri saperi attuali. D’una civiltà – riecco una parola chiave – appunto “politecnica”.

C’è, nelle pagine dei “Quaderni”, una indicazione precisa, sull’utilità dello studio. E’ scritta negli anni Trenta, altre stagioni storiche, altre tempeste politiche e ideali (Gramsci, leader del Pci, era nelle carcere del regime fascista, ma era molto criticato anche da membri del suo partito sensibili all’ortodossia comunista sovietica). Eppure lì, nel chiuso di una cella, aveva ben chiara la lezione storica della cultura italiana e l’esigenza di porre le basi, oltre il fascismo, d’una nuova democrazia, popolare e partecipata. Coinvolgendo appunto la scuola: “Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni ‘cittadino’ può diventare ‘governante’ e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare”. Concetti chiave. Che sarebbero stati ripresi qualche anno dopo da un altro grande studioso italiano, Piero Calamandrei, liberale, uno dei “padri costituenti” e poi racconti in un libro prezioso, “Per la scuola”, ripubbblicato nel 2008 da Sellerio (“Non si ha vera democrazia là dove l’accesso all’istruzione non è garantito in pari misura a tutti”).

Studio come diritto, dunque. E contemporaneamente come dovere. Nota Gramsci: “Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psicofisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite”.

“In difesa del liceo classico”, scrivono Nicola Gardini, umanista e Guido Tonelli, fisico del Cern di Ginevra e professore all’università di Pisa. E affidano le loro riflessioni alle pagine de “Il Sole24Ore”, sull’inserto della Domenica (28 agosto), tradizionalmente attento alla grande cultura e dunque anche alla migliore cultura d’impresa. “Studiare la storia e la lingua greca e romana – spiega Gardini – insegna a parlare, scrivere, pensare. E soprattutto a interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, capire la libertà, la bellezza, la concordia”. E Tonelli racconta d’un suo recente incontro con Michael Hugo Leiters, tedesco, top manager della Ferrari, sulle relazioni tra il lavoro d’uno scienziato e quello di un uomo d’azienda, nel segno dell’innovazione. E su un punto i due si appassionano: la comune formazione classica. Indispensabile, concordano, per uno scienziato e un dirigente d’azienda. Umanesimo e scienza. Formazione di base ricca di complessità e utilissima proprio oggi che scienza ed economia pervadono come non mai la nostra vita (“Genomica, bionica e robotica stanno per generare un salto evolutivivo nella nostra specie. Che andrà oltre il semplice potenziamento fisico. E potrebbe toccare anche la nostra coscienza”, avverte L’Espresso, 28 agosto). Capire, per fare. Incrociare dunque filosofia e scienza. Come proprio i Greci hanno raccontato al mondo. Diventando protagonisti d’una cultura definita “classica” e che ai loro tempi era il massimo del paradigma della contemporaneità.

Le testimonianze di Gardini e Tonelli arricchiscono un interessante dibattito che tra luglio e agosto si è sviluppato sulla Rete, appunto sull’utilità degli studi classici e dunque sulle questioni chiave della qualità dell’educazione, dell’utilità degli studi, del rapporto tra scuola e lavoro, della formazione d’una coscienza critica. Partendo dalla rilettura d’un passaggio delle “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci. Una riflessione generale, di straordinaria attualità. Vediamo meglio.

Scrive Gramsci: “Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno”.

Insiste Gramsci: “Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete”. Gramsci pone qui anche una interessante apertura, verso altre discipline formative, oltre il latino e il greco, in chiave di “educazione generale”. E lo spunto può essere utile per insistere su una questione d’attualità: l’importanza di una seria formazione scientifica, carente, nelle scuole italiane ma indispensabile non solo e non tanto in chiave di strumento di sviluppo economico, ma soprattutto in termini di consapevolezza civile, di cittadinanza responsabile (sulle questioni scientifiche, di bio-etica, di ambiente, etc. che incidono sulla nostra vita quotidiana). Una formazione da “cultura politecnica”. Cui riconduce la stessa lezione gramsciana. Il greco, d’altronde – val la pena ricordarlo – non è solo la lingua dei filosofi, dei poeti e dei drammaturghi, ma anche degli scienziati, dei matematici, degli astronomi: la lingua d’una cultura scientifica che fa da base dei nostri saperi attuali. D’una civiltà – riecco una parola chiave – appunto “politecnica”.

C’è, nelle pagine dei “Quaderni”, una indicazione precisa, sull’utilità dello studio. E’ scritta negli anni Trenta, altre stagioni storiche, altre tempeste politiche e ideali (Gramsci, leader del Pci, era nelle carcere del regime fascista, ma era molto criticato anche da membri del suo partito sensibili all’ortodossia comunista sovietica). Eppure lì, nel chiuso di una cella, aveva ben chiara la lezione storica della cultura italiana e l’esigenza di porre le basi, oltre il fascismo, d’una nuova democrazia, popolare e partecipata. Coinvolgendo appunto la scuola: “Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni ‘cittadino’ può diventare ‘governante’ e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare”. Concetti chiave. Che sarebbero stati ripresi qualche anno dopo da un altro grande studioso italiano, Piero Calamandrei, liberale, uno dei “padri costituenti” e poi racconti in un libro prezioso, “Per la scuola”, ripubbblicato nel 2008 da Sellerio (“Non si ha vera democrazia là dove l’accesso all’istruzione non è garantito in pari misura a tutti”).

Studio come diritto, dunque. E contemporaneamente come dovere. Nota Gramsci: “Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psicofisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite”.

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